Aaron Pettinari, Jamil El Sadi e Marta Capaccioni
Al Circolo Tennis di Palermo con Saverio Lodato presentato “I nemici della giustizia”
“Nel 2022, a trent’anni delle stragi, la nostra realtà politica è ancora condizionata da soggetti che sono stati condannati per mafia. Non che sono stati indagati, ma condannati. E non mi dà nemmeno tanta specie e paura questo, ma l’accettazione di questa situazione come normale”. E’ una considerazione tanto amara quanto drammatica quella che il consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo, ha fatto ieri sera in occasione della presentazione del libro “I nemici della giustizia” (ed. Rizzoli), scritto assieme al giornalista e scrittore Saverio Lodato.
Il riferimento è al ritorno nel panorama della politica, seppur come “direttori” dietro le quinte, di due pregiudicati: Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro.
“Ci sono dei momenti in cui questo Paese sembra che torni indietro e ci sono momenti in cui questa città sembra che torni indietro – ha proseguito Di Matteo – Poco più di due settimane fa, aprendo le pagine dei quotidiani nazionali, a proposito di scelte che dovranno essere fatte sui candidati sindaci a Palermo, ho letto che in quel giorno avevano preso posizione, per cercare di orientare le scelte dei partiti su alcuni candidati, da una parte l’ex senatore Dell’Utri, che si diceva in quegli articoli essere stato inviato dall’onorevole Berlusconi in Sicilia per risolvere il problema della candidatura, e dall’altra parte l’ex Presidente della Regione Cuffaro, che cercava di orientare la scelta verso candidati graditi a lui e alla sua parte politica”. Entrambi, ha proseguito il magistrato, “sono due soggetti che hanno scontato la loro pena e che quindi hanno diritto di esprimere le loro opinioni. Sono interdetti da pubblici uffici, quindi non possono assumere in prima persona incarichi politici o incarichi pubblici, ma io pensavo questo. Non che sono stati indagati, ma condannati. E non mi dà nemmeno tanta specie e paura questo, ma l’accettazione di questa situazione come normale. Il fatto che nessuno, o pochi, sottolinei questa situazione di fatto che non è uno stigma perenne nei confronti dei soggetti che hanno scontato la loro condanna, ma è una constatazione. Oggi viene accettato che il candidato, o uno dei candidati a sindaco di questa città, venga deciso con l’apporto fondamentale di un soggetto, Marcello Dell’Utri, che una sentenza definitiva dice essere stato il garante e primo artefice di un patto intervenuto tra l’allora imprenditore Berlusconi e Cosa nostra. Queste sono sentenze definitive, ma fa comodo a tutti ignorarle, ignorare i fatti”.
L’incontro, per certi versi “intimo” e “raccolto”, si è tenuto alla presenza di un’ottantina di persone (in particolare i soci del circolo, ma non solo), tra cui anche i giovani ragazzi del Movimento culturale e artistico Our Voice, presente con una delegazione.
Gli argomenti sulla giustizia
Ad entrare negli argomenti affrontati dal libro, in precedenza era intervenuto Saverio Lodato che ha evidenziato l’importanza di un incontro a Palermo, città “lastricata di esecuzioni di magistrati, giudici, pubblici ministeri che facevano il loro dovere”. “Mai come in questo momento, in Italia, c’è una discussione forte e approfondita, per certi versi anche feroce, sul tema della giustizia – ha ricordato – E oltre a questo libro, sono in vendita tanti altri libri di tanti altri magistrati, colleghi del dottor Di Matteo, che esprimono i punti di vista sull’argomento giustizia e sulla necessità della riforma della giustizia. E allora mi viene una domanda: quale è il Paese in Europa in cui, da decenni e decenni, non si fa altro che discutere quotidianamente di questione giustizia? Io credo che non esista un Paese in Europa dove l’argomento della giustizia è al primo posto nel calendario nelle agende dei vari governi che si susseguono. In quale paese Europeo negli ultimi trent’anni sono stati avviati una decina, se non di più, di tentativi di riforma su questo argomento?”. “Non è un caso che in Italia questa discussione non sia una discussione serena – ha proseguito il nostro editorialista – proprio perché l’Italia è il Paese in Europa che vede da quasi un secolo e mezzo l’esistenza di un’organizzazione mafiosa, che si chiama Cosa nostra, e in anni successivi di altre organizzazioni mafiose. Abbiamo in Italia una forza delle organizzazioni criminali che non esiste in nessun Paese europeo”. Evidenziando come in Italia, rispetto ad altri Paesi europei, vi sia stato il numero più alto di magistrati uccisi dalle mafie e dal terrorismo, Lodato ha evidenziato come “in Italia vi sia l’esistenza di tre tra i poteri criminali più forti che esistono in Europa” e che il nostro è il “Paese con il tasso di corruzione più alto di quelle che una volta si chiamavano classi dominanti e, potremmo dire, con il tasso più alto che coinvolge la classe politica nel suo complesso, senza distinzione destra, sinistra e centro”.
Per tutti questi motivi, forse, “discutere di Giustizia in Italia è difficile. Non è sufficiente dire che ci sono le leggi, i codici, i processi e chi rappresenta l’accusa e la difesa, e chi emette le sentenze. In Italia non funziona così. Perché le sentenze devono essere rimesse in discussione, soprattutto quando sono sentenze di colpevolezza. Perché le classi dominanti non ci stanno a farsi processare, peggio che mai farsi condannare. Perché le organizzazioni mafiose, e questo la storia ed i processi ce lo dimostrano, hanno fatto di tutto per tentare, spesso riuscendoci, per corrompere i giudici, i collegi giudicanti, per zittire i testimoni. Tutti questi convitati di pietra partecipano e si siedono anche loro a qualunque riforma. Altrimenti quale è la necessità di metter mano, ogni governo, ad una nuova riforma”. Lodato ha ricordato la modifica di qualche anno addietro sul “processo giusto”. “Cosa vuol dire un processo giusto? Che i processi di prima erano ingiusti o persecutori? Certo ci sono state responsabilità di una parte di magistratura che ha accettato un collateralismo con la politica che inevitabilmente non era interessata al funzionamento della giustizia, ma interessata ad una giustizia che non intralciasse il manovratore. E’ storia degli ultimi giorni quanti sono stati i casi di parlamentari e senatori per cui non è stata concessa dal Parlamento, autorizzazione a procedere”. “Cosa ci vuole in Italia affinché un politico venga ritenuto dai suoi stessi colleghi meritevole di andare a processo? – ha detto con forza il giornalista – Questo ancora non lo abbiamo capito, ma questo dà la misura di quanto questo tema sia delicato proprio perché va a colpire interessi, sensibilità e resistenze”.
La riforma Cartabia
Lodato ha evidenziato come nell’ultima riforma della giustizia “Cartabia” siano state ignorate le riserve sulla prescrizione di magistrati come Di Matteo, Caselli, Scarpinato e Gratteri. “Li ha ignorati perché si considera un manovratore che non deve essere disturbato. La domanda è: dove vuole condurre il convoglio che lei intende manovrare da sola e con ogni probabilità con la benedizione del suo Premier o comunque con quella maggioranza governativa che lei esprime come ministro della Giustizia? Perché in qualunque Paese normale il ministro della Giustizia avrebbe accettato le critiche, le avrebbe discusse, si sarebbe seduta attorno a un tavolo di fronte all’opinione pubblica di questo Paese. E’ la dimostrazione di un atteggiamento di prevenzione”. Nel libro si parla della Riforma, del Referendum, entrando nel merito di singole questioni che ad oggi restano sotto silenzio. “Negli slogan televisivi – ha ricordato – c’è una raffica di alternative sottoposte all’ascoltatore: separazione delle carriere, sì o no? Le porte girevoli per i magistrati. Di Matteo li conta i magistrati in Parlamento, sono tre. E poi conta gli avvocati che sono 132. Non c’è nessuno e non c’è una ministra della Giustizia che sollevi una questione così preponderante non della presenza degli avvocati, che hanno diritto ed il dovere di essere rappresentati in Parlamento, ma di una forma di incompatibilità che, come si chiede ai magistrati, andrebbe chiesta agli avvocati. Perché l’avvocato che partecipa al dibattito Parlamentare è lo stesso che partecipa alle modifiche delle leggi seguendo un interesse che può essere anche l’interesse dell’assistito. Per non parlare poi delle autorizzazioni a procedere”.
La crisi della magistratura
La questione della crisi della magistratura è stata nuovamente affrontata da Di Matteo il quale ha evidenziato come “la credibilità e l’autorevolezza della magistratura è al minimo storico; i cittadini non si fidano più dei magistrati, e questo non è solo il frutto degli scandali che sono venuti a galla finalmente a partire dal 2019 con la vicenda dell’inchiesta sul dottore Palamara, ma è il frutto di un grave e progressivo deterioramento dovuto ad una vera e propria metastasi che si è diffusa nel corpo della magistratura lentamente ed inesorabilmente, attraverso vari fenomeni. Il fenomeno del correntismo, il fenomeno del carrierismo che ha pervaso la magistratura come se fosse importante accedere ai posti direttivi o semi direttivi di procure e tribunali e non svolgere bene e approfonditamente il proprio ruolo di magistrato, il fenomeno collateralismo con altri poteri dello Stato, ma anche un fenomeno che ho vissuto in questi 30 anni di carriera con grande amarezza, la burocratizzazione del ruolo del magistrato, anche attraverso una forma di gerarchizzazione strisciante degli uffici inquirenti, delle procure della Repubblica che costituiscono il cuore pulsante dell’attività del magistrato”. E poi ancora: “C’è in Italia chi vuole approfittare del momento di debolezza della magistratura per attuare un vero e proprio regolamento di conti con la magistratura, mosso da due finalità specifiche: una finalità di vendetta nei confronti di quella parte della magistratura che ha preteso, in ossequio della costituzione di esercitare controllo sulla legalità veramente a 360 gradi, non soltanto nei confronti dei cosiddetti delinquenti comuni, non soltanto nei confronti della criminalità dei disperati, ma anche nei confronti della criminalità dei colletti bianchi, delle classi dirigenti, della criminalità, nell’esercizio del potere anche politico ed istituzionale. E dall’altra parte prevenzione: non si vuole che emergano questi fenomeni, che poi hanno trovato nelle inchieste siciliane su mafia e politica, nelle grandi inchieste milanesi su Tangentopoli la loro punta dell’iceberg, non si vuole che questo tipo di magistratura possa recare disturbo al potere, che non è soltanto il potere politico. Sarebbe stupido e superficiale, ma è il potere nelle sue varie declinazioni, del mondo economico, finanziario, istituzionale”.
Di Matteo ha anche ricordato il lungo applauso ricevuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel giorno del suo insediamento nel momento in cui fece riferimento alla crisi della magistratura ed alla necessità di una riforma. “E’ stato il più lungo e scrosciante e più plateale da parte di tutti i parlamentari e in quel momento ho avvertito in maniera simbolicamente forte come molti di quegli applausi fossero il frutto di una volontà di rivalsa nei confronti della magistratura. So che queste opinioni, convinzioni potranno non essere condivise da molti di voi ma io sinceramente le devo esporre. Questa voglia di rivalsa si sta a mio avviso concretizzando in una serie di iniziative, di riforme e di proposte per la riforma che in realtà, benché vengano spacciate come iniziative per rendere la giustizia più efficace, più efficiente e più veloce, hanno un altro scopo: quello di rendere in qualche modo la magistratura come potere collaterale e servente rispetto al potere politico”.
Porte girevoli e bavagli ai pm
Parlando del tema delle cosiddette “porte girevoli”, secondo Di Matteo, “il problema sarebbe facilmente risolvibile attraverso due previsioni, due paletti, sui quali sono assolutamente d’accordo: il primo che magistrato non possa candidarsi nello stesso territorio dove ha esercitato fino al giorno prima le funzioni di pubblico ministero o di giudice. Il secondo che una volta esercitate le funzioni politiche non torni a fare il magistrato. Questo è il problema delle porte girevoli. Oggi invece quello che sta passando con questo progetto di riforma è un tentativo incostituzionale, perché contrario all’articolo 51 della Costituzione che consente a tutti i cittadini e quindi anche ai magistrati, a parità di condizioni, di concorrere per le cariche elettive. Il problema è quello di evitare che un magistrato o un ex magistrato possa entrare in politica, quando invece il contributo che un ex magistrato potrebbe dare, potrebbe essere, come storicamente avvenuto, molto importante. In questa legislatura sono 3 i magistrati (tra magistrati ed ex magistrati), in quella precedente 18 e in quella ancora precedente 36. Prima c’era la corsa di tutti i partiti a candidare magistrati, adesso i magistrati non devono concorrere, anche abbandonando la toga, alla vita politica del Paese. I magistrati devono stare zitti, non devono esprimere opinioni, non devono scrivere libri, non devono informare l’opinione pubblica anche rispetto a fatti e circostanze emerse nei processi e nelle indagini non più coperte dal segreto”. Di Matteo ha quindi denunciato il “bavaglio” messo dalla riforma Cartabia nel momento in cui “i magistrati non possono più informare l’opinione pubblica di quanto è emerso nei processi. Non si fa nemmeno distinzione tra processi definitivamente conclusi e processi in corso di svolgimento. Può parlare soltanto, ove ricorrono eccezionali ragioni di interesse pubblico, attraverso un comunicato stampa, il procuratore della Repubblica. I cittadini verranno inondati da ricostruzioni fatte dagli avvocati, ed è giusto che ci siano, dagli imputati, ed è giusto che ci siano, dai parenti degli imputati e dei condannati, ed è giusto che ci siano, ma su quello che è accaduto nel periodo delle stragi in Italia potranno parlare i parenti di Riina e Provenzano, ma non potranno parlare i magistrati. Su quello che è accaduto nel lungo periodo degli anni 70/80 con lo stragismo terroristico di destra e di sinistra, con la complicità certe volte di apparati dello Stato, e non sto parlando per ipotesi ma anche rispetto a sentenze passate in giudicato, potranno parlare tutti ma non quei magistrati che allora hanno avuto il coraggio di portare avanti determinate indagini e determinati processi”.
Sulla separazione delle carriere il consigliere togato ha ricordato come essa “porterà alla perdita da parte del pubblico ministero della cultura della giurisdizione, della cultura della terzietà, porterà il pubblico ministero, separato dal giudice e sganciato dall’ottica della giurisdizione, a diventare un super poliziotto, la longa manus delle forze di polizia nel processo. E questa sarebbe quella che vi spacciano come battaglia garantista? Un giovane che venisse arrestato durante manifestazione di protesta contro il governo, si sentirebbe più garantito se si trovasse di fronte ad un pubblico ministero che deve decidere se convalidare o meno l’arresto, che abbia la cultura del giudice oppure un pubblico ministero che, sganciato dall’ottica del giudice, inevitabilmente sarebbe sottoposto all’esecutivo? Queste sono le questioni di fondo che hanno un’importanza fondamentale per la libertà e la democrazia nel nostro Paese”.
La lotta alla mafia
Anche la lotta alla mafia è di importanza fondamentale in quanto “non è una semplice questione di repressione criminale, è una questione di attuazione della Costituzione, di libertà dei cittadini e dei diritti dei cittadini garantiti dalla Costituzione laddove vengono quotidianamente calpestati. Eppure la lotta alla mafia, intesa non solo come lotta all’ala militare delle organizzazioni mafiose, ma come lotta al metodo mafioso, non è mai stata veramente al centro delle agende politiche degli ultimi governi che si sono succeduti”. “Quest’anno ricorre il trentennale delle stragi di Capaci e Via d’Amelio. Saremo letteralmente inondati purtroppo da una vuota retorica fondata soltanto sulla spinta alla emozione. È giusto che l’emozione venga provocata e tramandata, ma non basta, quello che servirebbe è la memoria, che significa consapevolezza di quello che è accaduto e consapevolezza di quello che sta accadendo. Per esempio significherebbe consapevolezza di un dato. È scritto nelle sentenze definitive che nelle stragi del 1992 e del 1993 sono state organizzate, ideate ed eseguite da Cosa nostra e probabilmente non solo da Cosa nostra, con uno scopo: quello di costringere lo Stato a modificare determinate leggi. Nella mente di Riina e degli altri quelle stragi dovevano servire a ricattare lo Stato per costringerlo in ginocchio, e costringerlo ad esempio ad eliminare ergastolo. Oggi anche in esito alle sentenze della Cedu e della corte costituzionale ci troviamo in presenza di una situazione nella quale il cosiddetto ergastolo ostativo sta per essere abolito”. “Allo stesso modo – ha aggiunto – sentiamo parlare quotidianamente che sta per essere svuotato il sistema penitenziario di cui al 41bis dell’ordinamento penitenziario. Io non vorrei che a 30 anni dalle stragi tutto questo portasse ad una conseguenza: la realizzazione paradossale di alcuni degli intenti che gli stragisti intendevano perseguire e la liberazione di quelli che sono stati condannati per le stragi”.
Anche secondo Lodato quello della lotta alla mafia è oggi diventato un argomento “scottante”. “Credo che non esista al mondo un Paese che studia un fenomeno criminale per 60 anni senza riuscire a venirne a capo” ha affermato senza mezze parole. E quest’anno arriva il trentennale delle stragi di Capaci e via d’Amelio. “Perché si continua a parlarne? Perché anche quest’anno correremo il rischio della retorica della celebrazione, del rispetto dell’anniversario?” si è domandato il giornalista. La risposta è altrettanto chiara: “Perché quelle due stragi agli occhi degli italiani, ancorché dei palermitani e dei siciliani, sono ancora aperte, in quanto nonostante una dozzina di processi (sommando quelli di Capaci e quelli di Via d’Amelio) la magistratura non è riuscita ad andare oltre il livello degli esecutori materiali di quelle stragi. Ma ciascun palermitano sa, e ciascuno di noi sa, che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non furono assassinati esclusivamente per decisione e realizzazione di Totò Riina, Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca, ma furono assassinati con un concorso di forze che vedeva sì Cosa nostra, ma anche tanti altri poteri che occulti erano allora e occulti sono rimasti oggi. E non si venga a raccontare che il fatto che non siano stati scoperti i mandanti sia la prova che tali non ci siano stati”.
Lodato ha ricordato come Falcone e Borsellino “da vivi furono isolati, denigrati, delegittimati fino a quando poi si giunse all’esecuzione fisica da parte della mafia di quei magistrati. E la domanda è: se il nostro, allora come oggi, fosse stato un Paese per bene che necessità ci sarebbe stata di delegittimare e intralciarli quando facevano il loro lavoro in maniera magistrale giudici, come quello del pool antimafia, ma anche Gaetano Costa, Terranova e la schiera di magistrati, poliziotti, giudici, uomini di Chiesa, sacerdoti, giornalisti, uomini politici, Mattarella, Pio La Torre, assassinati dalla mafia? Perché noi abbiamo raccontato – e mi ci metto pure io – una favoletta: quella per cui la mafia facesse tutto da sola e che fosse un potere distinto e separato dallo Stato, e quindi volta per volta eliminasse i magistrati che ostacolavano i suoi traffici. Non era così”.
E poi ha proseguito: “La favoletta che un po’ tutti abbiamo raccontato e che ci ha tranquillizzati è quella che ad un certo punto del suo strapotere la mafia incontra la politica nella sua strada a decide di fare affari con la stessa. Sin dal delitto Notarbartolo si capisce che il rapporto con la politica fa parte del DNA di Cosa nostra, fin dalla metà dell’800. Quello che è accaduto dopo altro non è stato che un tentativo riuscito da parte di settori del potere, politico, istituzionale, imprenditoriale, affaristico, in rapporto con le organizzazioni mafiose, che doveva rimanere salvo rispetto alle condanne giudiziarie. Per questo siamo ancora qui 30 anni dopo a celebrare l’anniversario di Falcone e Borsellino. Se avessimo avuto una giustizia che dopo 3, 5 o 8 anni e non 30 – che sono dieci anni in più del ventennio fascista, di quello berlusconiano o di quello andreottiano – … se avessimo avuto delle sentenze che avessero accertato definitivamente le responsabilità di coloro i quali eseguirono e misero in atto le stragi di Capaci e Via d’Amelio, oggi parleremo di Falcone e Borsellino senza più bisogno di citare la data dell’anniversario. Sarebbe un conto chiuso con la collettività. Ma tutti sanno e tutti sappiamo che questo conto con la collettività non è chiuso”.
Nel corso del suo intervento Lodato non ha mancato di sottolineare anche le “polemiche astiose, velenose, apparentemente ingiustificate che si sono scatenate in questa città sul processo Trattativa Stato-mafia”. “Abbiamo avuto storici illustri, uomini di diritto, professori universitari i quali hanno definito quel processo una ‘boiata pazzesca’, ‘un coro sguaiato’ ‘ingiustificato’ perché dicevano che c’era un altro processo e che sarebbe bastato aspettare come andava a finire. Invece no. Si è creata una tifoseria in cui si è arrivati addirittura a sostenere, da parte di storici illustri, che è una favola metropolitana che ci sia stato un contributo della mafia allo sbarco degli alleati in Sicilia. Ho trovato casualmente qualche giorno fa in un libro-intervista di Leonardo Sciascia, una frase di 3 righe in cui dice: ‘La prima cosa che fecero gli americani sbarcati in Sicilia fu nominare uomini di mafia nei comuni più grossi del palermitano, dell’agrigentino e del trapanese’. Leonardo Sciascia è l’uomo del quale in questa città in tanti si sciacquano la bocca con fondazioni, celebrazioni, teorizzazioni: il garantismo di Leonardo Sciascia. La capacità che aveva lui di rivendicare il diritto dell’incoerenza. Si estrapolano delle frasi da contesti complessi – perché Sciascia era un pensatore complesso – e se ne fa materia di polemica politica. Ma io perché devo credere di più allo storico illustre di questa città che nega che sia esistito un contributo della mafia che non a Leonardo Sciascia che parla del suo Paese e questi sindaci li vide in carne ed ossa allora? Ma tutto faceva brodo per mettere in discussione il principio della Trattativa Stato-mafia. Cosa che sappiamo tutti – i rapporti tra lo Stato e la mafia – sotto diverse forme è andata avanti almeno dalla guerra fino ai giorni nostri”.
Il compito dei giovani
Nella sua conclusione Di Matteo si è rivolto soprattutto ai giovani: “Non è facile in questo momento parlare di giustizia, parlare di processi, parlare di riforme o parlare di mafia. Non è facile anche perché le preoccupazioni e le attenzioni di tutti noi sono condizionate dagli eventi tremendi. Prima la pandemia e poi, ancor di più, con la guerra alle nostre porte. Ma il senso del libro è quella speranza che possa essere letto soprattutto dai giovani e di invitarli non soltanto alla riflessione, ma a scacciare quel terribile senso di rassegnazione che si respira oggi nel nostro Paese e, devo dire ancor più con grande amarezza, nella nostra città. Quando vado a parlare nei licei, nelle scuole, quando vado a parlare con i giovani dico sempre loro: coltivate le vostre idee, qualunque e di qualsiasi tipo esse siano, ma fatevi le vostre idee. Non fatevi schiacciare dal politicamente corretto e dal pensiero unico. Non fatevi schiacciare da chi in realtà non vuole che partecipiate alla vita pubblica e alla vita politica di questo Paese. E’ troppo importante non rassegnarsi. Alcune volte mi trovo con molta amarezza a pensare se ne valga la pena di continuare a combattere, continuare ad impegnarsi”. E poi ancora: “Oggi come oggi vogliono che anche i giovani crescano ignorando determinati fatti. E le conseguenze sono quelle che sappiamo per cui, ancora oggi, se ci si rivolge a dei giovani, anche della nostra città, molti di loro non sanno chi erano Falcone, Borsellino, padre Puglisi, Costa, Terranova, Chinnici, dalla Chiesa, e quelli che lo sanno forse trovano più affascinante la figura di Totò Riina, rispetto a questi. Questo è il frutto di una cappa di silenzio e rassegnazione che noi cittadini dobbiamo rompere, ciascuno con il proprio ruolo. Tutti cercando l’informazione, tutti cercando l’approfondimento e il dibattito. Non allineandoci soltanto a quello che sentiamo dire e ripetere come un mantra che ormai riguarda soltanto la necessità di riformare la giustizia per punire i magistrati. Noi magistrati abbiamo grandissime colpe e lo dobbiamo dire: abbiamo inseguito la carriera e dovevamo inseguire soltanto la giustizia; abbiamo inseguito il potere e dovevamo inseguire soltanto il servizio nei confronti della collettività; abbiamo ascoltato le sirene del potere quando invece il magistrato, libero, coraggioso e indipendente deve essere lontano e distante da quelle sirene. Deve avere soltanto il coraggio che gli deriva dall’applicazione della legge in maniera uguale nei confronti di tutti”. Infine Di Matteo ha ricordato come “la storia ci dovrebbe insegnare che il fenomeno mafioso si può debellare non soltanto attraverso un impegno di alcuni magistrati, alcuni poliziotti o alcuni carabinieri. Ma attraverso due condizioni essenziali: in primo luogo con una lotta politica. La politica dovrebbe stare in prima linea nella lotta a Cosa nostra, come in prima linea era Pio La Torre quando, in quella relazione di minoranza, scriveva i nomi e i cognomi dei politici collusi con i corleonesi di Totò Riina e Luciano Liggio, prima che quei nomi fossero nelle sentenze della magistratura o nei rapporti della polizia. La seconda condizione essenziale, secondo me, passa da una rivoluzione culturale che deve partire dai giovani e che deve partire da un sentimento di indignazione nei confronti di quello che continua ad accadere nel nostro Paese e nella nostra terra”.