Jamil El Sadi
A Catanzaro un convegno sull’art. 4bis con il consigliere togato assieme a Gratteri, Colombo, Petralia e altri – Prima Parte
“Oggi viviamo un amaro paradosso: chi ha fatto le stragi, oggi rischia di essere tra i primi ad uscire dal carcere perché ammesso alla liberazione condizionale”. Un monito, un allarme senza retorica. È il commento lapidario e privo di fronzoli del consigliere togato al Csm Nino Di Matteo, intervenuto venerdì sera ad un convegno presso l’Università di Giurisprudenza di Catanzaro, su un tema molto delicato e più che attuale: “Ergastolo Ostativo. Il problema e le implicazioni costituzionali”. Nel suo intervento, Di Matteo ha voluto ribadire con forza e determinazione che il tema “mafia” non può latitare dalla Politica e che quest’ultima deve essere in grado di manovrare con cura la legislazione antimafia italiana fortemente voluta da Giovanni Falcone, perché l’emergenzialità di questo fenomeno criminale non è mai cessata. Assieme al magistrato palermitano sono intervenuti anche il Procuratore capo della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, l’ex magistrato già capo del Dap Bernardo Petralia, Gherardo Colombo, già magistrato, noto al grande pubblico per la storica inchiesta di “Mani Pulite”; e Raffaele Sabato, giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’evento – organizzato dal professor Fulvio Gigliotti (consigliere Csm) – si è aperto con gli interventi di Giovanbattista De Sarro (Magnifico Rettore Università Magna Graecia di Catanzaro), Wanda Ferro (Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno), Geremia Romano (Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia), Antonello Talerico (Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catanzaro), Donatella Donato (Sostituto Procuratore della Repubblica di Cosenza).
Proprio in questi giorni è in corso l’iter parlamentare per l’approvazione del decreto sull’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario. A questo proposito il convegno di venerdì sera è stato sicuramente propedeutico sia per le centinaia di giovani studenti e studentesse che hanno riempito l’aula magna, sia per il Legislatore, chiamato a legiferare sulla questione nei prossimi giorni, grazie alle attente analisi e alla pluralità delle opinioni dei relatori sull’ergastolo ostativo. Opinioni che, purtroppo, in alcuni casi sono scadute in meri tecnicismi arzigogolati (è il caso di Bernardo Petralia) o concetti esclusivamente filosofici (è il caso di Gherardo Colombo), per non dire aleatori, in alcuni casi molto discostati dalla realtà dei fatti e, soprattutto, distanti da un assunto imprescindibile: le organizzazioni criminali di stampo mafioso e ‘ndranghetista devono essere trattate con specificità e competenza.
Il Decreto: tra pro e contro
Lo scorso 8 novembre la Corte costituzionale avrebbe dovuto pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della disciplina espressa nell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario con cui si vieta di liberare i boss mafiosi (alcuni anche stragisti) e terroristi condannati all’ergastolo se non collaborano con la giustizia (la questione le era stata sottoposta dalla Cassazione). Poiché, però, nel frattempo è intervenuto un nuovo decreto-legge approvato dal Governo Meloni per mettere una pezza sull’ergastolo, la Corte ha rimesso gli atti alla Cassazione per verificare se la normativa sopravvenuta faccia venire meno, o no, i dubbi di legittimità costituzionale. Sul punto Nino Di Matteo ha valutato positivamente l’iniziativa del Governo: “Costituisce un importante segnale di attenzione al tema della lotta alla mafia ed una precisa assunzione di responsabilità”. “Rappresenta, pur con le possibili lacune di imperfezioni che potranno essere colmate o corrette in sede di conversione, un segnale importante e un modo per evitare che in esito alla pronuncia della Corte costituzionale l’ammissione dei benefici fosse affidata alla sola discrezionalità della magistratura di sorveglianza – ha aggiunto –. E ciò con inevitabili conseguenze di frammentazione dei diritti giurisprudenziali e di sovraesposizione palese del singolo magistrato di sorveglianza a fronte di prevedibili condizionamenti, pressioni o minacce, e a fronte dell’inevitabile rischio nel tempo di un adeguamento della giurisprudenza. E quindi di tutte le decisioni a prescindere dal caso concreto a quelle più favorevoli ai detenuti”.
Di Matteo ha ravvisato anche alcune lacune e aspetti negativi, o quanto meno preoccupanti, di questo decreto. “È stata confermata l’applicabilità della normativa anche a condannati per reati diversi da quelli di mafia e terrorismo”, ha detto affermando che il numero di reati annoverati nel testo 4bis dell’ordinamento penitenziario “può risultare eccessivo”. Potrebbe essere un pericolo “anche in ragione della complessità delle procedure che il giudice deve rispettare”. Nino Di Matteo ha detto di temere “l’eccessiva dilatazione dei reati ostativi” perché potrebbe “pregiudicare di fatto la tempestività e la completezza degli accertamenti da compiere per i benefici richiesti da mafiosi e terroristi”. “A mio avviso – ha aggiunto –, nel tempo l’eccessiva dilatazione del numero di detenuti sottoposti al 41bis ha provocato di fatto una sua cattiva applicazione del regime proprio nei confronti di quelli per i quali le finalità di prevenzione di quella disposizione avrebbero richiesto un’applicazione rigorosa. Se dilatiamo troppo la platea rischiamo di non colpire il cuore”. Sul versante dei pregi di questo decreto Di Matteo ha posto “la volontà legislativa per la quale il giudice prima di decidere sulle istanze debba acquisire il parere del pubblico ministero presso il tribunale o il distretto dove è stata pronunciata la sentenza di primo grado e quello della Direzione Nazionale Antimafia”. “Sappiamo tutti che la fase dell’esecuzione della pena deve rimanere distinta da quella dall’accertamento del reato – ha aggiunto –, ma è altrettanto importante che tra le due diverse fasi si crei un’osmosi attraverso lo scambio e la condivisione di quanti più elementi di conoscenza sia possibile acquisire”. Sarebbe stato opportuno anche “riunire la competenza ad un unico tribunale di sorveglianza che si occupasse esclusivamente della concessione dei benefici di cui all’articolo 4bis – ha continuato –. Non c’è dubbio che in sede di conversione possano essere fatti ulteriori miglioramenti, tesi sempre a ragionare sul rischio che pericolosi mafiosi anche stragisti possano accedere ai benefici e tornare in libertà senza di fatto aver dismesso il loro ruolo. So che sono stati presentati emendamenti che ritengo migliorativi per l’efficacia del testo del decreto”.
Petralia: sul nuovo decreto potrebbero sollevarsi questioni
L’attuale dibattito sull’ergastolo ostativo ha avuto origine in seguito alla pronuncia della Corte europea dei Diritti dell’uomo (Corte EDU) in merito all’ergastolo ostativo ritenuto contrario all’art. 3 della CEDU (Convenzione europea dei diritti umani), che vieta pene inumane o degradanti. Qui la dottrina giuridica si divide tra chi – come Gherardo Colombo – ritiene questa forma di detenzione incostituzionale e chi, invece, vede questo giudizio come un rischio per la lotta contro la criminalità organizzata, nonché un regalo alle cosche criminali (tra questi Di Matteo, Gratteri, de Raho, Ardita, Tescaroli, Grasso e Caselli). L’ordinamento interno italiano, secondo l’art. 117 della Costituzione, deve conformarsi ai vincoli internazionali (ci sarebbe, altrimenti, per violazione di “norme interposte”, una violazione diretta dell’art. 117 Cost.). Inoltre, stando all’art. 27 della Costituzione, la pena deve avere una funzione rieducativa. Per queste ragioni, in linea di principio, l’ergastolo (almeno potenzialmente) non è un “fine pena mai” incondizionato, perché – ricorrendo certi presupposti (buona condotta carceraria, anzitutto) – dopo un certo periodo di tempo (26 anni, normalmente) l’ergastolano è ammesso a godere di certi benefici (permessi premio, liberazione condizionale etc.). Per l’ex capo del Dap Bernardo Petralia, questa vicenda si traduce in un “monito allo Stato Italiano“. Nello specifico la Corte Europea ha sentenziato che anche a “coloro nei cui confronti è vietato l’accesso (ai benefici penitenziari ndr)” occorre “permettere l’accesso ai benefici” che si otterrebbero con la collaborazione alla giustizia. I giudici di Strasburgo ritengono che “la non collaborazione” non implica necessariamente che il condannato non si sia pentito dei suoi atti, che sia ancora in contatto con le organizzazioni criminali e che costituisca quindi un pericolo per la società. La Corte afferma che la non collaborazione con la giustizia può dipendere da altri fattori, come per esempio la paura di mettere in pericolo la propria vita o quella dei propri cari. Quindi, secondo la CEDU, la decisione se collaborare o meno, non sarebbe totalmente libera. Sempre secondo la Convenzione europea, bisogna individuare altri sistemi attraverso i quali si possa dimostrare “l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo del ripristino” di tali collegamenti, ha sottolineato Petralia.
Lo Stato italiano, in sintesi, deve trovare “dei meccanismi che stabiliscano a fianco alla collaborazione anche altri metodi possibili, attraverso i quali, lo Stato debba assicurarsi che si siano interrotti, e che non si ripristino i contatti, con la criminalità organizzata terroristica e quant’altro“. Nello specifico, però, si prevede che sia il detenuto stesso a farsi carico “di tutti gli elementi che possano tranquillizzare il giudice di sorveglianza per quanto riguarda quegli aspetti di collegamento ancora attuale con la criminalità organizzata, o il rischio di ripristino attraverso una serie di aspetti che vanno provati a cura del soggetto“. Ad oggi si è arrivati al “decreto legge 162 del 2022” ha detto Petralia. Ma il rischio, secondo l’ex Capo del Dap, che anche in questo caso si possano sollevare delle questioni, per quanto riguarda la costituzionalità del decreto, resta alto.
L’incapacità dell’Italia
Al di là delle opinioni – favorevoli o contrarie al dispositivo 4bis dell’ordinamento penitenziario – va detto che sull’opinione della Corte EDU potrebbe aver inciso l’incapacità delle istituzioni italiane “di spiegare bene ai giudici di Strasburgo la specificità di un fenomeno criminale unico”, ha detto Nino Di Matteo. “Le mafie non sono un fenomeno criminale come gli altri. Vogliono essere uno Stato dentro lo Stato – ha aggiunto -. Evidentemente non siamo stati in grado di spiegare la pericolosità, la forza e l’indissolubilità del vincolo mafioso. Probabilmente non siamo stati in grado di spiegare il suo enorme potenziale lesivo di altri ed altrettanto importanti diritti tutelati dalla nostra Costituzione: il diritto al lavoro, l’inviolabilità delle libertà personali, la libertà di iniziativa economica, il diritto alla salute. Tutti diritti costituzionalmente garantiti che vengono quotidianamente soffocati anche e soprattutto dall’agire delle mafie. Diritti costituzionali che, non dovremmo dimenticare, hanno pari dignità rispetto al sacrosanto principio per il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Sono tutti principi e diritti costituzionali che devono trovare un punto di equilibrio e reciproca integrazione e tutela senza prioristici sbilanciamenti in favore dell’uno sugli altri”. Dopo pronuncia della Corte EDU è giunta “la sentenza 235 della Corte Costituzionale” che “riguardava i benefici dei permessi premio”. Nonostante riguardasse i permessi premio “noi operatori abbiamo subito avuto consapevolezza che quella sentenza rappresentava il punto di svolta. Il varco si era aperto – ha detto Di Matteo –. Era facilmente prevedibile che il principio affermato in tema di permessi avrebbe prodotto successivamente i suoi effetti anche in relazione ai benefici penitenziari di ben più ampia portata. Tra questi anche la liberazione condizionale”. Per spiegare ancora meglio l’importanza dell’ergastolo ostativo, Di Matteo ha raccontato ai giovani studenti presenti nell’aula magna un episodio riguardante il boss stragista Giuseppe Graviano e la sua possibile collaborazione con la giustizia. “Nel 2016, con altri colleghi, abbiamo disposto (ormai sono pubbliche) alcune intercettazioni ambientali nell’area di passeggio del carcere di Ascoli Piceno dove Giuseppe Graviano, uno dei condannati per essere tra gli organizzatori delle stragi, e probabilmente a conoscenza di molti misteri legati alle complicità esterne a Cosa nostra, era detenuto e colloquiava con il suo compagno di socialità: Umberto Adinolfi – ha detto –. Gli facemmo pervenire un ‘invito a comparire’. Lo volevamo interrogare sulla trattativa Stato-mafia”. Ignaro di essere intercettato dall’esterno (“altrimenti non avrebbe parlato di cose delicate per sé e la sua famiglia”) Graviano nei suoi colloqui “mostrava di voler valutare una collaborazione con la giustizia ma ad un certo punto disse al suo compagno di socialità che siccome gli era pervenuta la notizia che probabilmente ‘dall’Europa potevano arrivare buone notizie’ proprio sul tema dell’ergastolo, decise di soprassedere il tema della collaborazione per vedere come si evolveva la situazione in termini generali”. Un’evoluzione che non si è fatta attendere a lungo. “Quelle informazioni (di Graviano, ndr) non erano destituite di fondamento e le buone notizie arrivarono. L’ipotesi della collaborazione di Graviano in quel momento tramontò”. E con essa anche la possibilità di venire a conoscenza di indicibili segreti celati sulle stragi e, probabilmente, sulle entità esterne a Cosa nostra che hanno co-organizzato la stagione stragista del biennio ’92-’94.
Ergastolo: il vero timore della mafia
Tra le pene detentive “l’unica veramente temuta dalle teste pensanti delle organizzazioni mafiose è l’ergastolo, effettivamente inteso come ‘fine pena mai’”. Per rafforzare questo dato, Di Matteo ha riferito agli studenti le parole di Totò Riina nel contesto dei tanti tentativi di aggiustamento del primo Maxiprocesso in vista della decisione in Cassazione. “Riina diceva: ‘Noi 6, 8 anche 10 anni o 12 anni di galera ce li facciamo tranquillamente, anche legati ad una branda’. Tutte le pressioni, tutte le minacce e i rapporti politici di alto livello che in quel momento Cosa nostra attivò per cercare di ottenere un esito favorevole del Maxiprocesso non erano, come si dice spesso in maniera superficiale, rivolti genericamente all’annullamento delle condanne (risultato difficile da ottenere, ndr) – ha continuato il consigliere togato al Csm –. Erano principalmente volti al disconoscimento di quello che giornalisticamente veniva definito ‘Teorema Buscata’: il principio per il quale nessun omicidio eccellente poteva essere eseguito se non su preciso mandato dei componenti dalla commissione provinciale, la Cupola di Cosa nostra. È per evitare quel principio che avrebbe comportato irrimediabilmente degli ergastoli che Riina diceva ai suoi che ‘si stava giocando i denti’”. Da quel momento, con frequenza ciclica e sempre costante, l’obiettivo principale di Cosa nostra, tra gli altri, “è stato sempre quello di incidere sull’ergastolo perché loro lo ritengono l’unica sanzione che, unita ad un controllo effettivo delle carceri da parte dello Stato, potesse definitivamente mettere in crisi agli occhi di tutto il popolo di Cosa nostra l’autorevolezza e il prestigio di un uomo d’onore detenuto, la possibilità di continuare a comandare dal carcere in vista di un futuro anche lontano ritorno in libertà”. “Falcone aveva chiari alcuni concetti fondamentali che aveva maturato nella sua lunga esperienza di giudice istruttore – ha aggiunto –. Il primo è quello della tendenziale perpetuità del vincolo associativo. Sapeva che da Cosa nostra si esce in due modi: o con la morte o con un atto di ribellione e ostilità che, al di là delle intenzioni del singolo, faccia diventare e percepire il pentito agli occhi di tutti gli altri mafiosi come un traditore, un nemico, un pericolo. E quell’atto è la collaborazione con la giustizia, non altro. Non può essere il solo ravvedimento interiore”. Non può nemmeno essere la mera dichiarata dissociazione dall’organizzazione, “tant’è vero, a proposito della dissociazione, che nel tempo in più frangenti storici anche vertici e strateghi delle mafie avevano ventilato quella scelta della dissociazione”, a meno che la stessa “non comportasse un pregiudizio per la posizione processuale di altri”. Di Matteo, infine, ha registrato un’altra tendenza “in questi ultimi tre anni”: “L’ulteriore e sempre più visibile scadimento quantitativo e qualitativo del fenomeno della collaborazione con la giustizia degli appartenenti ad un’organizzazione mafiosa”. Secondo il magistrato i pentiti “sono sempre di meno” e il livello della loro collaborazione “è sempre più basso”, nonostante alcuni di essi sono soggetti che ricoprivano incarichi di punta delle organizzazioni mafiose, e per ciò “anche quelli che sarebbero in grado di svelare dinamiche e aspetti ancora oscuri anche delle vicende più delicate intravedono la possibilità di tornare in libertà senza dover compiere il passo, comunque traumatico, della collaborazione con la giustizia”. “Sempre più detenuti ergastolani al fronte del dilemma se collaborare con la giustizia o no, se dare un contributo alla verità o riservare l’immagine di irriducibile, scelgono la seconda opzione – ha aggiunto Di Matteo –. Non soltanto per intima convinzione ma come mero atto di opportunità che gli induce a pensare che in un’analisi complessiva del rapporto costi-benefici la scelta della collaborazione non sia quella più conveniente”.
La collaborazione con la giustizia
Nel corso della sua relazione, il consigliere Di Matteo ha richiamato più volte l’esempio di Giovanni Falcone e gli strumenti di contrasto alle mafie introdotti grazie alla legislazione antimafia da lui fortemente voluta. Falcone, ad esempio, fu il primo a capire l’importanza decisiva dei collaboratori di giustizia, “strumento delicato da maneggiare con cura ma indispensabile per scardinare dall’interno il vincolo di segretezza sul quale l’organizzazione si fonda”, ha detto il consigliere Di Matteo. “Aveva capito che per incoraggiare il fenomeno e renderlo più efficace, non solo dal punto di vista della quantità ma anche e soprattutto della qualità della collaborazione, era fondamentale allargare la differenza tra il collaboratore e l’irriducibile. Provvedendo per quest’ultimo un ergastolo diverso rispetto a quello ordinario – ha aggiunto –. Possiamo dunque comprendere quanto e perché nelle strategie complessive delle mafie la questione dell’ergastolo abbia assunto per anni una indiscutibile centralità, di vitale importanza per il presente e per il futuro delle loro compagini”. Per questo l’abolizione o l’attenuazione dell’ergastolo, “assieme al 41bis, assieme alle modifiche legge La Torre sui sequestri dei beni, era uno degli obiettivi che Riina e gli altri perseguirono a colpi di bombe tra il 1992 e il 1994 con ben 7 stragi: Palermo, Roma, Firenze, Milano – ha continuato –. E lo fecero per ricattare lo Stato, per indurlo prima a trattare e poi a cedere anche a quella richiesta. Sono sentenze definitive che parlano di strategia terroristica di Cosa nostra”.
Per il consigliere Di Matteo l’esigenza di fondo è quella di “non mettere sullo stesso piano collaboratori di giustizia con coloro che non hanno mai collaborato”. Sarebbe importante introdurre “l’obbligo per il detenuto il quale vuole accedere alla libertà condizionale di motivare le ragioni della mancata collaborazione”. “Sappiamo che l’elemento essenziale per accedere alla libertà condizionale è l’avvenuto ravvedimento – ha detto –. In questa considerazione sarebbe molto opportuna una disposizione che preveda che la ragione della mancata collaborazione addotta dal detenuto istante non possa essere presa in considerazione quando riguarda i timori di rischi e ritorsioni per sé e la propria famiglia”. “Non riesco a capire perché il rischio di ritorsioni per i mafiosi che hanno compiuto decine di stragi debba essere considerato impeditivo della collaborazione quando noi, invece, pretendiamo non solo dai collaboratori ma anche dai testimoni di giustizia, dagli estorti che denunciano i loro estorsori che si sottopongano a tali rischi”. A maggior ragione quando “da qualche anno, finalmente, lo Stato si è dotato di strutture tali da poter garantire la sicurezza di chi è a rischio”. Un ragionamento più che lecito che evidenzia come a volte lo Stato – in questo caso il Legislatore – si avvalga di “due pesi e due misure”, dando l’impressione di garantire più tutele ai boss stragisti rispetto ai cittadini che denunciano i crimini della mafia. “Riterrei infine molto importante un emendamento o una modifica nel senso del detenuto che auspica al beneficio affinché sia tenuto a rendere dichiarazioni veritiere sulla situazione patrimoniale sua e dei suoi familiari – ha aggiunto Di Matteo –. Queste circostanze avrebbero un rilievo cruciale soprattutto per la verifica del ravvedimento. Non è un caso se la legge sui collaboratori di giustizia imponga loro l’obbligo di una puntuale e tempestiva dichiarazione sul punto. Se non sarà introdotto l’obbligo anche per l’irriducibile verrà di fatto realizzata un’irragionevole e pesante discriminazione sui collaboratori di giustizia. Un vero e proprio inaccettabile incentivo a stare zitti”.
La credibilità dello Stato
Nel corso del suo intervento, Di Matteo ha rivolto particolare attenzione ai numerosi studenti accorsi all’aula magna dell’Università per partecipare al convegno. Constatando “sempre più profonde analogie tra la situazione calabrese con quella della Sicilia delle stragi nella quale sono cresciuto”, Di Matteo ha fatto riferimento ad “un identico e gravissimo problema culturale nel nostro tessuto sociale. Un problema di accettazione non dichiarata da parte di molti, quando addirittura non di adesione, alla mentalità mafiosa”. “Colgo dall’esterno in Calabria quegli stessi fermenti di reazione che sono maturati a Palermo e in Sicilia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 nell’ambito della società civile. Vi chiedo ragazzi attenzione ad assecondarli e farli crescere bene senza consentire che l’antimafia sociale diventi a sua volta un centro di potere. La reazione, magari da chi non vuole lottare contro la mafia, sarebbe quella della disillusione, del discredito, della delegittimazione generalizzata. Non lo dovete permettere perché dobbiamo essere consapevoli che la guerra si vince soltanto se si rialzano e integrano tra loro tre condizioni, da sole non sufficienti ma ciascuna indispensabile – ha aggiunto –. La prima è l’efficacia e la tempestività dell’aspetto repressivo giudiziario (indispensabile ma non sufficiente). La seconda sarebbe quella di un impegno duraturo e costante della politica, che passi anche dal recupero della capacità di denuncia di determinati rapporti e dalla riscoperta della necessità di far valere rispetto a certi comportamenti accertati la responsabilità politica prima e a prescindere dell’eventuale responsabilità penale. La terza condizione indispensabile, e forse quella più forte, è la necessità di una vera e propria rivoluzione culturale che deve partire dai giovani e dagli studenti che gradualmente tolga alla mafia l’humus di cui gode: la cultura del favore, della raccomandazione, della scorciatoia per far valere un diritto, dell’appartenenza a qualcuno o qualcosa, del disimpegno, della rassegnazione”. Agli studenti, infine, Di Matteo ha fatto presente come, “sulla base di significativi elementi che emergono da processi e indagini non più coperte da segreto”, le organizzazioni mafiose “continuino a coltivare forti aspettative dalla politica, anche dalla compagine politica di maggioranza (o almeno da una parte di essa)”. Aspettative che riguardano vari temi. “La limitazione delle intercettazioni; la limitazione dei poteri investigativi dei pm; se possibile un controllo del pubblico ministero che passi anche attraverso la separazione delle carriere; riguardano – e vedrete che il tema sarà ricorrente nelle speranze degli uomini d’onore – la modifica della normativa in materia di misura di prevenzione patrimoniale. Ma queste aspettative riguardano anche il tema dell’ergastolo ostativo – ha detto –. E queste aspettative sembrano oggi deluse ai loro occhi dal decreto che è stato appena approvato”. “Temo che qualcosa cambierà nella strategia delle organizzazioni mafiose. O in termini di venir meno di quelle ritrosie oggi evidenti a nuove collaborazioni con la giustizia, e me lo auguro; oppure in termini di ricreazione violenta a fonte di un decreto che comunque delude o smorza quell’aspettativa – ha concluso –. Credo che la credibilità dello Stato e delle sue istituzioni si giochi sulla dimostrazione della volontà e capacità di non farsi condizionare da minacce e ricatti della mafia”.