Vorremmo venire, quanto prima, in possesso delle 3000 pagine della sentenza che riteniamo, oltreché giudiaziaria, anche, storica, in quanto pone questioni delicatissime nei rapporti tra istituzioni e apparati di un non ben identificato livello.
In realtà sappiamo molto bene chi ci sia nel livello che è in grado di determinare, spesso, le sorti di molti Stati.
Per camprendere meglio, vi rimandiamo a quest’altro post dove in un passo recita:
“Di fatto è attraverso questo principio di trasformazione del male in bene che la nuova classe dominante, conscia della propria egemonia, passa dalla critica del sistema sociale precedente alla giustificazione delle sue nefandezze. Giustifica le sue guerre, organizza complotti su scala planetaria, pratica con i suoi servizi segreti i più orribili omicidi tentando di dimostrare che il crimine da lei praticato è un fatto positivo, democratico e civile, quindi carico di valori universali, divini, ai quali tutti devono passivamente aderire.”
In quest’altro articolo, invece, di Claudia Cernigoi, del 3 aprile 2014, specifica cose su quanto fosse diventato “scomodo” Rostagno:
“…Dopo il 1977 Valcarenghi “intraprese la strada della ricerca spirituale” diventando (come due altri ex “sessantottini”, Mauro Rostagno e Carlo Silvestro) discepolo di Osho Rajinesh; rientrato in Italia rilevò da Rostagno il locale, il Macondo, trasformandolo in un centro di meditazione spirituale, poi continuò l’attività giornalistica e nel 2006 riprese l’attività di editore della rivista Re Nudo e di una casa editrice con lo stesso nome. Rostagno invece si trasferì a Lenzi (che si trova in provincia di Trapani, come Calatafimi) dove diede vita ad una comunità di recupero per tossicodipendenti, la Saman, ed iniziò la collaborazione ad una TV locale, dove denunciava le azioni mafiose. Trapani negli anni ’80 era un po’ nella bufera a causa delle indagini scaturite dalla scoperta del Circolo massonico Scontrino, definito dal magistrato Carlo Palermo “luogo di incontro e di raccordo di numerose logge occulte”, che vedeva la presenza oltre che di massoni, anche di mafiosi, trafficanti vari, agenti libici, e per le ripetute visite del Venerabile Licio Gelli in città. Rostagno aveva indagato sul Circolo Scontrino, ma aveva anche sospettato un traffico di armi che si sarebbe svolto vicino alla sua comunità, nella zona in cui era stata operativa la base di Gladio nota come Centro Scorpione. Secondo il giornalista Sergio Di Cori (cfr. “Delitto Rostagno. Un teste accusa”, Re Nudo 1997) Rostagno gli avrebbe detto di avere visto caricare casse di armi su aerei che poi partivano per la Somalia, allora in piena guerra civile, aggiungendo “li stiamo armando invece di aiutarli”.
Sarebbero stati questi i temi di cui Rostagno avrebbe parlato con il magistrato Giovanni Falcone nell’estate del 1988, due mesi prima di essere ucciso; ma va aggiunto che l’assassinio avvenne pochi giorni prima della prevista testimonianza dell’ex militante di Lotta continua al processo per l’omicidio Calabresi in cui erano imputati i suo ex compagni Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi.
L’inchiesta identificò dei presunti killer, legati ad un clan mafioso, ma le indagini (al momento in cui scriviamo non si è ancora giunti ad una verità giudiziaria) si allargarono anche nei confronti del “socio” di Rostagno nella comunità, Francesco Cardella, che fu accusato di traffico d’armi; furono poi indagati i dirigenti socialisti Bettino Craxi e Claudio Martelli per avere cercato di depistare le indagini (e noi ricordiamo che Sofri al momento dell’arresto era uno dei collaboratori di Martelli). C’è poi la dichiarazione di Renato Curcio, che ben conosceva Rostagno fin dai tempi dell’Università a Trento, nell’intervista rilasciata nel 1993 Frigidaire, che il delitto non era “imputabile alla mafia”, bensì a ragioni “inconfessabili” e “impossibili da raccontare”, ed il boss di Mazara del Vallo, Mariano Agate, gli avrebbe detto, in carcere a Favignana, che l’assassinio di Rostagno “non è cosa nostra ma cosa vostra” (cfr. Paolo Cucchiarelli, op. cit.. p. 609).
Bisogna aggiungere infine che presso il Centro Scorpione fu operativo per un periodo il maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi, che fu poi ucciso proprio in Somalia, dove era stato inviato, nel 1993, prima di riuscire a parlare con la giornalista Rai Ilaria Alpi, che indagava proprio su traffici di armi e di rifiuti tossici che si sarebbero svolti con la Somalia e che fu a sua volta uccisa pochi mesi dopo, ancora in Somalia, assieme al suo operatore, il triestino Miran Hrovatin, gli ennesimi delitti sui quali non è mai stata fatta chiarezza.”
Ora, se le cose sono corrispondenti al vero (e non vi è motivo di dubitare) due cose devono diventare prioritarie:
a) Sergio Mattarella deve pronunciarsi pubblicamente sulla sua appartenenza, o meno, alla massoneria perché non può lasciare in sospeso un così preoccupante dubbio;
b) la necessità di rafforzare un blocco sociale capace di contrastare le revisioni della Costituzione in atto; rafforzando le parti che contrastano le appartenenze a organizzazioni segrete.
MOWA
Mauro Rostagno, le motivazioni: “Logge e 007, ma ad ammazzarlo fu Cosa nostra”
Depositate le tremila pagine di motivazione della sentenza di condanna all’ergastolo per Vincenzo Virga e Vito Mazzarra, mandante ed esecutore dell’omicidio del sociologo e giornalista. “La torsione nelle finalità istituzionali degli apparati di intelligence che si consuma proprio in quegli anni crea un terreno propizio all’instaurazione di sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata”
Di sicuro c’è solo che ad ammazzarlo fu la mano di Cosa nostra. Sullo sfondo, invece, rimangono ancora troppi i moventi, all’interno di un contesto difficilissimo da ricostruire tra depistaggi, interessi incrociati, relazioni pericolose e prove scomparse. Ventisette anni dopo, occorrono più di tremila pagine per spiegare chi e perché uccise Mauro Rostagno, sociologo e giornalista, militante arancione e leader di Lotta continua, fondatore della comunità terapeutica Saman e testimone della svolta nera di Cosa nostra a Trapani, tra logge massoniche e attività coperte dei servizi d’intelligence.
Si era trasferito in Sicilia già da alcuni anni Rostagno, quando il 26 settembre del 1988, viene freddato a colpi di fucile in contrada Lenzi, a pochi passi dalla comunità che aveva creato insieme a Ciccio Cardella, conosciuto in India negli anni ’70, poi coinvolto in uno dei tanti rivoli investigativi sul mai del tutto risolto omicidio del sociologo torinese.
Quasi trent’anni dopo, però, la corte d’assise del comune trapanese ha trovato autori e mandanti di quel delitto: sono, nell’ordine, il killer Vito Mazzara e il boss di Cosa nostra Vincenzo Virga, condannati all’ergastolo il 16 maggio del 2014. Ci sono voluti altri quattordici mesi perché il giudice Angelo Pellino depositasse le tremila pagine con le quali motiva quelle condanne.
Tra mafia e 007
Un documento storico – giudiziario importante quello di Pellino, perché ricostruisce il contesto trapanese degli anni ’80, all’interno del quale matura l’omicidio Rostagno. “La torsione nelle finalità istituzionali degli apparati di intelligence che si consuma proprio in quegli anni e che ha a Trapani, con la costituzione dell’ultimo Cas nella storia di Gladio, un suo epicentro, crea un terreno propizio all’instaurazione di sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale”, scrive il presidente della corte d’assise nelle motivazioni della sentenza. La Trapani degli anni ’80, infatti, è una città borderline, cerniera di rapporti tra 007 coperti, massoni, boss di Cosa nostra, all’ombra dell’ultimo centro d’addestramento di Gladio, la struttura paramilitare segreta nata come costola di Stay Behind, che stabilisce nella città delle saline una delle cinque basi coperte della VII divisione del Sismi: la stessa che nascondeva gli Ossi, gli operatori speciali Stato Italiano, che per l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, erano legati alla Falange Armata.
“Ne scaturisce – continua Pellino – una rete di relazioni pericolose, fatte di intese e scambi di favori reciproci e protezioni. Un’organizzazione criminale che detiene un controllo capillare del territorio può essere fonte della merce più preziosa per un apparato di intelligence, le informazioni; ma può servire anche per operazioni coperte, ovvero per offrire copertura a traffici indicibili da tenere al riparo da sguardi indiscreti. Traffici che coinvolgono pezzi di apparati militari e di sicurezza dello Stato, all’insaputa dei vertici militari e istituzionali o dei responsabili politici”. Ed è in questo contesto che Rostagno comincia a fare il giornalista a Trapani, seguendo per primoil processo per l’omicidio Vito Lipari, sindaco della Castelvetrano dei Messina Denaro, e avviando una serie d’inchieste sul territorio “Su questo versante – continua la motivazione della sentenza – Rostagno poteva essere una minaccia, dopo che aveva scoperto gli strani traffici che avvenivano a ridosso della pista di un vecchio aeroporto militare ufficialmente in disuso alle porte di Trapani”.
Il circolo Scontrino, le logge massoniche e i politici
Tra i lavori svolti dal reporter Rostagno, una nota a parte meritano per i giudici le “autonome inchieste inchieste giornalistiche che miravano a varcare la soglia di autentici santuari del potere locale come era all’epoca la rete di circuiti massonici che faceva capo al Centro studi Antonio Scontrino a Trapani“. È un centro importante quello di via Carreca, un posto dove non vanno in onda solo aperitivi e iniziative culturali: è l’11 aprile del 1986, due anni prima dell’omicidio Rostagno, quando la polizia fa irruzione e scopre che Scontrino è il paravento di sei logge massoniche, Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d’Alcamo, Hiram e Cafiero. Dopo che venne alla luce l’esistenza delle logge, Paolo Scontrino, si giustifica parlando delle conferenze pubbliche organizzate dal circolo : “Ricordo che in qualche riunione, anzi in una riunione fu presente l’Onorevole Sergio Mattarella, un’altra volta il Sindaco di Trapani, ma anche alcuni lama tibetani e fra gli altri che ricordo, tale padre Antonj, di religione indù, la signora Dacia Maraini, il capo della comunità israelitica di Roma padre Toaf, padre Evloghi, della Chiesa ortodossa ed altri”.
Ad interrogare Scontrino il 28 ottobre del 1986 fu il maresciallo dei carabinieri Beniamino Cannas, uno dei testi per i quali la Corte d’Assise ha chiesto oggi la trasmissione degli atti in procura. Il presidente della Repubblica Mattarella, che all’epoca dei fatti era un deputato della Dc, oggi invece smentisce di essere stato un “frequentatore” delle iniziative del circolo Scontrino. “La sola volta in cui è venuto a conoscenza dell’esistenza di questo circolo – fanno sapere dal Quirinale – è stata, nei primi anni Ottanta, in occasione della conferenza, sulla giustizia tributaria, di un suo collega, che Mattarella è andato ad ascoltare apprendendo in quella sede che la conferenza era promossa da un circolo denominato Scontrino a lui del tutto sconosciuto e con il quale non ha mai avuto, né prima né dopo, alcuna relazione o contatto di qualsivoglia genere”.
Dal proiettile alla videocassetta: i pezzi mancanti
Il paravento del circolo Scontrino è comunque crocevia d’interessi e rapporti ad alto rischio. E per questo motivo che i giudici sottolineano come i “sordidi legami” tra pezzi della massoneria e agenti dei servizi “per quanto non direttamente afferenti al movente del delitto, abbiano avuto l’effetto di incoraggiare i vertici dell’organizzazione mafiosa ad agire, nella ragionevole convinzione di poter contare, una volta commesso il delitto, su una rete di protezioni e connivenze pronta a scattare in caso di necessità: come alcune sconcertanti emergenze di questo processo fanno paventare sia accaduto”. Come dire che la mano che ha sparato a Rostagno è targata Cosa nostra, ma per proteggerla si sono mossi poteri differenti da quelli mafiosi. È per questo motivo che oggi rimangono ancora parecchi i buchi neri irrisolti. A cominciare dai pezzi mancanti dell’indagine: le lettere che Rostagno si scambiava con il fondatore delle Brigate Rosse Renato Curcio, la videocassetta in cui il giornalista aveva registrato le riprese del presunto traffico d’armi scoperto nei pressi della pista d’atterraggio di Kinisia, il memoriale sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, fino alla partizione del proiettile calibro 38 estratto dal corpo del sociologo durante l’autopsia. Poi c’è la relazione elaborata dagli 007 del centro Scorpione su Saman: svanita nel nulla come tutti gli altri pezzi di puzzle.
Tante piste, ma è un omicidio firmato da Cosa nostra
Nonostante le numerosi tesi investigative, la presenza intorno alla matrice del delitto di personaggi che anche durante il processo sono rimasti sullo sfondo, per Pellino l’unica pista provata sull’omicidio Rostagno è quella mafiosa. “L’indagine sul movente dell’omicidio che ha impegnato larga parte dell’istruzione dibattimentale – spiega il giudice – ha consentito di misurare tutta l’inconsistenza delle piste alternative a quella mafiosa, che pure sono state esplorate, senza preconcetti. Di contro, a partire proprio da una ricognizione dei contenuti salienti del lavoro giornalistico della vittima, di talune sue inchieste in particolare, ma del suo stesso modo di concepire e soprattutto di praticare il giornalismo e l’informazione come terreno di elezione di una ritrovata passione per l’impegno civile, è emerso come Cosa Nostra avesse più di un motivo, e uno più valido dell’altro, dal suo punto di vista, per volere la morte di Rostagno. E il bisogno di mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari (illeciti) e le trame collusive delle cosche mafiose”.
Nella città dei misteri, dove 007 si danno appuntamento con mafiosi e massoni, Rostagno inizia a dare fastidio, inizia ad essere una “camurria” per i boss di Cosa nostra. “Il suo sforzo – continua Pellino – di ridisegnare la mappa degli organigrammi del potere mafioso e di individuare le figure emergenti che potevano avere preso il posto degli esponenti della vecchia guardia di Cosa Nostra, decimati da arresti ma ancora di più dai colpi messi a segno dalle cosche antagoniste che nuovo slancio traevano dalla loro capacità di inserirsi nella gestione del narcotraffico o in altre redditizie attività”. È per questo motivo che alla fine, Pellino spiega come “le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dopo una doverosa scrematura di quelli meno affidabili, convergono su una duplice indicazione: l’omicidio fu deciso dai vertici di Cosa Nostra trapanese o comunque con il loro assenso e dopo che fu vanamente esperito il tentativo di indurre il giornalista a più miti consigli con pressioni e minacce per interposta persona”. Sul terreno oltre al cadavere del giornalista, rimane un processo che dopo 27 anni è arrivato solo al primo grado di giudizio, due colpevoli condannati e gli artefici di insabbiamenti in serie mai individuati.