I quattro sikh annegati in una vasca di liquami nell’Oltrepo pavese non sono che gli ultimi di 621 decessi sul luogo di lavoro, nei primi otto mesi del 2019. Cifre da record, dopo quelle altrettanto elevate degli ultimi anni. Un caso? No, il risultato di un Paese che si dimentica di chi fa lavori umili. Il prezzo della nostra cattiva coscienza di cittadini e consumatori.
di Francesco Cancellato
Il contatore è ripartito ieri, coi quattro indiani morti in un allevamento dell’Oltrepo Pavese, caduti e annegati in una vasca di liquami nel tentativo disperato di salvarsi l’un l’altro. Quattro nuove morti sul lavoro che si aggiungono alle 599 registrate da gennaio a luglio e ai 18 incidenti mortali di agosto. In totale, 621 morti in otto mesi e mezzo. Di questo passo, stando ai dati elaborati dall’Inail, c’è il rischio concreto che il 2019 faccia registrare più decessi sul lavoro dei 1218 del 2018. Che a loro volta erano stati superiori ai 1148 del 2017.
È un’escalation che ci deve preoccupare. E non solo perché non è possibile che nel terzo millennio, in un Paese dell’Occidente sviluppato, anche una sola persona possa morire mentre lavora. Ma perché questi infortuni, al di là degli incidenti, raccontano un Paese che sta lentamente scivolando all’indietro, e che sta dimenticandosi di tutelare un pezzo della sua società. Peggio ancora: il pezzo di società più debole e vulnerabile.
È molto istruttivo, ad esempio, leggere dei diciotto incidenti mortali di agosto e settembre. C’è l’operaio di Ferrara e quello di Cremona. C’è un muratore a Bergamo. C’è un’addetta delle pulizie di Milano e il facchino di un magazzino della logistica a Piacenza. C’è un altro operaio nel cosentino, e un altro muratore, nel catanese. C’è la manutentrice di una giostra, a Rimini. C’è il manutentore di un mezzo pesante, nell’aquilano. Ci sono altri tre operai, a Varese, Latina e Frosinone. E c’è un lavoratore agricolo a Catanzaro.
Operai, facchini, muratori, braccianti: a morire sono i lavoratori più umili, quelli che nemmeno ci ricordiamo che esistono, quelli che soffrono ogni giorno, davvero, la concorrenza spietata delle delocalizzazioni, il ricatto costante di gente come loro, più disperata di loro, disposta a fare il loro lavoro per nulla, senza alcuna tutela, in Italia o altrove. Quel lavoro che, per stare in Italia, o è sottopagato o non è. O è insicuro o non è. O è pericoloso, o non è. Talvolta, sopratutto sei sei straniero, è pure senza alcun contratto e con retribuzioni da schiavi. Prendere o lasciare.
E possiamo pure far finta di pensare che tutto questo non c’entri niente con l’escalation delle morti sul lavoro degli ultimi tre anni, che sia il destino cinico e baro a portarci via mille e rotti persone all’anno. Possiamo pure crederlo, ma non è così. Quei morti sono la nostra zona d’ombra, un pezzettino della nostra coscienza sporca di cittadini e consumatori, quella che abita il nostro stesso Paese. Quei morti sono i costi bassi delle case che abitiamo, sono i pomodori con lo sconto del 30% al supermercato, sono il gadget tecnologico comprato online che arriva dopo un giorno dall’ordine, sono il made in Italy che esportiamo nel mondo, di cui ci riempiamo la bocca.
Chiunque sia al governo, dovrebbe farsi carico di tutto questo e chiedere a se stesso l’ambizione di fare dell’Italia un Paese in cui nessuno muore mentre lavora. Garantendo sanzioni più severe, controlli più stringenti e magari pure incentivi per chi rispetta le regole e tutela il suo capitale umano. Banalmente, che non faccia finta di dimenticarsi del problema. Che dite, Pd e Cinque Stelle: ci proviamo?
13 settembre 2019