Posted on 21 settembre 2018
di Andrea Catone
Prima e dopo l’elezione di Trump assistiamo ad un duro scontro interno alla classe dominante Usa. È fallito, a quasi 30 anni dalla fine dell’Urss, il “progetto americano per il nuovo secolo” di essere la superpotenza incontrastata nel mondo (unipolarismo). La straordinaria ascesa della Cina, la riorganizzazione della Russia sotto la direzione di Putin, l’emergere di nuovi soggetti sulla scena mondiale ne determinano il fallimento. Trump cambia linea, non per accettare però un mondo veramente multipolare, ma nel tentativo di affermare su una base più solida il primato americano. Non smantella, ma rafforza il complesso militar-industriale (aumenta la spesa per il 2019), né il sistema di basi e di alleanze militari sotto stretto controllo USA, in primis la NATO. E, insieme, punta al rilancio della base industriale, indebolitasi negli ultimi decenni, con una politica protezionistica e la dura guerra commerciale non solo contro la Cina, ma anche contro i paesi capitalistici – dalla Ue al Canada al Giappone – che hanno costituito dopo il 1945 il “blocco occidentale”. Trump vuole rompere ogni organismo di cooperazione internazionale, in modo da trattare da maggiori posizioni di forza con ogni singolo paese. La Ue vive oggi una crisi profonda politica, morale, di progetto. In questa crisi si inserisce ora l’azione di Trump apertamente contro la Ue. L’implosione della Ue avrebbe oggi un forte segno di destra – come mostra in Italia la forte ascesa della Lega – e porrebbe ogni singolo paese europeo ancor più sotto il controllo USA.
L’irrompere sulla scena politica interna e internazionale di Donald Trump, insediatosi (nonostante abbia ricevuto 2.800.000 voti in meno della candidata del partito democratico Hillary Clinton[1]), il 20 gennaio 2017 alla Casa Bianca quale 45° presidente della potenza con il più alto Pil, il più forte arsenale e la più grande presenza militare del mondo, con basi istallate in oltre 150 paesi, muta il quadro dei rapporti internazionali a livello mondiale. Nessuna analisi del quadro mondiale e dei rapporti internazionali può prescindere dal ruolo degli Usa.
Un duro scontro tra frazioni della classe capitalistica americana
A quasi due anni dal suo insediamento, Trump continua ad essere oggetto di contestazioni e attacchi dei media, tra cui i ben noti The Washington Post e New York Times. Ad agosto 2018 il Boston Globe ha lanciato una campagna per la libertà di stampa negli Usa, in sostanza contro Trump, alla quale hanno aderito 350 giornali[2]. Sono numerosi ormai i libri e pamphlet contro di lui, lanciati con grande battage pubblicitario[3]. E insieme con ciò, azioni legali e iniziative per procedere all’impeachment[4]. Uno scontro di tal fatta non si presentava da molti anni nella storia americana, che pure è costellata da risoluzioni violente dei conflitti interni, compresi l’omicidio di quattro presidenti[5]: quando la classe capitalistica americana non riesce a comporre le contraddizioni interne alle sue frazioni di classe con metodi legali, ricorre al “Far West”, alla risoluzione violenta ed extralegale.
L’attuale scontro in atto negli Usa non è tra lavoro e capitale, o tra masse popolari e borghesia: la classe lavoratrice è, nella fase attuale, oggetto e strumento di manovre nello scontro interborghese, non è soggetto attivo di rivendicazioni sociali né tantomeno portatore di un progetto politico quale classe per sé. È uno scontro interno alla classe dominante e dirigente negli Usa, tra frazioni della classe capitalistica.
Il capitale non è un blocco unico, ma procede attraverso la contraddizione tra capitali: uniti contro i lavoratori, “fratelli nemici”, divisi e in competizione per la spartizione dei profitti. Non esiste il capitale, ma i capitali. La concorrenza tra imprese capitalistiche non è un accessorio del modo di produzione capitalistico, ne è parte costitutiva, fondante. Tra concorrenza e monopolio vi è una dialettica, che porta la concorrenza a generare il monopolio e il monopolio a sua volta a generare la concorrenza, come Marx scriveva già nel 1846: “Nella vita economica di oggigiorno voi trovate non soltanto la concorrenza e il monopolio, ma anche la loro sintesi, che non è una formula, ma un movimento. Il monopolio produce la concorrenza, la concorrenza produce il monopolio”[6]. Nell’analisi matura del Capitale Marx chiarisce filosoficamente la questione della concorrenza – della contraddizione intercapitalistica – come inestricabilmente connessa alla vita stessa del capitale: “Il capitale esiste e può esistere soltanto come molteplicità di capitali, e perciò la sua autodeterminazione si presenta come la loro azione e reazione reciproca”. Poiché esso è per sua natura “autorepulsione, pluralità di capitali in completa indifferenza reciproca”, deve necessariamente “respingersi da se stesso”. “Poiché il valore costituisce la base del capitale, e questo esiste necessariamente solo in quanto si scambia contro un equivalente, esso si respinge necessariamente da se stesso. Un capitale universale che non abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare […] è perciò un assurdo. La reciproca repulsione di capitali è già implicita in esso in quanto valore di scambio realizzato”[7].
Occorre sgomberare il campo da un equivoco, alimentato anche dalla narrazione dei “trumpiani”: dell’outsider che sfida il cosiddetto establishment. Con l’uso di questi termini la retorica populista tende a rimuovere la connotazione di classe: se Trump è contro l’élite e l’élite è separata e contro il “popolo”, l’immobiliarista ultramiliardario diventa miracolosamente vicino al popolo o uomo del popolo. D’altra parte, la rimozione dell’analisi di classe caratterizza anche l’approccio di una parte consistente degli acerrimi nemici di Trump, che lo dipingono come “squilibrato”, “pazzo” (come nel libro Fear del giornalista Bob Woodward), nascondendo una fortissima contraddizione politica dietro il paravento dei limiti caratteriali del personaggio.
Trump sembra aver ottenuto notevoli successi in campo economico, anche se il dato statistico generale nasconde il crescere delle disuguaglianze sociali e delle contraddizioni nella società americana, come osserva nella sua analisi Ni Feng dell’American Institute of Chinese Academy of Social Sciences[8]. I dati del II trimestre 2018 segnano un aumento del PIL del 4,1%. Anche se – come segnalano alcuni analisti – parte di esso è dovuto all’eccezionale e non ripetibile incremento delle esportazioni (+9,3%) dovute all’acquisto di scorte prima che scattassero le contromisure ai dazi imposti da Trump (ad esempio, lo straordinario incremento di vendita di soia), il dato è indubbiamente significativo. “Con gli accordi commerciali che stanno arrivando cresceremo anche di più”, sostiene Trump, prevedendo una crescita annuale ben superiore al 3% rispetto a una media dell’1,8%” delle due precedenti amministrazioni. E ogni punto percentuale significa 3.000 miliardi di dollari e 10 milioni di posti di lavoro[9]. A spingere la crescita anche i consumi, balzati del 4,3%, in parte grazie al taglio delle tasse da 1.500 miliardi di dollari[10]. La disoccupazione è ai minimi storici: ad agosto 2018 6.200.000 persone, il 3,9%[11].
La guerra che a diversi livelli continua ad essere scatenata contro Trump negli Usa nonostante i buoni risultati dell’economia suggerisce che lo scontro in atto tra frazioni del capitalismo Usa non è dovuto essenzialmente a questioni di politica interna. Non è l’attacco all’Obamacare, né la riforma fiscale ultraliberista che riduce ancor più le tasse ai ricchi a scatenare una guerra al presidente quale non si vedeva dai tempi dell’impeachement di Nixon. E non sono neppure i motivi ideologici sbandierati da alcuni democratici, che, in nome dell’esportazione della democrazia occidentale, della libertà e dei diritti umani, hanno appoggiato i pesantissimi bombardamenti dal Medio Oriente ai Balcani all’Afghanistan nelle guerre americane dal 1991 ad oggi. E del resto Trump non è e non si è mai presentato nella veste di un paladino dei popoli, né ha mai speso una parola di biasimo per i milioni di vittime causati dalle guerre americane nel mondo.
Le cause di uno scontro che va ben al di là della ‘normale’ lotta politica per accaparrarsi posizioni di potere negli States (che si è presentata non di rado come scontro tra predoni per spartirsi il bottino) vanno cercate nell’impostazione della politica estera Usa.
Lo specifico imperialismo Usa
Donald Trump non rappresenta se stesso, né avrebbe mai potuto ascendere alla presidenza Usa senza il sostegno di una frazione della classe dominante americana; egli è fino in fondo agente attivo ed esponente della classe capitalistica degli Usa e del suo imperialismo, che, formulato ideologicamente con la “dottrina Monroe” nel 1823[12], ha assunto, con la vittoria nella II guerra mondiale nel 1945, e ancor più dopo la dissoluzione dell’Urss (1991), il carattere specifico di una superpotenza fondata sulla narrazione della sua una missione speciale nel mondo quale Manifest Destiny[13] per esercitare primato e leadership su scala mondiale, come esplicitamente affermano i documenti strategici dal 1991 in poi e il “Progetto per il Nuovo Secolo Americano” (PNAC) [14]. Con primato – scrive nel sito del “Discussion Club Valdai” Dmitrij Suslov, Vicedirettore presso il Centro di studi europei e internazionali globali – “si intende la nota superiorità degli Stati Uniti su tutti gli altri e l’assenza di rivali in grado, individualmente o persino in gruppo, di mettere in discussione questa superiorità. Per leadership si intende l’impostazione secondo cui proprio gli Stati Uniti devono stare al centro dell’adozione delle principali decisioni di politica ed economia mondiali, e alla base dell’ordine mondiale globale devono stare le regole, le norme e le istituzioni fondate dagli Stati Uniti e che sono sotto il loro effettivo controllo, così come i valori americani, assunti come universali”[15].
Gli Usa assurgono nel corso del XX secolo a massima potenza imperialista. La forza dell’imperialismo Usa consentirà di distribuire le briciole della rapina imperialistica alla classe operaia interna, che, dopo l’eliminazione degli Industrial Workers of the World (IWW) alle soglie degli anni 1920, è organizzata in sindacati corporativi, “gialli”, piegati ai voleri della classe capitalista. Dalla grande crisi del 1929, che devastò il proletariato americano, gli Usa escono effettivamente con la II guerra mondiale e il piano Marshall, grazie alle ingenti commesse belliche e civili per le sue industrie, e divengono, dopo il 1945, la superpotenza guida del mondo capitalistico.
Democratici e repubblicani condividono le scelte di fondo dell’imperialismo Usa: la guerra contro il Vietnam la iniziano i democratici e la concludono i repubblicani; l’assalto alla Baia dei Porci nel tentativo fallito di rovesciare Fidel Castro (Cuba, aprile 1961) lo fa il democratico J. F. Kennedy, la contrapposizione esasperata all’URSS e al comunismo è un tratto comune a tutti, e il repubblicano George H. W. Bush, 41° presidente Usa, avvia il nuovo secolo americano del primato e della leadership Usa con la guerra del Golfo del 1991 contro l’Iraq. I documenti sulla sicurezza strategica elaborati a partire dal 1991 sono chiari in proposito. All’apice del “momento unipolare”, poco dopo la caduta dell’URSS e la guerra contro l’Iraq, la cosiddetta strategia del primato viene articolata in seno al Pentagono nel 1992 in un rapporto riservato intitolato Defense Policy Guidance 1992-1994 (DPG), scritto da Paul Wolfowitz e I. Lewis Libby, in cui si propone di “impedire a qualsiasi potere ostile di dominare regioni le cui risorse gli consentirebbero di raggiungere un grande status di potere”, “scoraggiare i paesi industrializzati avanzati dal tentare di sfidare la nostra leadership o rovesciare l’ordine politico ed economico stabilito”, e “impedire la futura comparsa di qualsiasi concorrente globale”[16]. “Siamo al centro e al centro dobbiamo restare […] Gli Stati uniti devono guidare il mondo, tenendo alta la fiaccola morale, politica e militare del diritto e della forza, e proporsi come esempio a tutti i popoli della terra”[17]. “Il XVIII secolo è stato francese, il XIX inglese ed il XX americano. Il prossimo sarà un altro secolo americano”[18]. “L’America scavalca il mondo come un gigante […] Da quando Roma distrusse Cartagine, nessun’altra grande potenza si è innalzata al culmine cui siamo giunti noi”[19].
La politica imperialistica Usa ha goduto di un notevole consenso interno. L’unico momento in cui l’intervento militare Usa fu oggetto di contestazioni di rilievo fu tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 per la guerra del Vietnam, ma fu in gran parte dovuto alla straordinaria resistenza dei vietcong che seppero infliggere perdite pesanti all’esercito invasore. Anche per questo gli Usa aboliscono la leva obbligatoria (1972) e costruiscono un esercito di professionisti. Dopo il 1991, salvo qualche voce di dissenso illuminata, il consenso alle guerre imperialiste – o l’indifferenza rispetto ad esse – è stato il tratto dominante.
Tre decenni dopo il 1991: un bilancio negativo per il “nuovo secolo americano”
A quasi 30 anni dalla fine dell’URSS e dall’avvio della strategia dell’unipolarismo Usa, il più potente paese del mondo deve registrare il fallimento di questa strategia, che ha costellato l’ultimo quarto di secolo di guerre, manovre di sovversione e smembramento – attraverso azioni militari dirette o per interposta persona, sostegno a movimenti separatisti, “rivoluzioni colorate” – di paesi colpevoli di resistere alla pressione Usa, fino a promuovere e alimentare – strategia del caos – una guerra infinita in Medio Oriente favorendo la creazione dello stato terrorista di Daesh nel 2014[20].
Il bilancio di questa linea strategica – condivisa nelle linee di fondo da repubblicani e democratici, con differenze nella tattica – è fondamentalmente negativo, pur potendo annoverare alcuni successi parziali, quali:
– aver inglobato nella NATO i paesi ex socialisti dell’Europa centro-orientale e balcanica e alcune repubbliche ex sovietiche (dopo l’adesione delle repubbliche baltiche candidate alla NATO sono Ucraina e Georgia);
– aver esteso le basi americane in parti del globo che fino al 1991 erano precluse: dall’Europa centro-orientale e balcanica, lì dove erano fino al 1989 degli stati socialisti, arrivando ai confini della Federazione russa, fino all’Afghanistan e all’Asia centrale;
– aver ridimensionato l’aspirazione dell’euro a divenire moneta di riserva internazionale: il dollaro continua ad essere di gran lunga la valuta principale detenuta dalle banche centrali del mondo (oltre il 62%), mentre l’euro, dopo aver raggiunto il picco del 27% nel 2009, è sceso oggi intorno al 20%[21]. Contro l’euro gli Usa promossero nel 2003 la guerra all’Iraq[22] (sostenuti dal Regno Unito e avversati fortemente da Francia e Germania) e anche quella del 2011 contro Gheddafi, che minacciava di sostituire il dollaro con il dinaro d’oro africano per la vendita dell’ottimo petrolio libico. Pure l’attacco speculativo partito nel 2009-2010 contro il debito sovrano di paesi dell’eurozona quali Cipro, Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia, può iscriversi all’interno della guerra valutaria tra dollaro ed euro[23], anche se bisogna osservare che tale attacco ha potuto provocare effetti ancor più devastanti sulle economie e le società di questi paesi (dalla Grecia all’Italia), grazie alla rovinosa conduzione della crisi del debito da parte del nucleo dirigente dell’eurozona guidato dalla Germania.
Ma per la strategia Usa delineata dal 1991 in poi il bilancio complessivo è negativo:
– Non fermano la travolgente ascesa economica della Cina, che si sta trasformando da “fabbrica del mondo” anche in cervello altamente tecnologico del mondo. Questa è la più pesante sconfitta strategica degli Usa. Consapevoli del nuovo ruolo e della nuova responsabilità nel mondo, i dirigenti cinesi, dopo aver adottato correttamente nei decenni precedenti la massima di Deng Xiaoping di procedere cautamente in politica estera, senza assumere un ruolo protagonista di primo piano, propongono oggi al mondo una strategia globale, contrapposta a quella statunitense, di relazioni internazionali economiche e politiche basate su rapporti paritari tra Stati, con un interscambio reciprocamente vantaggioso. Si veda il grande progetto di “Nuova via della Seta”. La “via cinese” oggi non riguarda solo lo straordinario sviluppo del più popoloso paese del mondo, ma l’intero globo, un modello che, rispettando le diverse culture e civiltà, propone un’alternativa concreta di relazioni internazionali.
– Non riescono a disgregare la Russia, né a distruggere il suo apparato militare nucleare. Dalla presidenza El’cin avevano ottenuto molto, la Russia poteva anche essere inglobata nel sistema del capitalismo occidentale, tanto da essere ammessa nel 1997 nel suo club, che cambiò nome in G8 (per ritornare poi a G7, nel 2014, escludendo la Russia, colpevole di aver difeso i propri interessi nazionali contro il golpe banderista in Ucraina). Ma dopo il 1999 si afferma in Russia con Vladimir Putin un’altra direzione politica che ferma i tentativi di balcanizzazione e smembramento della Federazione (Cecenia, Daghestan, repubbliche autonome sul Caspio), ricostruisce la forza militare del paese, restituisce autostima al popolo russo, umiliato e offeso dal decennio el’ciniano di rapina e svendita degli interessi nazionali, rintuzza le provocazioni (Georgia, agosto 2008), reagisce al golpe ucraino del 2014 e impedisce la distruzione della Siria assumendo un ruolo sempre più importante nello scacchiere internazionale. La contrapposizione alla Russia, indicata dai democratici americani come il nemico e perciò oggetto di dure sanzioni economiche, rinsalda per converso i buoni rapporti tra Russia e Cina.
– Non riescono ad ottenere nel Medio Oriente-Nord Africa (MENA) un’area sottomessa al loro controllo, per cui, dopo due guerre all’Iraq nel 1991 e nel 2003, alla Libia e alla Siria nel 2011, non resta loro che la “strategia del caos”, perseguendo non la stabilità, ma l’instabilità permanente della grande area di vitale importanza economica e strategica, cercando di evitare che si stabilizzi sotto il controllo e a vantaggio di potenze rivali.
– Anche il “cortile di casa”, l’America Latina, pur se attraverso un percorso a zig-zag, di avanzate e ritirate, tende a sottrarsi al controllo del Grande Fratello Usa.
Un articolo dell’“Economist” del gennaio 2018 lamenta la perdita di potere Usa negli ultimi 20 anni a vantaggio di Cina e Russia: “Quasi 20 anni di deriva strategica hanno fatto il gioco della Russia e della Cina. Le guerre fallimentari di George W. Bush si sono rivelate un diversivo e hanno ridotto il sostegno in patria per il ruolo globale dell’America. Barack Obama ha perseguito una politica estera di ridimensionamento ed era apertamente scettico sul valore dell’hard power”[24].
Il mondo è già multipolare, che l’imperialismo Usa lo riconosca o meno.
L’azione di politica estera dei quasi due anni della presidenza Trump va esaminata tenendo conto anche del fatto che tale azione – dati i rapporti di forza e lo scontro in atto ai vertici del potere Usa – non è solo e soltanto il frutto della pura volontà di Trump, ma è anche il risultato delle pressioni e dei condizionamenti che egli ha dovuto subire dal Pentagono o dal Deep State. È, insomma, una sorta di compromesso implicito o di una mediazione di fatto tra Pentagono e presidente. Questo potrebbe spiegare gli zig-zag, le tortuosità, le incoerenze e le irrazionalità della politica Usa negli ultimi due anni. Trump non gode di un potere assoluto e indiscriminato e la politica Usa – al di là dei presidenti – dovrà sempre fare i conti con il complesso militar-industriale che ha caratterizzato l’ascesa a prima potenza mondiale degli Usa almeno dagli anni 1940 in poi: la seconda guerra mondiale è stata la grande levatrice dell’assurgere degli Usa a prima potenza mondiale e ha tenuto a battesimo il complesso militar-industriale.
Trump come alternativa alla guerra mondiale imperialista dei democratici Usa?
Alcuni analisti ritengono che l’essenza dello scontro ai vertici del potere Usa sia dovuto alla contrapposizione di opzioni strategiche sui destini del mondo. Da una parte ci sarebbero i fautori del ricorso alla guerra – fintantoché gli Usa possono godere della superiorità militare – per distruggere gli stati che rappresentano l’ostacolo all’affermazione della superiorità indiscussa degli Usa nel mondo, e quindi, abbattere la Russia e la Cina. Si può in proposito ricordare l’ultimo capitolo del celebre libro di Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, che delinea l’ipotesi di una guerra mondiale nel 2010 tra Usa e Cina[25]. Questa opzione di guerra totale è presente tra gli scenari possibili degli strateghi politici e militari di Washington e sarebbe, come ognuno può ben immaginare, la catastrofe dell’umanità. Questa opzione si basa sul rifiuto di accettare un mondo che a quasi 30 anni dal 1989-91 è profondamente diverso da quello dell’unipolarismo americano che i vincitori della guerra fredda avevano delineato e messo nero su bianco nei documenti strategici dal 1991 in poi. Il ricorso alla guerra mondiale dovrebbe riaffermare il primato mondiale americano con la distruzione dei suoi nemici. Trump e i suoi consiglieri, invece, sarebbero in proposito più realisti, riconoscerebbero il mutamento intervenuto nei rapporti mondiali, la fine dell’unipolarismo e punterebbero, in un mondo multipolare, a mantenere il primato rafforzando la base economica degli Usa, frenando il trend del continuo aumento del deficit commerciale, senza ridurre, anzi aumentando la spesa militare[26], mantenendo l’enorme apparato militare in funzione non solo di deterrenza, ma di dimostrazione muscolare di forza. La strategia di Trump sarebbe in questo caso più equilibrata e razionale rispetto a quella dei fanatici del nuovo secolo americano. Secondo Jean-Claude Paye
la battaglia tra Democratici e la maggioranza Repubblicana può essere letta come conflitto tra due tendenze del capitalismo statunitense, quella portatrice dei valori della mondializzazione del capitale e quella che sprona per rilanciare lo sviluppo industriale di un Paese economicamente in declino. Gli Stati Uniti erano la forza motrice dell’internazionalizzazione del capitale e ne traevano il massimo beneficio politico. Grazie al crollo dell’URSS e al sottosviluppo della Cina, per vent’anni gli Stati Uniti sono stati l’unica superpotenza, un super-imperialismo che organizzava il mondo a proprio profitto. L’emergere della Cina e la ricostruzione politica della Russia hanno frantumato l’onnipotenza economica e politica americana. La presa d’atto di questa nuova situazione ha indotto un contrasto interno sulla strada da imboccare: fuga in avanti nella liberalizzazione degli scambi e conflittualità militare sempre più palese (opzione che il Partito Democratico sembra preferire) o rinnovamento economico su base protezionistica, come auspicato da una parte dei Repubblicani.
Paye ritiene che la questione militare si ponga per Trump come momento tattico della strategia di sviluppo economico.
Questa tattica consiste nell’incrementare conflitti locali, destinati a frenare lo sviluppo di nazioni concorrenti e a sabotare progetti globali che si contrappongono alla struttura imperiale degli Stati Uniti, come, per esempio, la Nuova Via della Seta […] I livelli economico e militare sono strettamente collegati, ma, contrariamente alla posizione dei Democratici, permangono distinti. La finalità economica non viene confusa con i mezzi militari messi in atto. La riorganizzazione dell’economia nazionale è condizione che permette di evitare o, perlomeno, di posporre un conflitto globale. La possibilità di una guerra totale diviene mezzo di pressione per imporre nuove condizioni nei termini di scambio con i partner economici. L’alternativa offerta ai concorrenti è la scelta tra il consentire agli Stati Uniti la ricostituzione delle proprie capacità offensive, a livello di forze produttive, oppure l’essere rapidamente coinvolti in una guerra totale[27].
Anche Dmitrij Suslov, che sottolinea vieppiù gli aspetti della crisi americana di cui l’elezione di Donald Trump sarebbe il risultato e non l’inizio, legge la zigzagante politica estera del neopresidente Usa come un complicato e contraddittorio processo di adattamento alla nuova situazione mondiale sviluppatasi, in una direzione “chiaramente sfavorevole per gli Stati Uniti e non in linea con i loro atteggiamenti ideologici. […] I principali beneficiari della globalizzazione e delle attuali regole del commercio internazionale sono la Cina e altri importanti centri di potere non occidentali. Il monopolio ideologico degli Stati Uniti è crollato. Gli Stati Uniti si sono dimostrati incapaci non solo di trasformare il mondo intero secondo i propri interessi e valori e di rendere universale l’ordine internazionale basato su di essi, ma anche di promuovere la propria agenda e mantenere le posizioni già prese. […] Con Obama (e di fatto anche nel secondo mandato presidenziale di J. Bush) l’America ha iniziato un difficile e doloroso adattamento a questo mondo”. Di qui deriva il tentativo di ridurre il coinvolgimento americano nelle aree che non sono considerate tra le più importanti, “di non essere trascinati in nuove guerre, di abbandonare la politica di occupazione a lungo termine e di costruzione degli Stati, e di concentrarsi sulla regione Asia-Pacifico quale principale centro di gravità dell’economia e della politica mondiali”. È interessante nell’analisi dello studioso russo il legame dialettico che egli istituisce tra situazione internazionale e situazione interna:
I fattori fondamentali della politica estera degli Stati Uniti si suddividono in esterni (di sistema) e interni. I primi includono l’allineamento di forze nel mondo e lo scenario generale geopolitico globale, economico e ideologico, le relazioni degli Stati Uniti con altri centri chiave del potere, l’accettazione o il rifiuto da parte di essi della leadership americana, la capacità o l’incapacità degli Stati Uniti di esercitare questa leadership, lo stato del sistema americano di alleanze militari e dell’ordine economico liberista basato su di esse. I secondi includono la presenza o meno del consenso interno sulla politica estera, l’agenda di politica estera dei partiti democratico e repubblicano e dei gruppi di interesse, lo stato dell’economia nonché le preferenze di politica estera della popolazione e la misura in cui le élite di entrambe le parti le riflettono. […] Recentemente, tutti i fattori esterni ed interni della politica estera degli Stati Uniti sono entrati in azione, rendendo impossibile condurre con successo e in modo sostenibile la politica estera tradizionale basata sul primato e sulla leadership.
La vittoria di Donald Trump secondo Suslov, è stata il risultato di questi problemi, e non il loro inizio. Ha mostrato la presenza negli Stati Uniti di un sempre maggiore divario negli ultimi decenni tra l’élite politica e imprenditoriale che ha ottenuto enormi benefici grazie alla globalizzazione e la gran parte della popolazione, i cui redditi sono in costante calo e sente minacciata la propria sicurezza e identità. E non crede più che l’espansione e l’impegno globale degli Stati Uniti portino benefici sia ad essi che al resto del mondo.
Per la prima volta dal 1945, Donald Trump ha scollegato e persino giustapposto leadership globale (coinvolgimento) e grandezza (prosperità economica, rispetto politico e superiorità militare), concetti che sono stati considerati inseparabili negli ultimi 70 anni. Egli ha dichiarato apertamente che gli impegni globali degli Stati Uniti e i suoi interessi nazionali non sono sempre gli stessi e che questi ultimi dovrebbero essere considerati prioritari, anche se ciò significa danneggiare il cosiddetto “bene globale” [28].
Da questi approcci analitici si potrebbe dedurre che la politica di Trump è il meno peggio: tra il rischio di guerra assoluta che i democratici scatenerebbero pur di mantenere il primato, da un lato, e, dall’altro una politica che, potenziando il già mastodontico arsenale militare si proporrebbe però di impiegarlo solo a scopo dimostrativo e di deterrenza per ottenere vantaggi economici e politici, la politica di Trump sembrerebbe il male minore.
Tuttavia, non va mai dimenticato che lo scontro in atto è tra frazioni del capitalismo imperialistico Usa e che occorre in primis guardare alla struttura economico-sociale, al carattere specifico dell’imperialismo americano così come si è costruito e sviluppato negli ultimi 80 anni, dalla seconda guerra mondiale in poi, col ruolo ineliminabile del complesso militar-industriale. Trump non è l’espressione di un mutamento della struttura economico-sociale dell’imperialismo americano. L’imperialismo Usa si è costruito sulla potenza militare e sul complesso militar-industriale. Ciò lo distingue da altre attuali potenze imperialiste basate sul capitale finanziario e sull’espansione economica attraverso esso, quali Germania o Giappone. La politica di Trump, indipendentemente dalle sue dichiarazioni, non potrà fare a meno del supporto del complesso militare-industriale e delle strategie del Pentagono. Ciò diviene sempre più chiaro a proposito della NATO. Ad onta di alcune sue dichiarazioni[29] in campagna elettorale e dopo, l’attuale amministrazione Usa non scioglierà la NATO, ma chiede un maggiore impegno di spesa militare agli alleati subalterni, il che significa tra l’altro commesse e affari per il complesso militare industriale Usa.
Trump e la rottura degli organismi multilaterali
Se c’è una direttrice chiara e mai smentita della politica estera di Trump è la tendenza ad opporsi agli organismi e accordi multilaterali e a smantellarli. Dalla plateale delegittimazione e ridicolizzazione del G7 di giugno 2018 in Canada[30] al ritiro (settembre 2017) dall’accordo di Parigi sul clima, dall’annullamento nel gennaio 2017 del trattato transpacifico (TPP), al congelamento delle trattative sul trattato transatlantico (TTIP), allo scavalcamento del North American Free Trade Agreement (NAFTA). La linea dell’amministrazione è chiarissima: niente accordi in e con organismi multilaterali (e quindi anche con la Ue, platealmente disconosciuta come soggetto), e accordi con i singoli paesi, come è accaduto con il Messico[31], importantissimo partner economico degli Usa. L’America first si traduce in un primato degli Usa: trattare con singoli paesi piuttosto che con organismi multilaterali o cooperazione di Stati fa pesare tutta la forza economica, politica e militare del maggior contraente. In Europa Trump gioisce del Brexit e promette alla May buoni contratti quanto più sarà dura nelle trattative di uscita dalla Ue; e propone a Macron di lasciare la Ue per avere un rapporto privilegiato con gli Usa.
Assistiamo qui a un apparente paradosso della politica trumpiana: da un lato, alcuni autorevoli analisti politici gli attribuiscono il riconoscimento di un mondo multipolare, il che rovescia la strategia Usa dal post guerra fredda ad oggi; ma, dall’altro, Trump si muove per eliminare forme e organismi di collaborazione anche parziale tra paesi (e tra questi la Ue). Anche l’Onu e le sue articolazioni non godono del favore di Trump, in continuità in ciò con le politiche dei repubblicani che tagliano fondi all’Unesco e altri organismi ONU.
La linea Trump, opponendosi ad organismi e accordi multilaterali, non delinea un mondo multipolare di convivenza e sviluppo pacifico reciprocamente vantaggioso. In ciò essa è radicalmente opposta a quella della Repubblica Popolare Cinese e del presidente Xi Jinping, che mirano a sviluppare incontri e accordi multilaterali, ad aprire la strada ad un nuovo modo di concepire e intrattenere le relazioni internazionali. Nella visione internazionale di Trump vi è l’obbligato riconoscimento dell’esistenza di un soggetto economico ormai forte e in ascesa, quale la Cina, e di un soggetto in grado di contrastare gli Usa sul piano militare nucleare, quale la Russia, con i quali si vede costretto a trattare, ma a trattare possibilmente da posizioni di relativa forza. Di qui il mantenimento e l’inasprimento delle sanzioni contro la Russia – nonostante il dialogo con Putin a Helsinki (16 luglio 2018) – e la guerra dei dazi contro la Cina, che, dopo i primi colpi di assaggio, è passata ai grandi numeri.
Come osserva dal sito del Club Valdai Andrei Tsygankov, professore presso i dipartimenti di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali della San Francisco State University, Trump è
un convinto sostenitore dell’egemonia globale degli Stati Uniti. La sua critica ai liberali del libero scambio e ai democratici dimostra che non è un isolazionista, ma un nazionalista da superpotenza. Il ‘rispetto’ di Trump per Putin (e viceversa) è dovuto alla parentela ideologica, non ad interessi. Entrambi i leader sanno che trovare un linguaggio comune non significa consenso. Nazionalismo significa dura rivalità per la promozione dei propri interessi. Questa è la ‘normalizzazione’ di cui parla Trump, collegandola alla conquista di nuovi mercati e all’indebolimento spudorato dei rivali. Per questo, egli usa una vasta gamma di strumenti, tra cui pressioni politiche, minacce di invasione militare, sanzioni varie, limitazioni commerciali. In un mondo in cui il dollaro statunitense e le società americane sono ancora dominanti, queste misure economico-finanziarie sono destinate a ripristinare la vacillante egemonia degli Stati Uniti. Il Presidente degli Stati Uniti non è contrario alle sanzioni anti-russe, anche se alcuni sperano che possa superare la crisi delle relazioni bilaterali. Ideologicamente e psicologicamente, è pronto a imporre attivamente limitazioni economiche non solo contro la Cina, la Corea del Nord, l’Iran e la Turchia, ma anche contro i suoi ‘alleati’ europei, che non condividono la sua ideologia. Trump potrebbe ‘concordare’ con Putin solo alle sue condizioni, così nel suo gioco la Russia dovrebbe fare la parte di un paese che aiuta gli Stati Uniti a calpestare i suoi rivali e accetta totalmente l’egemonia globale degli Stati Uniti[32].
Nello schema di Trump i rapporti mondiali si potrebbero configurare in un condominio forzoso a tre, con Cina e Russia. Tale impostazione ci viene indirettamente rivelata dal professor Michael T. Klare, dichiaratamente antitrumpiano, corrispondente dello storico quotidiano “The Nation”, membro della direzione della “Arms Control Association”, frequentemente ospitato da “Le monde diplomatique”. Egli avanza la singolare tesi secondo cui il tycoon americano starebbe attuando il progetto politico di Russia e Cina tendente “a stabilire un ordine mondiale tripolare, concepito dai leader russi e cinesi nel 1997 e perseguito inesorabilmente da allora. Un tale ordine tripolare […] rompe radicalmente con il paradigma della fine della guerra fredda. Durante quegli anni inebrianti, gli Stati Uniti furono la potenza mondiale dominante e dominarono su gran parte del resto del pianeta con l’aiuto dei loro fedeli alleati della NATO. Per i leader russi e cinesi, tale sistema ‘unipolare’ era considerato un anatema […] Come suggeriscono i suoi recenti attacchi alla NATO e il suo abbraccio al presidente russo, Trump sta visibilmente cercando di creare il mondo tripolare che Boris El’cin e Jiang Zemin avevano immaginato una volta e che Vladimir Putin aveva promosso con zelo fin dall’inizio del suo mandato”[33].
Sembra che la bussola dei democratici e dei “pacifisti” americani continui ad essere la demonizzazione di Russia e Cina, cui si attribuiscono oscuri disegni egemonici e qualificante come sistemi illiberali e dittatoriali: per attaccare Trump, si afferma la sua vicinanza al progetto strategico di questi due Stati, deformando senza alcun ritegno la concezione di mondo multipolare elaborata da cinesi e russi contro l’unipolarismo Usa. In tutti i documenti ufficiali, in tutte le dichiarazioni congiunte, dal 1997 ad oggi, il mondo multipolare di cui parlano i leader russi e cinesi non è affatto tripolare, circoscritto ai tre poli di Usa, Russia e Cina, come pretende il professor Klare, ma si concepisce una varietà e diversificazione di rapporti tra i paesi, rigettando ogni politica di egemonismo e di grande potenza. Ecco cosa dice la Dichiarazione congiunta del 1997:
Un numero crescente di paesi comincia a riconoscere la necessità di rispetto reciproco, uguaglianza e vantaggio reciproco – ma non per l’egemonia e la politica di potere – e per il dialogo e la cooperazione – ma non per lo scontro e il conflitto. […] Le Parti sono favorevoli a fare del rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, della non aggressione reciproca, della non ingerenza negli affari interni dell’altra parte, dell’uguaglianza e del vantaggio reciproco, della coesistenza pacifica e di altri principi di diritto internazionale universalmente riconosciuti, la norma fondamentale per la conduzione dei rapporti tra gli Stati e la base di un nuovo ordine internazionale. Ogni Paese ha il diritto di scegliere autonomamente il proprio percorso di sviluppo alla luce delle proprie condizioni specifiche e senza interferenze da parte di altri Stati. Le differenze nei loro sistemi sociali, ideologie e sistemi di valori non devono diventare un ostacolo allo sviluppo delle normali relazioni tra gli Stati. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri, sono membri uguali della comunità internazionale. Nessun paese deve cercare l’egemonia, impegnarsi in politiche di potere o monopolizzare gli affari internazionali[34].
E quella del 2005:
I problemi dell’umanità possono essere risolti solo sulla base di principi e norme di diritto internazionale universalmente riconosciuti e in un ordine mondiale equo e razionale. I Paesi del mondo dovrebbero osservare rigorosamente i principi del rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, della non aggressione reciproca, della non ingerenza negli affari interni dell’altro, dell’uguaglianza, del beneficio reciproco e della coesistenza pacifica. Deve essere pienamente garantito il diritto dei paesi a scegliere le proprie vie di sviluppo alla luce delle proprie condizioni, a partecipare equamente agli affari internazionali e a cercare lo sviluppo su un piano di parità. Le differenze e le controversie devono essere risolte pacificamente senza l’adozione di un’azione unilaterale e di una politica coercitiva e senza ricorrere alla minaccia della forza o all’uso della forza. I popoli di tutti i paesi dovrebbero avere la possibilità di decidere gli affari del proprio paese e le questioni mondiali dovrebbero essere decise attraverso il dialogo e la consultazione su base multilaterale e collettiva. La comunità internazionale dovrebbe rinunciare completamente alla mentalità del confronto e dello scontro, non dovrebbe perseguire il diritto di monopolizzare o dominare gli affari mondiali, e non dovrebbe dividere i paesi in un campo principale e in un campo subordinato[35].
Siamo, come si vede, ben lontani dal tripolarismo che Klare imputa ai dirigenti russi e cinesi. Se però sgomberiamo il campo da questa grossolana e strumentale deformazione, l’articolo di Klare, uscito anche in “Huffington Post” del 25 luglio 2018 con un titolo più conforme – Trump’s Grand Strategy To Create A Tripolar World – individua nel tripolarismo un asse portante della politica internazionale di Trump e risolve l’apparente paradosso di un Trump che da un lato sarebbe impegnato a superare l’unipolarismo Usa e dall’altro attacca tutti gli organismi, i luoghi e i trattati di cooperazione internazionale.
La politica di Trump non è volta a realizzare un mondo multipolare, con la conseguente rinuncia al primato americano, ma è il riconoscimento obtorto collo della presenza ineliminabile di Cina e Russia sul piano economico e politico-militare, con cui fare i conti possibilmente da una posizione di forza. Per questo Trump aumenta la spesa militare.
Trump e la messa in riga dell’Occidente capitalistico
Letta in questa luce, diviene chiara la politica di Trump verso ciò che si chiama politicamente ed economicamente “Occidente”, rappresentato nel G7: oltre gli Usa, i paesi europei capitalisticamente più forti, Giappone, Canada. Trump si propone di intessere relazioni esclusivamente bilaterali, nelle quali punta ad imporre la forza politica, economica e militare dell’imperialismo Usa.
Il soggetto da mettere in riga con maggior decisione, quello cui Trump si è rivolto persino con la parola di “nemico”[36] è l’Unione europea.
Gli Usa battezzano la nascita della CEE (1957) e la sua evoluzione, con il trattato neoliberista di Maastricht (1992), in Ue. La Ue è un soggetto erede sì della CEE, ma relativamente diverso, perché nato in un contesto mondiale radicalmente mutato rispetto a quello in cui erano sorte le prime comunità europee: la fine dell’URSS, la vittoria Usa nella guerra fredda, l’unificazione tedesca (o meglio, l’Anschluss[37] della Repubblica Democratica Tedesca da parte della RFT). La UE di Maastricht servì ad inglobare nel sistema capitalistico occidentale i paesi ex socialisti dell’Europa centro-orientale e balcanica (con le buone o con le cattive: guerra della NATO contro la Jugoslavia,1999): era il polo di attrazione economico e politico per i paesi ex socialisti messisi in fila per essere ammessi nel club “privilegiato” della Ue, per entrare nel quale dovevano però passare prima attraverso la NATO. Questa Ue, dove la Germania era divenuta il paese economicamente e politicamente più importante e più popoloso, è stata utile alla politica Usa per stabilizzare e consolidare la vittoria nella guerra fredda ed evitare che l’Europa dell’Est si riavvicinasse a Mosca.
Ma la Ue si proponeva anche come un grande mercato solvibile di 500 milioni di abitanti, con l’ambizione di costruire un’area valutaria di tutto rispetto che avrebbe potuto far concorrenza al dominio incontrastato del dollaro, alimentando anche tentazioni e ambizioni di paesi grandi produttori di petrolio e gas – dall’Iraq di Saddam Hussein alla Libia di Gheddafi – di sostituire l’euro al dollaro nella denominazione del prezzo del petrolio. Gli Usa reagirono sempre violentemente a simili tentativi, ricorrendo all’arma più congeniale al loro imperialismo: la guerra (cfr. quanto scritto supra in proposito). La UE ha un notevole surplus commerciale con gli Usa, oltre metà del quale è della Germania[38] (ma anche l’Italia seconda potenza manifatturiera d’Europa vi contribuisce[39]). Ciò ben prima dell’era Trump, rappresenta uno dei maggiori motivi di contrasto con gli Usa.
La Ue nasce con ambizioni generali, la sua costituzione è accelerata dalla Tavola rotonda degli industriali europei che di fronte al mutato scenario mondiale (caduta dei paesi socialisti, prima guerra del Golfo 1991) si propongono di unirsi per avere voce in capitolo nella politica internazionale[40]. Il percorso della sua storia è accidentato e contraddittorio, si acuiscono le contraddizioni, da un lato tra i 28 stati aderenti, dall’altro tra popoli – che hanno visto peggiorare le proprie condizioni con la grande crisi iniziata nel 2007-2008 e le pesanti politiche di austerità – e classi dirigenti che hanno sostenuto tali politiche. La disastrosa gestione della crisi e dell’attacco speculativo al debito sovrano ha alimentato il risentimento popolare verso l’Unione europea, che si è tradotto in una crescente avanzata di movimenti e partiti sempre più radicalmente critici verso la Ue e decisi a lavorare per la sua fine. La vittoria dei sostenitori dell’uscita del Regno Unito dalla Ue (la “Brexit”) nel referendum del 23 giugno 2016 ha alimentato ulteriormente i movimenti euroscettici e avversi all’euro, cosiddetti “sovranisti” e “populisti”. La dissoluzione della Ue non è più una remota ipotesi di scuola, ma una possibilità concreta. Qualche leader, come il ministro degli interni italiano Salvini, evoca per il 2019, quando si svolgeranno le elezioni per il Parlamento europeo, lo spettro di un nuovo 1989, con la caduta – invece che del muro di Berlino – della UE[41].
Le precedenti amministrazioni Usa che hanno fustigato le ambizioni valutarie dell’euro (vincendo sinora la battaglia: l’euro è solo un 20% delle riserve valutarie delle banche centrali, mentre il dollaro è oltre il 60%) e si sono duramente contrapposte ai due paesi leader della UE, Francia e Germania, ai tempi della guerra contro l’Iraq del 2003, quando Bush lanciò l’appello per una “coalizione dei volenterosi” (cui aderì anche l’Italia del governo Berlusconi). Espressioni non proprio cordiali verso la Ue (“fuck the EU!”[42]) furono usate durante la “rivoluzione colorata” di Euromaidan da Victoria Nuland inviata da Washington, quando nella gestione della crisi ucraina si manifestarono divergenze tra europei e americani. Il 21 febbraio 2014 tra rappresentanti della Ue, l’opposizione ucraina e il governo Janukovič fu siglato un accordo che prevedeva un percorso senza rotture costituzionali plateali verso nuove elezioni entro il dicembre, accordo da cui gli Usa si tennero fuori, per sostenere il giorno dopo l’assalto violento alla Rada ucraina e l’istallazione di un governo parafascista di banderisti[43]. Nel 2013 – presidenza Obama – scoppia lo scandalo dei telefoni di Angela Merkel e del governo tedesco spiati dai servizi americani. E nello stesso anno un rapporto del Tesoro americano afferma che l’avanzo delle partite correnti della Germania intorno al 7% del PIL provoca “una distorsione deflazionistica per la zona euro e per l’economia mondiale”.
Ma la differenza fra l’atteggiamento delle amministrazioni Usa del passato rispetto alla Ue e quello di Trump è dato da un mutamento di prospettiva strategica. Pur in presenza di contraddizioni economiche e politiche, la politica Usa verso la Ue non era di guerra verso un nemico, ma di moral (e immoral) suasion, di pressioni, ma sempre all’interno di un rapporto che considerava la Ue un alleato e un pilastro stabile e utile nelle relazioni internazionali a guida Usa. Con la stragrande maggioranza dei suoi membri aderenti alla NATO – alleanza militare e politica sotto stretto controllo e comando americano – la sua esistenza non faceva ombra agli Usa. Oltretutto, con la presenza al suo interno di quinte colonne come il Regno Unito o i paesi baltici e la Polonia, l’Unione poteva ben essere eterodiretta. Gli Usa mantenevano attraverso di essa la leadership mondiale sui paesi capitalistici, potevano giocare la carta di un fronte unico dell’“Occidente” evitando di presentarsi come grande potenza autosufficiente nel suo splendido isolamento. Questa impostazione dei rapporti Usa-Ue è ben esemplificata dal viaggio di commiato di Obama, che, alla fine del suo secondo mandato, si reca in Europa per incontrare i principali leader europei[44].
Trump invece, sin dal suo esordio in campagna elettorale, si muove sulla linea non solo del “Fuck the EU!” della Nuland, ma dell’attacco frontale alla Ue. Una linea che sembra non avere tentennamenti o battute d’arresto. L’attacco è su tutti i fronti: ideologico, politico, commerciale e mira a delegittimare del tutto il già pallido ruolo della Ue nel mondo, a togliere ai paesi europei credibilità e supporti. Emblematico è il caso del ritiro (8 maggio 2018) dall’accordo sul nucleare iraniano, con dure sanzioni verso le imprese e i paesi che intrattengano rapporti commerciali con l’Iran. Scrive Andrea Bonanni: “In teoria, le sanzioni americane scattate ieri sono mirate contro l’Iran. In pratica, puntano a colpire e affondare ciò che resta di un mondo multipolare e, in particolare, a umiliare l’Europa. La sfida è globale. La sua portata va al di là del pur importante accordo per la denuclearizzazione di Teheran. In gioco c’è la sovranità del resto del mondo nel decidere la propria politica estera e le proprie strategie commerciali”[45].
Usa, UE e Italia nell’attuale situazione internazionale
La crisi della Ue è in fase avanzata. È crisi dell’euro, una moneta senza Stato in un’area valutaria non ottimale, con scompensi crescenti tra le diverse aree che hanno differenti livelli di sviluppo delle forze produttive. È crisi della struttura della BCE e dei suoi regolamenti vincolanti. Le regole stabilite a Maastricht e l’intera architettura dell’Unione europea determinano disuguaglianze e una gerarchizzazione crescente tra i paesi membri. L’architettura della Ue e dell’euro favorisce alcuni stati a detrimento di altri. Sicché, più che una casa comune dei popoli europei, la Ue è percepita da un numero crescente di persone come una gabbia. La crisi è, non meno che economica, morale, ideale, di egemonia.
La politica di Trump entra a gamba tesa in questa crisi per volgerla a suo vantaggio, per arrivare all’implosione della Ue. Sostiene apertamente le forze politiche e i leader che da posizioni di destra – la campagna anti immigrazione e la mobilitazione reazionaria delle masse – attaccano la Ue e ne propongono la rottura.
Le elezioni italiane del 4 marzo 2018 – con l’affermazione di due forze “populiste” ed “euroscettiche”, il M5S e la Lega di Matteo Salvini, che, dopo una lunga gestazione, danno vita al governo Conte (2 giugno) – rappresentano una svolta significativa non solo nel panorama politico italiano, ma in quello della Ue e nel quadro mondiale, anch’esso in rapido mutamento.
Nonostante negli ultimi 30 anni – e in particolare negli ultimi 10, a partire dalla grande crisi, l’Italia abbia perso ruolo e posizioni nell’economia mondiale (negli anni 80 è la quinta potenza del G7, con un PIL che supera quello inglese), essa rimane tuttavia un paese di importanza non trascurabile sia dal punto di vista economico (è il secondo paese manifatturiero della Ue, dopo la Germania), che da quello geopolitico (penisola che si allunga al centro del Mediterraneo, di fronte al Nord Africa) ed è uno dei paesi fondatori della CEE, e poi della Ue. Ciò che accade in Italia ha un riflesso non irrilevante nel mondo e non a caso in tutto il periodo della guerra fredda il bel Paese è stato oggetto di trame costellate di stragi per evitare l’ascesa di un governo di sinistra e mantenere il controllo Usa sulla penisola assicurandone la sua appartenenza al campo occidentale e alla NATO. L’Italia è presente in molte missioni militari nel mondo con circa 10.000 soldati.
Nell’attuale contesto culturale e politico una implosione della Ue non sarebbe opera di una rivoluzione democratica e popolare per la riconquista di una sovranità nazionale scippata dall’architettura sovranazionale della Ue, ma di forze di destra che crescono sulla base della mobilitazione reazionaria delle masse, come è evidente nell’esperienza italiana, in cui la Lega di Salvini, che ha ottenuto il 17% di consensi alle elezioni del 4 marzo, ha, secondo tutti i sondaggi, raddoppiato i suoi consensi grazie alla politica sull’immigrazione, e non sulla base di una politica economico-sociale avanzata, né su un’azione di difesa e attuazione della Costituzione antifascista. Quest’ultima, anzi, continua ad essere pesantemente attaccata: la Lega di Salvini, Fratelli d’Italia, Forza Italia sostengono l’iniziativa di passaggio ad una repubblica presidenziale[46]; il M5S, dal canto suo, in aperto contrasto con la proclamata centralità del parlamento, ritorna sulla proposta di taglio del numero dei parlamentari[47], che riduce la rappresentanza e la possibilità di lavoro effettivo del parlamento, il cui compito nella nostra Costituzione non si limita affatto al solo dire sì o no alle proposte di legge.
L’attuale contesto italiano ed europeo vede l’avanzare di forze reazionarie, del nazionalismo antidemocratico, dei disegni autoritari, sostenuti dalla politica Usa che punta alla rottura della Ue per trattare da migliori posizioni di forza con i singoli stati. Che si tratti, come scrive bene Manlio Dinucci, di un sovranismo senza sovranità[48] è chiaramente messo in luce dal fatto che mentre è ben presente nel discorso dei sovranisti lo smantellamento della Ue (che Salvini paragona al Muro di Berlino), è assolutamente latitante qualsiasi accenno alla Nato o alle basi Usa che occupano il territorio Italiano. Anzi, serpeggia in diversi settori del sovranismo italiano la convinzione o l’illusione che gli Usa di Trump possano venire in soccorso dell’Italia sia nel suo contenzioso con la Francia (per il controllo della Libia e delle sue grandi risorse petrolifere e idriche), che nello scontro con la Germania e la sua politica mercantilista. Anche in settori della “sinistra radicale” sembra avanzare l’idea che il nemico principale non siano gli Usa, ma la Germania, la Francia, la Ue. Per cui la lotta contro la NATO passa in secondo piano rispetto ad una rottura dei vincoli della Ue[49].
La riconquista di un’autentica sovranità nazionale non può essere oggi opera di forze reazionarie: avremmo una sovranità subalterna all’imperialismo Usa. La riconquista e l’esercizio di un’autentica sovranità popolare può essere opera solo di un ampio movimento democratico-popolare, che non combatta la “gabbia” della Ue per sottomettersi ancor più agli Usa.
Le forze di ispirazione socialista e comunista vivono oggi in Europa una situazione estremamente difficile, drammatica. Da un lato, non possono e non devono sostenere l’attuale assetto della Ue che avvantaggia il capitale finanziario tedesco; non possono e non devono sostenere questa Ue, con la sua architettura squilibrata e generatrice di disuguaglianze e ingiustizie sociali stabilita a Maastricht e confermata e ampliata nel Trattato di Lisbona e nella complessa struttura dei trattati e delle norme europee; non possono e non devono essere al carro della socialdemocrazia liberista e dei democristiani europei che, con le loro politiche di austerità e di mancato rispetto per i popoli, hanno aperto la strada all’ascesa delle forze di destra. Dall’altro lato, non possono e non devono in questo contesto mettersi a rimorchio del populismo e sovranismo filoUsa, né favorirlo in un’azione di rottura della Ue che avrebbe un inequivocabile marchio di destra e non porterebbe affatto alla realizzazione di un’autentica sovranità popolare, la quale richiede mobilitazione e partecipazione attiva e consapevole delle masse sulla base di un progetto condiviso di democrazia progressiva e avanzata.
Se nella crisi europea avanzano le forze di destra attraverso una mobilitazione reazionaria delle masse – elemento che Togliatti indicava come uno dei tratti specifici del fascismo – vi sono precise responsabilità delle forze di ispirazione socialista e comunista in Europa: dalla fondazione della Ue di Maastricht nel 1992 non siamo stati in grado di costruire sulla base dell’internazionalismo proletario un coordinamento internazionalista effettivo e attivo, con un programma comune su base continentale rivolto a combattere l’architettura della Ue generatrice di disuguaglianze e squilibri. In oltre 25 anni non si sono ingaggiate lotte internazionaliste su scala europea, e sono rari i casi in cui vi è stata qualche manifestazione comune. Questo grande deficit di internazionalismo ha favorito le derive nazionalistiche di destra.
Il movimento operaio e comunista nei suoi momenti più alti si è sviluppato su due gambe, quella nazionale e quella internazionalista, strettamente e intimamente connesse: se se ne taglia una avremo da un lato il “socialismo nazionale”, lontanissimo dall’ispirazione di Marx ed Engels, e che slitta facilmente a destra (il nazional-socialismo) e, dall’altro, la cancellazione dell’identità nazionale soffocata e rimossa in organismi sovranazionali, che è l’ideologia del cosiddetto “globalismo”.
L’internazionalismo proletario, la concezione e la pratica internazionalista, sono la marcia in più dei comunisti e del movimento operaio, che ne ha fatto la forza e la grandezza nei suoi momenti più alti.
La strada da imboccare – che è oggi un sentiero stretto e difficile – è quella della costruzione di un movimento organizzato a livello europeo, che ponga con chiarezza progetto e obiettivi di trasformazione della Ue attraverso la mobilitazione delle masse. Se questo non sarà, la fine della Ue avrà un segno reazionario, a tutto vantaggio dell’imperialismo Usa, e non avremo nessuna autentica sovranità popolare.
Bari, 20 settembre 2018
[1] Nel conteggio definitivo dei voti popolari, arrivato domenica 18 dicembre 2016, Hillary Clinton aveva 65.844.594 voti, ovvero il 48,2%, Trump 62.979.616 voti, il 46,1%. “Mai nessuno nella storia degli Stati Uniti aveva perso raccogliendo così tanti voti in più del vincitore, ma Trump ha comunque raggiunto la Casa Bianca grazie al collegio elettorale degli Stati Uniti, il meccanismo istituito dall’articolo 2 della costituzione americana che sancisce di fatto l’elezione indiretta del presidente”. Cfr. https://www.corriere.it/extra-per-voi/2016/12/15/trump-ha-preso-meno-voti-vinto-come-funzionano-grandi-elettori-perche-potrebbero-essere-aboliti-814232d4-c2ee-11e6-a6a9-813fa40c3688.shtml?refresh_ce-cp.
[3] L’ultimo è Fear, del giornalista Bob Woodward, ben noto per l’inchiesta condotta insieme con Carl Bernstein pubblicata sul “Washington Post” sullo scandalo Watergate, che portò alla richiesta di impeachment e alle dimissioni dell’allora Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon (1972). Fear dipinge la Casa Bianca come “una gabbia di matti”, “sempre sull’orlo di una crisi di nervi”, guidata da “uno squilibrato” e anche “un idiota”.
[4] Azioni formali per avviare il processo di impeachment sono state avviate dai deputati Al Green e Brad Sherman, entrambi democratici. Si è parlato di impeachment già prima dell’insediamento di Trump. Una risoluzione del dicembre 2017 è fallita in Aula.
[5] Quattro sono stati i presidenti uccisi: Abraham Lincoln il 15 aprile 1865, James Garfield il 2 luglio 1881, William McKinley il 6 settembre 1901 e John F. Kennedy a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963. Molti di più quelli scampati ad attentati: Andrew Jackson, 30 gennaio 1835; Theodore Roosevelt, il 14 ottobre 1912, Franklin Delano Roosevelt, nel febbraio del 1933, Harry Truman, primo novembre 1950, Richard Nixon il 14 aprile 1972 a Ottawa, in Canada e il 22 febbraio 1974, Gerald Ford il 5 settembre 1975 a Sacramento, in California e il 22 settembre 1975, a San Francisco, in California, Jimmy Carter il 5 maggio 1979, Ronald Reagan il 30 marzo 1981, George H.W. Bush 13 aprile 1993, Bill Clinton il 29 ottobre 1994, George W. Bush il 7 febbraio 2001 e il 10 maggio 2005 a Tbilisi, in Georgia.
[6] K. Marx, Lettera a Annenkov, in Miseria della Filosofia, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 158.
[7] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1970, pp. 17-28, nota [Evidenziazioni mie, A. C.].
[8] Ni Feng (倪峰), “Perdita di equilibrio e divisione: la politica americana sotto l’amministrazione Trump”, in 世界社会主义研究 (World Socialism Studies), N. 4, 2018, pp. 58-64.
[9] Carlos Barria, in “Reuters”, 27-7-2018, L’economia americana vola e Trump esulta: “In corsa per la crescita maggiore degli ultimi 13 anni”. Ma gli esperti avvertono: “I dati del secondo trimestre sono ‘drogati’. Le esportazioni sono aumentate per timore di dazi futuri”, in https://www.huffingtonpost.it/2018/07/27/leconomia-americana-vola-e-trump-esulta-in-corsa-per-la-crescita-maggiore-degli-ultimi-13-anni_a_23491120/.
[10] L’ultima riforma fiscale americana, promulgata il 22 dicembre 2017, si colloca nel solco delle precedenti: una redistribuzione della ricchezza a favore dei redditi più elevati. I contribuenti più ricchi, l’1% del totale, quelli che dichiarano un reddito superiore a 500.000 dollari, beneficeranno di una riduzione delle imposte di 60 miliardi di dollari l’anno, quanto il 54% degli statunitensi, quelli che guadagnano tra 20.000 e 100.000 dollari. Coloro che hanno un reddito tra 100.000 e 500.000 dollari beneficeranno di una riduzione di 136 miliardi. Questi contribuenti rappresentano il 22,5% della popolazione soggetta a tassazione, la stessa percentuale di quelli che guadagnano meno di 20.000 dollari e che si spartiranno solo 2,2 miliardi, ossia lo 0,15% delle entrate fiscali. Arnaud Leparmentier, Les gagnants et les perdants de la réforme fiscale de Donald Trump, « Le Monde », 20-12-2017.
[11] Cfr. United States Departement of Labor – Bureau of Labor Statistics, 7-9-2018, https://www.bls.gov/news.release/empsit.nr0.htm.
[12] Cfr. in proposito il libro di Nico Perrone, Progetto di un impero. 1823. L’annuncio dell’egemonia americana infiamma la borsa, Napoli, La Città del Sole, 2013.
[13] La narrazione del Manifest destiny racconta che gli Usa hanno la missione di espandersi, diffondendo la loro forma di libertà e democrazia, non solo perché ciò sarebbe bene, ma anche ovvio (“manifesto”) e inevitabile (“destino”).
[14] Il Progetto per il Nuovo Secolo Americano (PNAC), think tank neoconservatore fu fondato nel 1997 da William Kristol e Robert Kagan con l’obiettivo dichiarato di “promuovere la leadership globale americana”, definita “buona sia per l’America che per il mondo”. Tra i suoi sostenitori vi era anche il “falco” John R. Bolton, nominato da Trump dal 9 aprile 2018 consigliere per la Sicurezza nazionale Usa.
[15] Cfr. Dmitrij Suslov, Kuda idet vnešnaja politika SŠA: dolgosročnye faktory i perspektivy [Dove va la politica estera degli Usa: fattori di lungo periodo e prospettive], http://ru.valdaiclub.com/a/highlights/kuda-idyet-vneshnyaya-politika-ssha/
[16] Cfr. “The New York Times”, 8-3-1992, Excerpts From Pentagon’s Plan: “Prevent the Re-Emergence of a New Rival”, https://www.nytimes.com/1992/03/08/world/excerpts-from-pentagon-s-plan-prevent-the-re-emergence-of-a-new-rival.html. Cfr. anche: Philip S. Golub, Rêves d’Empire de l’administration américaine, in « Le monde diplomatique », luglio 2001, pp. 4-5.
[17] Cfr. Jesse Helms, Entering the Pacific Century, Heritage Foundation, Washington, DC, 1996.
[18] Cfr. Charles Krauthammer, The Unipolar Moment, “Foreign Affairs”, vol. 70, n. 1, New York, 1990-1991.
[19] Mortimer Zuckerman, The Second American Century, “Time Magazine”, New York, 27-12-1999, in Philip S. Golub, op. cit.
[20] Cfr. Stephen Lendman, Dirty Open Secret: US Created and Supports ISIS, “Global Research”, 13-6-2017, https://www.globalresearch.ca/dirty-open-secret-us-created-and-supports-isis/5594486. Cfr. anche La grande bugia: i 26 punti che svelano l’alleanza tra Usa e Isis, in https://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=9497
[21] Dati riferiti al 2017. Fonte: World Currency Composition of Official Foreign Exchange Reserves International Monetary Fund.
[22] “La stampa dice che l’esercito Usa non ha trovato armi di distruzione di massa in Irak […] Menzogne! Maledette menzogne! Non ha forse trovato forzieri pieni di euro? E il nostro esercito non ha forse rovesciato un regime che minacciava di usare l’euro? Quale arma potrebbe arrecare maggiori distruzioni dell’euro? L’Irak ha esibito sfrontatamente il proprio comportamento oltraggioso nei confronti del dollaro insistendo per avere pagata in euro la propria produzione petrolifera. Quello stato canaglia ha quindi accumulato queste armi monetarie di distruzione di massa. Per fortuna, siamo intervenuti appena in tempo per porre fine a questa pericolosa proliferazione […] In mano alle persone sbagliate, l’euro potrebbe minacciare l’importanza del dollaro e far saltare in aria le fondamenta finanziarie della nostra nazione. L’egemonia dell’euro provocherebbe distruzioni finanziarie di massa negli Stati Uniti”, in The Daily Reckoning (newsletter finanziaria Usa), 21 aprile 2003, citata da V. Giacché in Guerra tra capitali, dollaro contro euro: ultime notizie dal fronte, in “La Contraddizione”, Roma, maggio-giugno 2003.
[23] Cfr. tra gli altri: Domenico Moro, Lo scontro euro-dollaro dietro la crisi del debito sovrano UE, in www.resistenze.org – osservatorio – economia – 30-04-2010 – n. 317; Raffaele Sciortino, Trade War: requiem per l’ordine neoliberale? (intervista di Giuseppe Molinari) http://www.commonware.org/index.php/cartografia/835-trade-war-requiem-per-l-ordine-neoliberale, 5-4-2018.
[24] The next war. The growing danger of great-power conflict, https://www.economist.com/leaders/2018/01/25/the-growing-danger-of-great-power-conflict.
[25] Samuel P Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000, cap. XII, § Guerre di civiltà e ordine delle civiltà, pp. 466-471. Ed. originale, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, 1966, Chapter 12, The West, Civilizations, and Civilization, § Civilizational War and Order, pp. 312-318.
[26] Il 14 agosto 2018 Trump ha firmato il testo della legge che approva un budget di 716 miliardi di dollari. Il provvedimento metterà in servizio attivo migliaia di nuovi militari, riserve e unità della guardia nazionale. https://www.repubblica.it/esteri/2018/08/14/news/stati_uniti_aumenta_budget_per_la_difesa-204080685/
[27] Jean-Claude Paye, USA: Imperialismo contro ultra-imperialismo, http://www.voltairenet.org/article199884.html.
[28] Jean-Claude Paye, Guerra economica o “guerra assoluta”?, http://www.voltairenet.org/article201431.html.
[29] Cfr. l’intervista al “The New York Times” Donald Trump Says NATO is “Obsolete”, 2-4-2016 (https://www.nytimes.com/politics/first-draft/2016/04/02/donald-trump-tells-crowd-hed-be-fine-if-nato-broke-up/), seguita da numerose altre dichiarazioni analoghe, alternate però da richieste di aumento della spesa militare dei paesi aderenti alla NATO al 2% del PIL immediatamente, e non entro il 2024, come da accordi precedenti, e in prospettiva al 4% (nell’ultimo vertice NATO dell’11-12 luglio 2018). Potenziare e non indebolire la NATO sotto controllo Usa è il vero obiettivo della politica di Trump che usa la “minaccia” di scioglierla solo a questo scopo.
[30] Charlevoix (Canada) – Colpo di scena a G7 ormai concluso: Donald Trump, in una rabbiosa risposta al premier canadese Justin Trudeau che durante la sua conferenza stampa conclusiva del summit aveva criticato i dazi unilaterali americani, ha ritirato nella notte con una decisione-shock la firma degli Stati Uniti dal comunicato congiunto che solo poche ore prima era stato a fatica composto dai sette grandi. Una scelta che ha fatto saltare anche solo un compromesso di facciata sul delicato e cruciale capitolo del commercio: https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-06-10/g7-colpo-scena-finale-trump-non-firma-minaccia-dazi-e-attacca-trudeau-e-disonesto-074933.shtml?uuid=AEzFUk3E&refresh_ce=1
[31] Cfr. Marco Valsania, Trump annuncia l’accordo Usa-Messico: «Il Nafta va in pensione», “Il Sole24ore”, 27-8-2018: “Il nome Nafta, ha detto Trump, “ha molte cattive connotazioni per tante persone” e quindi sarà sostituito da “Accordo commerciale Stati Uniti-Messico”. Trump ha denunciato il Nafta, in vigore da 24 anni, come un ‘disastro’ per gli Stati Uniti e i lavoratori americani, accusando Messico e Canada di averne tratto troppo vantaggio. In mancanza di una nuova intesa ha minacciato di uscirne. https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-08-27/usa-e-messico-lavoro-revisione-nafta-accordo-sempre-piu-vicino-075921.shtml?uuid=AEQk3ifF https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-08-27/usa-e-messico-lavoro-revisione-nafta-accordo-sempre-piu-vicino-075921.shtml?uuid=AEQk3ifF.
[32] Andrei Tsygankov, Sanctions Serve to Maintain US Global Hegemony, 16-8-2018, http://valdaiclub.com/a/highlights/sanctions-serve-to-maintain-the-us-global-hegemony/. Sulla stessa lunghezza d’onda si trova anche Aleksej Plotnikov, della Scuola Superiore di Economia di Mosca, che in un’intervista pubblicata sul sito del Partito comunista della Federazione russa (PCFR) afferma seccamente che “non c’è da aspettarsi il miglioramento o persino la stabilizzazione delle relazioni russo-americane con Trump. Non ci sono i prerequisiti oggettivi e soggettivi per questo”: “Ožidanija ne opravdalis’”. Mnenie eksperta sammite v Chel’sinki, https://kprf.ru/international/capitalist/178318.html, 24-8-2018, trad. it. “Le aspettative russe su Trump si sono dimostrate infondate”, traduzione dal russo di Mauro Gemma, in http://www.marx21.it/index.php/internazionale/pace-e-guerra/29279-qle-aspettative-russe-su-trump-si-sono-dimostrate-infondate.
[33] Michael T. Klare It’s a Mistake to Assume Trump Doesn’t Have a Foreign-Policy Strategy, 24-7-2018, https://www.thenation.com/article/mistake-assume-trump-doesnt-foreign-policy-strategy/.
[34] Russian-Chinese Joint Declaration on a Multipolar World and the Establishment of a New International Order, adopted in Moscow on 23 April 1997, pubblicata nei documenti dell’ONU, A/52/153 – S/1997/384, in http://www.un.org/documents/ga/docs/52/plenary/a52-153.htm.
[35] Cfr. Il punto 2 di China-Russia Joint Statement on 21st Century World Order, firmata da Hu Jintao e Vladimir Putin il 1-7-2005 a Mosca, http://shodhganga.inflibnet.ac.in/bitstream/10603/118079/21/21_annexure%205.pdf. Sulla stessa linea il Joint Statement of The People’s Republic of China and the Russian Federation On Major International Issues, Beijing, 23 May 2008, che richiama esplicitamente le due precedent dichiarazioni, in https://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/wjdt_665385/2649_665393/t465821.shtml
[36] Trump calls European Union a ‘foe’ of the US In un’intervista alla CBS News del 15 luglio 2018, https://edition.cnn.com/2018/07/15/politics/donald-trump-european-union-foe/
[37] Cfr. il documentato libro di V. Giacché, Imprimatur, Reggio Emilia. 2013.
[38] Nel 2016, la UE ha chiuso con un avanzo commerciale verso gli Usa di quasi 140 miliardi di dollari. Rispetto al 2009, il disavanzo commerciale americano verso la Ue risulta praticamente raddoppiato.
[39] Gli Stati Uniti rappresentano il terzo mercato per le esportazioni italiane. Il valore dell’export di beni e servizi italiani negli Usa nel 2017 ha toccato i 49 miliardi di euro, di cui 40 in beni. La bilancia commerciale è nettamente a favore dell’Italia: gli Usa hanno importato per solo 15 mrd di euro. Dati dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Lucia Tajoli, I rapporti commerciali tra Italia e Usa al tempo dei dazi, 27-7-2017, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/i-rapporti-commerciali-tra-italia-e-usa-al-tempo-dei-dazi-21060.
[40] Cfr. Henri Houben, in L’Europe de tous les dangers, Études Marxistes, gennaio-marzo 2002, n.57, pp. 28-41.
[41] “Far cadere il muro di Berlino un tempo sarebbe stato impensabile. Il prossimo muro che faremo cadere è quello di Bruxelles. Non dico a colpi di ruspa se no dicono che sono cattivo…”. Serve una “Lega delle Leghe” che metta insieme “tutti i movimenti liberi e sovrani che vogliono difendere la propria gente e i propri confini”. Salvini rinnova il giuramento di Pontida, ma lo traduce in chiave continentale. Se prima c’era da difendere il Nord, e poi l’Italia tutta, ora la battaglia si sposta in Europa. “Non è la Lega che è cambiata, è il mondo che cambiato. Abbiamo capito che da soli non andavamo da nessuna parte. Per vincere occorreva unire l’Italia, come occorrerà unire l’Europa […] “zero virgola di Bruxelles per me valgono zero”, http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/salvini-dopo-muro-berlino-faremo-cadere-quello-di-bruxelles-aecfaf29-a8d7-4018-ba54-f22f9dacf066.html
[42] Cfr. “The Guardian”, 6 Feb 2014: «Victoria Nuland reportedly said ‘Fuck the EU’ speaking of Ukraine crisis […] The frustration of the Obama administration at Europe’s hesitant policy over the pro-democracy protests in Ukraine has been laid bare in a leaked phone conversation between two senior US officials, one of whom declares: “Fuck the EU”», in https://www.theguardian.com/world/2014/feb/06/us-ukraine-russia-eu-victoria-nuland.
[43] Janukovyč e i principali membri dell’opposizione – Vitalij Kličko, leader di UDAR, Oleh Tyahnibok, leader di Svoboda, Arsenij Jacenjuk di Bat’kivščyna – alla presenza in qualità di testimoni e organizzatori dei ministri degli esteri di Germania (Frank-Walter Steinmeier), Francia (Laurent Fabius), Polonia (Radoslaw Sikorski) per l’Unione europea e di Vladimir Lukin, inviato speciale della Federazione Russa, firmano un accordo per tornare alla Costituzione del 2004, ridurre i poteri del presidente, formare un governo di unità nazionale e organizzare delle elezioni presidenziali entro dicembre. Cfr. “MarxVentuno”, n. 1-2/2014, p. 68.
[44] “Barack Obama saluta l’Europa. È a Berlino la tappa conclusiva del viaggio nel Vecchio Continente del presidente uscente degli Stati Uniti che ha provato a tranquillizzare gli alleati. Nella cancelleria tedesca si è svolto l’incontro a sei, con Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, la premier britannica Theresa May, il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi e il premier spagnolo Mariano Rajoy. In agenda, come è facile immaginare, il futuro delle relazioni transatlantiche dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca”, https://it.euronews.com/2016/11/18/germania-il-commiato-di-barack-obama-dall-europa.
[45] A. Bonanni, Sanzioni all’Iran, così Trump umilia la Ue, “La Repubblica”, 7 agosto 2018.
[46] La proposta di legge di iniziativa popolare, presentata in Cassazione prima dell’estate, dall’Associazione Nuova Repubblica, con a capo il prof. Guzzetta, intende trasformare l’Italia in una Repubblica presidenziale.
[47] Il leader del M5S Di Maio annuncia la proposta di legge costituzionale per tagliare 345 parlamentari, http://www.adnkronos.com/fatti/politica/2018/09/18/maio-pronto-ddl-per-tagliare-parlamentari_1Uobgs6ANRvwFwW1wXB3iO.html
[48] Un’Italia sovranista senza sovranità, “il manifesto” 4-9-2018. Si può leggere in rete in http://www.marx21.it/index.php/internazionale/pace-e-guerra/29245-unitalia-sovranista-senza-sovranita,
[49] Sulla questione del nemico principale era con fermezza intervenuto Manlio Dinucci, giornalista ed esponente del comitato Noguerra NoNato, su “MarxVentuno” n. 1-2/2016: Usa/Nato: il nemico principale contro cui fare fronte comune. Cfr. sullo stesso tema Emiliano Alessandroni, Economicismo o dialettica? Un approccio marxista alla questione europea, in, http://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/275-economicismo-o-dialettica-un-approccio-marxista-alla-questione-europea.