La Commissione d’inchiesta del Parlamento dovrà ripartire da zero. Perché all’“anno zero” è la verità giudiziaria ricostruita dalla Procura di Livorno. Ecco come si è arrivati alla “verità negata” in oltre 20 anni di indagini.
di Luigi Grimaldi
Uscendo dal porto di Livorno, in una vera e propria notte dei misteri, il 10 aprile 1991, il Moby Prince, della compagnia Navarma, improvvisamente si schianta contro una super petroliera della Snam, l’Agip Abruzzo, ormeggiata alla fonda nella rada del porto. È così che una serena nave passeggeri in servizio di collegamento con la Sardegna, per molti la nave delle vacanze, diviene una bara fumante per 140 persone che saranno abbandonate al proprio destino, alla deriva, a pochi metri da terra, mentre tutti i soccorsi si concentrano sulla nave cisterna. Tutti coloro che si trovano a bordo del traghetto della compagnia Navarma, tranne un unico superstite, muoiono bruciati dalle fiamme o soffocati dal fumo, qualcuno subito, altri dopo ore di attesa, di cosciente agonia. È la più grave tragedia del mare nella storia italiana del dopoguerra.
Dopo 20 anni, due processi e una nuova inchiesta sollecitata dai parenti delle vittime attraverso l’avvocato Carlo Palermo (l’ex magistrato antimafia sfuggito miracolosamente a Trapani a un’autobomba, la cosiddetta vergognosa “strage di Pizzolungo” del 2 aprile 1985), per la Procura livornese e la giustizia italiana non ci sono responsabili. Anzi, l’ultimo e più recente capitolo delle indagini segna persino un passo indietro nella comprensione di questo mistero rispetto alla precedente sentenza di appello.
Il più recente pronunciamento giudiziario sulla strage del Moby Prince parla di errore umano e nebbia (un fenomeno meteo smentito da diversi testimoni oculari). Sono queste le sole cause indicate dal pool di magistrati della Procura di Livorno che si sono occupati del caso. Nessun colpevole. Non è un fatto nuovo per il nostro Paese ma, proprio per questo motivo, l’ultimo passaggio giudiziario relativo alla Moby Prince, non diversamente dai precedenti, provoca sconcerto: vicende come la strage di Ustica, le stagioni degli attentati della strategia della tensione, delle stragi di mafia e non solo di mafia, sembra non abbiano lasciato traccia nel pensiero che ha guidato (in modo apparentemente pregiudiziale e talvolta persino derisorio nei confronti del lavoro delle parti civili) l’indagine dei giudici livornesi. Con un solo colpo di spugna le toghe labroniche hanno riportato le lancette dell’orologio delle indagini alla discussa e contestata sentenza di primo grado. Per la Procura livornese nebbia, un errore umano e nient’altro, sono all’origine della disastrosa collisione. Nessun mistero da scoprire, quindi.
Per iniziare a comprendere questa storia, la necessità e il rilievo della istituenda Commissione parlamentare di inchiesta, forse è necessario cominciare dalla fine e cioè da una sconcertante osservazione conclusiva, messa nero su bianco, dai magistrati livornesi che hanno chiesto l’archiviazione dell’inchiesta-bis: “La ricostruzione della dinamica dell’evento può apparire – come si è più volte sottolineato – banale nella sua semplicità, e dunque non accettabile emotivamente, prima che razionalmente, sopratutto in considerazione dell’enorme portata delle conseguenze che ne sono derivate in termini di perdita di vite umane”.
Semplicemente nebbia combinata con errori nella condotta di navigazione del traghetto. Per i magistrati livornesi si tratta della spiegazione più semplice e logica, “banale” seppure “emotivamente” difficile. Un’osservazione sconcertante perché il percorso attraverso cui si accede al “banale” è fatto di una serie sbalorditiva di eventi straordinari, senza precedenti, mai verificatisi prima, ma neppure dopo la collisione del 10 aprile 1991, nella storia della marineria.
La ricostruzione della semplice “banalità” del disastro, avanzata dalla Procura livornese, è stata resa possibile grazie all’individuazione – primo evento senza precedenti – di un particolare banco di nebbia. Come ha sostenuto il comandante del porto di Livorno Ammiraglio Albanese:
“L’avanporto di Livorno non risulta a memoria d’uomo essere stato investito da una nebbia così fitta”.
Una nebbia con caratteristiche bizzarre e, a tratti anche magiche, come la capacità di avanzare in senso inverso alla direzione del fumo dell’incendio. Ma le fondamenta di questa “banalità” poggiano anche su un secondo fenomeno, mai visto prima, anch’esso senza precedenti, riportato nella sentenza di primo grado in base alle osservazioni del perito Ingegner Pauli. Un fenomeno elettromagnetico che ha impedito a chiunque di udire la richiesta di soccorso del traghetto in fiamme e di salvare i sopravvissuti: “…quella maledetta sera ci fu una propagazione demoniaca e abnorme di quello che è il VHF … (radiofrequenza utilizzata dalla navi, nda). Normalmente il VHF usa le medesime frequenze in tutti i porti perché ha una portata limitata. Per esempio Genova da Livorno di giorno non si sente. La Spezia non si sente. Dalla registrazione quello che appare straordinario è che, quando il Comandante Superina (Comandante della petroliera, nda) cominciava a strillare come un’aquila, gli hanno risposto da Rimini, da Ravenna, da Oneglia, a parte Les Porquerolles (Fr.) che entrava a cannonate negli apparati (radio, nda). E questa qua era una propagazione abnorme… Quella notte – mi consenta una mia valutazione – di normale non c’era niente. Niente c’è stato di normale quella notte. Niente, da un punto di vista meteo-marino e di fatti che poi hanno scatenato questo disastro, che è stato un qualche cosa che succede per la prima volta nella storia della Marina”. Per accedere alla “banalità” che ha portato gli investigatori a ritenere conclusa con un nulla di fatto l’ultima inchiesta sul Moby Prince si è dovuto anche giustificare, attraverso una complessa teoria, un altro fatto straordinario, e cioè che tutti i radar o non hanno funzionato, o registrato o visto alcunché a causa di un fenomeno fisico dovuto alla combinazione, senza precedenti, della nebbia, del calore dell’incendio, della massa metallica della petroliera e di una serie di malaugurati “coni d’ombra” che hanno accecato selettivamente ora i radar dei soccorritori, ora gli apparati di registrazione, impedendo che il traghetto in fiamme venisse prima prontamente individuato, e che successivamente si potesse in modo obiettivo ricostruire lo scenario generale in cui è maturata la tragedia. Per ognuno dei radar che non hanno funzionato si è trovata una “banale” giustificazione tecnica e la somma di tali spiegazioni costituisce una vera enciclopedia delle casistiche impossibili, ben più che improbabili anche se prese singolarmente, manifestatesi tutte insieme nello stesso momento e nello stesso posto: intorno al Moby Prince. Solo nel caso del traghetto si è concluso che il radar funzionava perfettamente ma che, “banalmente”, non è stato usato. Ancor più strana, eccezionale, e incapace di suscitare la benché minima curiosità investigativa, la concentrazione di disgrazie navali nell’Alto Tirreno tra le 22,30 del 10 aprile e le 12,30 del giorno successivo. Mai era accaduto prima, e mai è accaduto dopo, che un disastroso incendio abbia colpito una petroliera nel mar Tirreno. Invece nelle 12 ore a cavallo tra il 10 e l’11 aprile, a poche miglia di distanza l’una dall’altra, due super petroliere si incendiano: la prima, l’Agip Abruzzo viene coinvolta nella più grave sciagura della marina mercantile italiana del dopoguerra; la seconda, la Haven, davanti al porto di Genova prende fuoco in seguito a una esplosione mai spiegata in modo esauriente e provoca il più grave disastro ecologico mai verificatosi nei mari italiani. L’ennesima coincidenza straordinaria e inspiegata. In buona sostanza si è dato vita (e dignità giudiziaria) a un castello ricostruttivo fondato su una serie di principi teorici, ognuno dei quali tanto plausibile quanto raro e improbabile, postulando un affollamento di contemporanei eventi straordinari praticamente impossibili a realizzarsi. E che di “banale” o “semplice” non ha proprio nulla.
04/11/2015