Riprendiamo un vecchio articolo sul sistema elettorale tedesco e i suoi pericoli da uno dei più illustri costituzionalisti, Salvatore d’Albergo, che aveva compreso cosa bolliva in pentola per l’Italia e cosa avrebbero fatto gli agenti del capitale per rendere inoffensiva la popolazione con il sistema elettorale.
Il trucco c’è e si vede… e in barba alla nostra Costituzione.
MOWA
Il modello tedesco di stato al servizio del capitale per la germanizzazione dell’Europa
di Salvatore d’Albergo
(Per un) Archivio di prassi e teoria e una nuova strategiadi lotta dei movimenti e l’antifascismo, sollecitando una “Costituente comunista” tutto da rifare con uomini nuovi, comunisti ideologicamente pro/nesso sovranità-popolare/Parlamento; per il lavoro politico di massa, contro il “cretinismo parlamentare” e la europeizzazione del semi/presidenzialismo; contro il presidenzialismo in ogni sua variante tecnica (premierato, capo di stato, cancellierato, ecc.) e ogni preminenza dell’esecutivo.
Le incompatibilità tra la Costituzione italiana e il modello “liberale” di Bonn
Pur essendo vero che i giuristi come ceto ideologicamente legato al potere dominante procedono a distinzioni analitico-tecnicistiche sui caratteri differenziali dei sistemi di governo del mondo capitalistico, non perciò è giustificabile che la cultura marxista disperda la sua capacità di lettura dei fenomeni tra loro intrecciati e non separabili, perdendo di vista che le forme di governo vanno interpretate anzitutto dal punto di vista delle funzioni che lo stato storicamente è venuto assumendo rispetto agli interessi di classe, sicché va sottolineata la forma dello stato cui si rapporta la forma di governo, e in tale approccio risaltano i caratteri differenziali tra la forma di stato prevista nella costituzione italiana e quella dei casi francesi e germanico, forma di stato che va al di là del modello weimariano pur tanto celebrato come indice della possibilità sociale e politica di aprire – con più o meno coerenza, ed è perciò che i due modelli divergono a favore di quello italiano del 1948 – a processi nuovi rispetto alla tradizione liberale il ruolo delle istituzioni. Qui l’attenzione deve essere particolarmente attenta, poiché con un semplicismo molto pericoloso si sta diffondendo l’idea – sostenuta specialmente dal Partito popolare, ma accolta acriticamente anche da Rifondazione comunista – che a fronte del presidenzialismosia americano che francese – sarebbe possibile “innovare”, “cambiare”, “adeguare” la nostra Costituzione mutuando i principi della Repubblica di Bonn che sono ispirati al “cancellierato”, e che vengono presentati alle masse, ignare degli specialismi reconditi, come una semplice variante dei governi “parlamentari”.
Se non si pretendesse di conoscere le istituzioni solo attraverso l’analisi della politica e dei partiti visti nelle loro tattiche anziché nelle loro strategie, si verrebbe a sapere che i giuristi tendono a classificare il sistema di governo della RFT come “parlamentare” per il semplice dato “formale” che il cancelliere è legittimato nella titolarità dei suoi poteri non direttamente dal popolo ma dall’organo rappresentativo del popolo, sapendosi che un sistema di governo è classificabile come “presidenziale” per il carattere plebiscitario dell’elezione del capo dello stato, salvo però cogliere una serie di elementi senza dei quali nella storia contemporanea risulta insufficiente la tradizionale distinzione tra sistemi parlamentari e presidenziali che presentano contraddizioni rispetto ad una inevitabile valutazione sostanziale, per la quale si constata che “al cancelliere federale è attribuita una netta prevalenza nell’ambito del governo”; che il cancelliere potrebbe trovarsi persino in condizione di svolgere la propria azione “solo con l’attivo e continuo appoggio dei poteri del presidente della repubblica”, che ha la possibilità di mantenere in carica il cancelliere “posto anche formalmente in minoranza” dichiarando lo stato d’urgenza legislativa con cui l’esecutivo è legittimato ad attuare “il proprio indirizzo legislativo anche senza la fiducia dell’organo rappresentativo”, tenuto conto che nella RFT il bicameralismo “non paritario” consente alla Bundesrat – la seconda camera – di capovolgere il suo apparente stato di inferiorità rispetto al Bundestag ove dia l’assenso ad una legge rigettata da quest’ultimo (Mortati).
Ben diversa da quella che viene prospettata è – quindi – la portata del modello della Repubblica di Bonn, che ha “razionalizzato” il modello di Weimar in funzione degli obbiettivi di stabilizzazione prima sociale che istituzionale, perseguiti nell’elaborare una “legge fondamentale” come quella tedesca che le potenze occupanti hanno voluto fosse improntata a principi socio politici diversi da quelli che ispiravano – nel contempo – il modello della prima costituzione francese del 1946, respinta dal ricorso reazionario al referendum sollecitato dal generale De Gaulle (divenuto solo 12 anni dopo il demiurgo della V repubblica “presidenzial-bicefala”) e della Costituzione italiana del 1948, non a caso sottoposta a continui attacchi sin dal momento della sua entrata in vigore: con l’obbiettivo cioè di evitare che in Germania, per antitesi al nazismo, prendesse vita un ordinamento posto ai suoi antipodi, dando pertanto corpo ad un sistema che, non a caso, si è rivelato il prototipo di quella che si chiama “economia sociale di mercato” e che è ora indicato come modello da imitare, in quanto la sua funzionalità agli interessi del capitalismo internazionale si è rivelata tale che la Germania è divenuta coerentemente il nucleo istituzionale più corrivo all’organizzazione sovranazionale comunitaria, sorta in nome dell’anticomunismo nel 1957 e rivelatasi tale da poter piegare ai suoi interessi gli ordinamenti statuali di cui è attualmente il prolungamento.
Sicché, mentre si discetta visibilmente e demagogicamente sugli aspetti esteriori del processo di manipolazione delle nostre istituzioni democratiche, tutto il silenzio che si cerca di mantenere sugli obbiettivi reali della strategia delle “riforme istituzionali” – e che ora comincia a diradarsi, sotto l’impulso di chi dal primo momento aveva divisato di contrattaccare avverso il modello di democrazia sociale contenuto nella costituzione del 1948 – riguarda in realtà il contenuto intimo così massimalisticamente denunciato da frange di estrema sinistra succedutesi sin dall’epoca costituente, perché – lungi dal prospettare quel modello di “economia sociale di mercato” su cui oggi si ripiega per adeguare anche il sistema italiano a quello della RFT – il patto sottoscritto nel 1948 dall’incontro tra la cultura cattolica e quella marxista mirava a porre le premesse di una transizione che, benché non iscritta nella prospettiva del socialismo, legittimava una contraddizione non più statica ma dinamica nella lotta aperta tra le due ideologie che si contrapponevano da occidente ad oriente e viceversa.
Tale distinzione – che implica un’analisi critica del rapporto tra “modello di democrazia sociale” (genericamente, ma impropriamente, riferito a tutte le forme di stato contemporaneo da una cultura conservatrice interessata ad occultare le articolazioni reali) e “modello istituzionale” delle forme di governo – emerge chiaramente ove si passi ad una verifica più ravvicinata del modello di Bonn.
Non sul lavoro, ma su moneta, “produttività” e federalismo è fondato il Cancellierato
Modello di Bonn che si discosta da quello di Weimar per la parte degli obbiettivi economico-sociali (in modo peggiorativo) – per i quali, invece, si è consolidato il “mito” weimariano -più che per la parte riferibile alla forma di governo, se con riferimento a questa è stato addirittura notato non solo che quel che “prevalse informando in se tutto il meccanismo istituzionale della Germania di Bonn è una netta prevalenza che, in ultima analisi, equivale a stabilire un’effettiva “preminenza dell’esecutivo” (anzi meglio, una preminenza del cancelliere: da ciò l’attuale sistema di Bonn viene qualificato come “Kanzlerdemokratie”) sul “legislativo” : ma addirittura che, al di là del tentativo di evitare i rischi “presidenzialistici” insiti nel modello weimariano, nel sistema tedesco v’è anche da aggiungere, alla preminenza del cancelliere, persino lapreminenza del presidente della repubblica, per la possibilità di formare governi “minoritari” “solo in quanto poggiati sulla volontà del presidente medesimo, nel qual caso è il presidente che assumerà la prevalenza diventando, di fatto se non di diritto, il vero capo dell’esecutivo”.
Inevitabile appare a questo punto andare a vedere quel che di più significativo la Costituzione di Bonn – anche se scarsamente considerato, specialmente oggi – ha assunto a fondamento della “forma di stato”, e precisamente quel nucleo di principi che non concernono tanto l’aspetto “federalistico” dello stato su cui tanto mistificatoriamente si sta discettando, quanto piuttosto quello dei “diritti”, perché anche ad una lettura sommaria risulta chiara la totale assenza di quei “diritti sociali” che sono i soli che consentono di qualificare coerentemente un ordinamento come democratico sociale, limitandosi la Costituzione di Bonn a stabilire un’intima coerenza tra la natura “liberale e democratica” dell’ordinamento (art. 10; art. 91) e i diritti civili e politici della sola “persona” : con la conseguenza che c’è un pressoché totale silenzio su quei rapporti “etico-sociali” ed “economici” che caratterizzano la Costituzione italiana.
Ciò in particolare a causa della profonda differenza che il sistema dei partiti e il ruolo dei sindacati ha assunto nella RFT e in Italia ove, pur entro la serie di contraddizioni sviluppatesi dal 1947 in poi, le lotte sociali e politiche hanno avuto come strumento determinante l’uso politico del diritto di sciopero e la crescita politica del sindacato, per potenziare la valenza sociale della legge, e cioè la valenza sociale dello Stato, nella disciplina dei rapporti economici.
Il modello di Bonn infatti, rappresenta un forte arretramento rispetto al modello weimariano, nel quale – pur con i limiti intriseci alla cultura socialdemocratica del 1919 – entra per la prima volta la “vita collettiva”, e in tale ambito la “vita economica”; con la specificazione del primato delle “norme fondamentali della giustizia” sull’ordinamento della vita economica e dei limiti entro i quali è da tutelare la libertà economica (art, dei vincoli specifici della proprietà fondiaria a favore anche del diritto di abitazione, con la previsione del principio di socializzazione dell’economia sia nelle forme di partecipazione pubblica all’amministrazione di imprese economiche sia di forme di collaborazione dei fattori di produzione sia della compartecipazione dei datori e prestatori di lavoro all’amministrazione art. 156), con la preminenza dei diritti civici su quelli di lavoro e le garanzie di tutela degli interessi dell’intera classe dei lavoratori “per un minimo di diritti sociali comuni a tutti” (artt. da 160 a 162), anche con riguardo all’occupazione.
E’ proprio con riferimento al modello di Bonn, allora, che valutando le costituzioni democratiche del secondo dopoguerra, si può convenire che, diversamente da quella italiana, si tratta pur sempre di una costituzione che prosegue la precedente tradizione “liberale”, sicché il sistema di Bonn va letto attraverso le vicende proprie degli “stati di partiti”, cioè sia tenendo presente l’identità dei partiti di massa sia la natura mutevole dei loro rapporti, nel caso di quelli tra la socialdemocrazia e la locale democrazia cristiana.
La coerenza tra svolta socialdemocratica di Bad Godesberg e”Kanzlerdemokratic”
In tal senso esprime in tutti i suoi risvolti il significato dell’esperienza della socialdemocrazia tedesca, in contrasto con quella del PCI e del PCF, la tanto enfatizzata svolta di Bad Godesberg – datata 1959, due anni dopo la firma dei Trattati di Roma per creare il MEC, e un anno dopo il colpo gollista da cui è derivata la V Repubblica francese – svolta che vede la socialdemocrazia abbandonare ogni riferimento classista in coerenza con il rifiuto della Costituzione di Bonn di fare del “lavoro” la base fondativa della repubblica, sicché si afferma che lo stato deve creare i presupposti a che “il singolo possa dispiegarsi rendendo liberamente conto di sè pur rispettando i propri obblighi sociali”, e che in quanto “stato sociale deve garantire l’esistenza dei suoi cittadini in modo tale da rendere possibile a ognuno una responsabile autodeterminazione e lo sviluppo di una società liberale”. E ciò mediante l’esaltazione della “seconda rivoluzione industriale”, del ruolo della “moneta stabile”, della crescita della “produttività dell’economia nazionale”, mentre per enfasi residua si constata che laddove predomina la grande impresa non esiste libera concorrenza, che il potere economico si trasforma in potere politico, predicando che un efficace controllo pubblico deve impedire ogni abuso di potere dell’economia, mentre compito del sindacato è quello di rendere ogni lavoratore capace di una “continua collaborazione” e la cogestione deve trasformarsi in uno statuto imprenditoriale democratico per la grande industria.
Non può allora dimenticarsi che il sistema del cancellierato – che prosegue il ruolo storico della preminenza dell’esecutivo dalla Germania “bismarckiana” a quella weimariana – è stato usato per fare della RFT il baluardo dell’Europa occidentale contro il blocco comunista, si che le coalizioni governative che hanno assicurato la “stabilità” sociale e istituzionale, hanno costantemente visto i socialdemocratici protagonisti dell’integrazione della classe operaia nella società capitalistica e nello stato. Con modalità particolarmente lesive degli stessi diritti fondamentali propri di uno stato liberale, soprattutto in quella fase vissuta all’insegna di quella che è stata definita “germanizzazione” negli anni 1968-1977, culminando nell’introduzione nella Costituzione dei poteri relativi sia allo “stato di emergenza” che allo “stato di difesa”(artt. 87, 115), principi anch’essi assenti nella nostra costituzione: sarebbe pericoloso dimenticare il tristemente famoso “berufsverbot” così contrastante con i principi del liberale stato di diritto, la cui emanazione è sempre possibile per la presenza nella Costituzione tedesca di norme sulla “perdita” di diritti fondamentali per “abuso” delle principali libertà “per combattere l’ordinamento fondamentale democratico e liberale” (art. 18).
Ed è comunque meritevole di attenzione – specie dopo la riunificazione tedesca – che il modello della democrazia solo “formale” ed oltretutto esplicitamente “limitata” in un impianto istituzionale che è assai forzato chiamare “parlamentare”, sia stato completato da un principio costituzionale relativo ai partiti politici gravemente lesivo della democrazia sia formale che sostanziale, in quanto – diversamente dalla Costituzione italiana che (sia pure in una norma “finale”) ha posto il divieto della ricostituzione del partito “fascista” – ha proclamato l’incostituzionalità dei partiti che “per la loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti tentano di pregiudicare ed eliminare l’ordinamento fondamentale democratico e liberale o di minacciare l’esistenza della RFT” (art.21), principio che è stato concretamente usato per sciogliere sia il partito nazista sia il partito comunista, come consacrazione di un ruolo della socialdemocrazia del tutto conforme ad una Costituzione che – ad onta della proclamazione, ora ripetuta anche in Italia, sull’essenzialità dello “stato sociale” – è estremamente coerente nell’aver attratto nell’orbita delle più tradizionali concezioni del potere i meccanismi storicamente preordinati a conservare gli assetti del capitalismo.
Il modello tedesco di stato al servizio del capitale per la germanizzazione dell’Europa
Ma quello che più rileva – per meglio comprendere sia gli assetti di potere esistenti nei vari ordinamenti, sia le ragioni delle pressioniesercitate per “riforme istituzionali” come quelle predicate per il “caso italiano” – è il criterio sia formale che sostanziale adottato costituzionalmente per le decisioni e, nell’interdipendenza tra soggetti delle decisioni, gli obbiettivi delle decisioni medesime: sicché nelle discettazioni in corso sulla preferibilità di presidenzialismo, semipresidenzialismo e cancellierato – nonché di elezioni a uno, o a due turni – grave è il rischio che si rimanga impigliati nella pania – e nella panacea – del “rafforzamento dell’esecutivo”, cui non sono affatto insensibili (ragionando “pro domo sua”) anche i gruppi dirigenti di una sinistra anelante solo ad entrare nella stanza dei bottoni per “gestire affari altrui”, dimenticando che in tal modo si prefigurano solo le condizioni dell’esercizio di un potere incontrollato con totale cancellazione della democrazia. E, infatti, scopo delle cosiddette riforme istituzionali è quello di spostare l’asse delle decisioni – che peraltro, è sempre stato storicamente accentrato – verso un’area esente dalle incursioni delle forze sociali tradizionalmente oppresse, così che si mira non solo a subordinare il parlamento al governo, ma addirittura ad escludere da un ruolo di potere la stessa partecipazione del parlamento anche alle sole forme finali della “approvazione” di atti di governo, ritenuti comunque rilevanti in linea di diritto o anche solo di fatto: questo mediante il passaggio da quella che tecnicamente si chiama “riserva di legge”, alla delegificazione e alla “riserva di regolamento”, adottando altresì il gioco della preminenza delle leggi cosiddette “organiche” con cui anche il “federalismo” persegue i suoi obbiettivi di accentrare il potere. Tutto ciò stando al vecchio armamentario dello stato moderno che racchiude l’uso di quello che burocraticamente si definisce come il “sistema delle fonti giuridiche”: armamentario che tuttavia è stato sempre “modernizzato” a fini di repressione con la politica dell’ordine pubblico, sempre attualizzato ai fini del governo “politico-amministrativo”.
Quello che però riguarda più strettamente non già i rapporti tra “cittadini” e stato, ma tra istituzioni sovranazionali e nazionali e “produttori” (nella doppia veste di capitalisti e di lavoratori) e che vale ad alterare il ruolo sostanziale della stessa cittadinanza, concerne la regolazione dell’economia nei suoi risvolti sociali. Quindi, di fronte a tale sempre più preponderante funzione assolta dallo stato e in generale dalle istituzioni, il “rafforzamento dell’esecutivo” serve a coprire l’area di potere non solo delle “tecnostrutture politiche”, ma soprattutto ed anche delle “tecnostrutture economiche”, come tali considerate esenti in via di principio da contaminazioni con la democrazia, pur se intesa entro gli angusti limiti della tradizione liberale.
Ed è proprio l’ordinamento della RFT – come modello esemplare di stato al servizio del capitale – quello che meglioesplicita un obbiettivo di conservazione “dell’equilibrio economico generale”, all’insegna dei criteri per l’attuazione dei quali gli organi di vertice dello stato federale mantengono un rapporto privilegiato con la Banca di Stato appositamente istituita, in una logica di politica economico-finanziaria che vede costituzionalizzato quel principio del “pareggio” di bilancio che è un tipico strumento dello Stato liberale (art.110) , e che si compenetra dei valori che istituzionalmente qualificano la funzione della Bundesbank (art. 88). Per questo uno dei più insistiti – e meno noti – motivi delle riforme istituzionali è legato alla proposta di modifica dell’art. 81 della nostra Costituzione, ad onta della quale è stata introdotta nel 1978 la ben nota e famigerata “legge finanziaria”. Sicché, ad ogni buon conto, in questo modo le forze conservatrici spingono per consacrare, con la modifica dell’art. 81, il cuneo già operante della Legge finanziaria, alterando così il quadro dei rapporti tra le norme costituzionali che negli anni sessanta e settanta erano state usate da sinistra per tentare di controllare l’economia privata – contro il disegno della politica “dei redditi” perseguito dal centrosinistra – e quello sul Bilancio dello stato. Il tutto in una perseguita prospettiva di più generale subordinazione dell’ordinamento italiano a quei principi di cosiddetta “costituzione economica” che da Bonn si sono irradiati nel sistema comunitario europeo, ed ora incombono in una caratterizzazione sempre più drasticamente “antisociale” della simbiosi tra sistema delle Banche Centrali allocate nella CE, e gruppi di potere politico “servente”, giudicati tanto più funzionali al sistema capitalistico se estratti dal personale burocratico dei partiti “progressisti”, tanto meglio se ex socialisti ed ora anche ex comunisti.
Se, invece di concludere per l’insuperabilità del capitalismo, si analizza il diverso processo di sviluppo dei rapporti fra società e stato in Germania ed in Italia dal 1948 ad oggi, si viene a constatare come a più riprese si siano manifestate tendenze pericolose più che alla americanizzazione, alla germanizzazione dell’Europa stessa. Ciò che comporta la massima attenzione al ruolo che le istituzioni hanno svolto a Bonn perché l’economia dominasse secondo un asserito principio di economia sociale (?!) di mercato non solo in Germania, ma nella più ampia comunità europea, rispetto alla quale il caso italiano era disomogeneo, tanto che a detta degli avversari di classe distribuiti un po ovunque ancora, non sarebbe del tutto riassorbito nonostante gli arretramenti “neo-corporativi” facilitati dallo sbandamento organico di tutta la sinistra storica, sbandamento che non si vuole definire “tradimento” nell’infondato timore di introdurre una categoria concettuale di tipo “irrazionale”, ma che è purtroppo materializzata dall’abbandono di quella strategia ricordata da Agostinelli quando ha accennato al nesso, che negli anni sessanta e in parte degli anni settanta, è stato istituito non solo culturalmente ma anche con le lotte, tra il conflitto gestito nella sua autonomia sociale e la funzione della rappresentanza parlamentare nella strategia di una poi mancata programmazione democratica dell’economia.
Occorre pertanto indagare – come ci siamo proposti nella ricerca – l’articolazione delle lotte degli anni che hanno preceduto l’inizio dell’arretramento databile del 1978, per cogliere quegli elementi del processo di democratizzazione che – in nome dell’attuazione della Prima Parte della Costituzione – si è tentato di introdurre nel sistema a tal punto da far coniugare, in termini alternativi, la creazione dei diritti sociali con la creazione dei diritti sia politici – il voto a 18 anni – sia civili, con tutto quel che riguarda divorzio e aborto nel quadro della riforma del diritto di famiglia.
Il contesto generale entro cui si sono contrapposte le strategie di rafforzamento del capitalismo e di contestazione del sistema dominante è identificabile – a proposito delle istituzioni – dalla alternativa tra “rafforzamento dell’esecutivo” e “centralità del parlamento”, in tutti i passaggi così diversi tra loro di un conflitto che ha marcato profondamente di se il concetto di “democrazia” nel senso sottolineato da Carla Filosa, che denuncia con la necessaria forza la cancellazione in atto di un valore che si appanna e si estingue – appunto – a misura di un rafforzamento dei “poteri forti” conseguente al cedimento stesso dei soggetti che avevano lottato per una democrazia conflittuale e non governante come quella perseguita con Craxi, sia da Andreotti che da Forlani.
Guardare alla Germania e al cancellierato come se Kohl non realizzasse i principi di un sistema di governo pseudodemocratico, pur di trovare una Dc non indegna di sè, e nella socialdemocrazia una peregrina via di uscita dalla sconfitta del “bolscevismo” sovietico, significa scadere nel più opaco dei tatticismi da parte di gruppi dirigenti che scambiano la democrazia con la loro sopravvivenza a prezzo di insopportabili sconfitte di larghi strati sociali che vivono del loro lavoro e non sono parassiti all’ombra di burocrazie che per rilegittimarsi sono ricorsi al principio maggioritario, servito a soccorrere quanti con il sistema proporzionale avrebbero dovuto viceversa impegnarsi nel dirigere lotte in cui oggi certamente non credono più, sollevando persino dubbi sulla genuinità delle loro precedenti posizioni ufficiali.
I fatti hanno documentato che se davvero si fosse pensato a sinistra a “rigenerare” il sistema politico – anziché accogliere le tradizionali sollecitazioni della destra “antipartitocratica” contraria al pluralismo sociale e alla lotta di classe che la proporzionale unitamente alla pienezza del diritto di sciopero aveva legittimato -, non ci si sarebbe convertiti alla logica uninominale. Ma si sarebbe riaperta una più incisiva conflittualità, puntando sia all’eliminazione dei limiti al diritto di sciopero introdotti con l’accordo tra Psi e Pci e Cgil, sia al ripristino della proporzionale “pura” dopo le correzioni in vigore dal 1954, per rilanciare la Costituzione non già in nome della governabilità che comporta potenziamenti ingiustificati dei vertici dello stato come dell’impresa, ma in nome della rappresentatività, senza cadute come quelle che – imperniate sulla scoperta del referendum come preteso strumento di “democrazia diretta” – ha portato anche forze di estrema sinistra ad adagiarsi su meccanismi “atomizzati” e “individualistici” che fanno da pendant dei plebiscitarismi su cui si regge il sistema politico del capitalismo sia in Gran Bretagna che negli Usa, assieme agli aggiustamenti del cancellierato tedesco.