L’arte della guerra
di Manlio Dinucci
Nel corso del primo mandato, il presidente Obama prende formalmente le distanze dalla politica estera e militare del suo predecessore, il presidente Bush, dando l’impressione che gli Stati uniti non vogliano più essere «il poliziotto del mondo» e intendano attuare un disimpegno militare, in Afghanistan e altrove, per concentrarsi sui problemi interni. Nasce così quella che viene definita «dottrina Obama».
La guerra non scompare però dall’agenda dell’amministrazione Obama: lo dimostra quella contro la Libia, condotta nel 2011 dalla Nato sotto comando Usa, con un massiccio attacco aeronavale e con forze sostenute e infiltrate dall’esterno.
All’inizio del secondo mandato, il presidente Obama annuncia che «gli Stati uniti stanno voltando pagina». Ma anche la successiva è una pagina di guerra. La nuova strategia prevede l’uso di forze armate più flessibili e pronte ad essere dispiegate rapidamente, dotate di sistemi d’arma a sempre più alta tecnologia. Prevede allo stesso tempo un uso sempre maggiore dei servizi segreti e delle forze speciali. Nel nuovo modo di fare la guerra, l’attacco aperto viene preparato e accompagnato con l’azione coperta per minare il paese all’interno. Come si è fatto con la Libia e ora si sta facendo con la Siria, armando e addestrando i «ribelli», per la maggior parte non-siriani, molti appartenenti a gruppi islamici ufficialmente considerati terroristi.
Allo stesso tempo il presidente Obama enuncia la nuova «strategia controterrorismo»: da «illimitata guerra al terrore» essa si trasforma in una serie di «azioni letali mirate» con l’obiettivo di «smantellare specifiche reti di estremisti violenti che minacciano l’America». In tali azionivengono sempre più impiegati i droni armati, il cui uso è considerato «legale», dato gli Stati uniti conducono una «guerra giusta e di autodifesa».
Il democratico Obama, presentatosi come «colomba» (e insignito del Premio Nobel per la pace), prosegue quindi sostanzialmente la strategia del repubblicano Bush, il «falco» aperto sostenitore dell’intervento armato. Come giustificare tale metamorfosi? È qui che entra in scena Samantha Power, già docente a Harvard, vincitrice del Premio Pulitzer con un libro in cui teorizza «la responsabilità di proteggere» che spetta agli Stati uniti nell’«epoca del genocidio».
La Power entra nel Consiglio per la sicurezza nazionale (l’organo di cui fanno parte i vertici delle forze armate e dei servizi segreti, con il compito di consigliare il presidente sulla politica estera e militare). Obama la mette quindi a capo del nuovo «Comitato per la prevenzione delle atrocità» e la nomina infine rappresentante statunitense alle Nazioni Unite. È la Power la principale artefice della campagna che prepara la guerra contro la Libia, presentandola come necessaria per porre fine alla violazione dei diritti umani. È sempre lei che, con la stessa motivazione, preme perché gli Stati uniti attacchino la Siria.
E c’è sicuramente la mano sapiente di Samantha Power nel recente discorso del presidente Obama alle Nazioni Unite. Soprattutto quando afferma che, di fronte ai conflitti in Medio Oriente e Nord Africa, «il pericolo per il mondo non è quello di un’America troppo impaziente di immischiarsi negli affari di altri paesi», ma che «gli Stati uniti possano disimpegnarsi, creando un vuoto di leadership che nessun altro paese è pronto a colmare». Gli Stati uniti rivendicano quindi il diritto di intervenire militarmente ovunque. Non per i propri interessi, ma perché hanno la sacrosanta «responsabilità di proteggere».
1 ottobre 2013