di Gianni Barbacetto
Non ci sono più a salutarlo, ora che Nanni Svampa se n’è andato a 79 anni, quelli che con lui componevano la “scena” milanese degli anni Sessanta, quelli del Derby, che facevano cabaret, teatro, musica che era insieme popolare e raffinata, sempre ironica e dissacrante. Lo avrebbero salutato, molto probabilmente, con uno sfottò, come quelli delle canzoni macabre dei Gufi, che si prendevano gioco anche della morte e soprattutto dei preti. Non ci sono più a salutarlo, se ne sono andati prima di lui, Enzo Jannacci e Dario Fo, Giorgio Gaber e Walter Valdi. Ci sono ancora Cochi e Renato (il secondo invecchiato male purtroppo).
A metà della sua vita, Svampa scrisse: “Ho quarant’anni, sono ateo da 25, non digerisco i digestivi, mi piace la testina di vitello e il barbera di 16 gradi, sono anticlericale viscerale, non riesco a smettere di fumare”. Era nato a Porta Venezia quando era ancora un quartiere popolare con le case di ringhiera. Suo padre lo fece laureare alla Bocconi quando ancora non era di moda. Ma lui preferì la musica. Poi ironizzò su se stesso: “Io vado in banca/stipendio fisso/così mi piazzo/e non se ne parla più”.
Da studente comunque mise su un gruppo, “I soliti idioti”, goliardico e paradossale quanto un incrocio tra i futuri Skiantos e Elio e le storie tese prima maniera. Poi prese a tradurre Georges Brassens, che insieme a Jacques Brel e Boris Vian aveva calamitato l’attenzione anche di un giovane cantautore genovese, tal Fabrizio De Andrè. Svampa lo traduce però dal francese direttamente in milanese, mischia poesia e tono licenzioso e predilige il registro ironico.
Chissà se legge i testi di Umberto Eco che teorizza il connubio tra “alto” e “basso”. Comunque fa nascere canzoni memorabili come La Rita de l’Ortiga, Mi sont on malnatt, Trombuni de la pubblicità, La Cesira (“Quand’ pensi alla Cestira, ’l me tira, ’l me tira/quand’ pensi alla Cocò alur me tira nò”). In una Milano in cui sono quasi tutti milanesi d’adozione, il suo dialetto non puzza di nostalgia del passato, è solo un mezzo per raccontare delle storie, esattamente come l’inglese di Bob Dylan.
Con Gianni Magni, “il cantamimo”, Roberto Brivio, “il cantamacabro”, e Lino Patruno, jazzista raffinato, indossa calzamaglia nera e bombetta, facendo il verso ai cantanti esistenzialisti francesi, e forma il gruppo dei Gufi. Tra il 1964 e il 1969 quei quattro così diversi e così complementari fanno cabaret, sperimentano teatro canzone, inventano humour macabro, praticano musica politica, azzardano satira sociale. Svampa recupera con acribia filologica la vecchia canzone popolare milanese, la spruzza di spirito anarchico, la mischia con le canzoni della Resistenza.
Riporta in vita una canzone tradizionale come Porta Romana: “Porta Romana bella, Porta Romana/ci stan le ragazzine che te la dànno/Ci stan le ragazzine che te la dànno/prima la buonasera e poi la mano”. Con i Gufi ci aggiunge una seconda parte, che aggiorna di serata in serata, di spettacolo in spettacolo, anche attingendo all’attualità: “Han fatto più battaglie le tue mutandine/che tutti i Giapponesi alle Filippine/Han fatto più battaglie le tue collant/che in tutto il Medio Oriente Moshe Dayan”.
I Gufi vanno in tv, dove il dialetto milanese li aiuta a far passare testi che la Rai di Bernabei non avrebbe digerito, non solo per i doppi sensi licenziosi, ma anche (o soprattutto) per la critica politica e sociale. Le invenzioni di Svampa e dei Gufi sono un pezzo del Sessantotto, quello che si respirava nell’aria, creativo e ribelle e irridente. A teatro portano il loro spettacolo più politico: “Non spingete, scappiamo anche noi”. Cantano: “Non spingete, scappiamo anche noi/alla pelle teniam come voi/Meglio essere vecchi e figli di boia/che fare gli eroi per casa Savoia/E Pietro Micca è saltato in aria/per salvare la Fiat di Torino/io invece sono all’Alfa ma non sono cretino/e i salti miei li faccio su un letto insieme a te”.
C’è un po’ di “mala”, nelle canzoni di Svampa, la “mala” povera e dignitosa di quando a Milano (forse) non era ancora arrivata la mafia. Non era arrivato neppure il politicamente corretto, cosicché Svampa si permette di cantare, traducendo Brassens e raccontando la storia della “Rosetta tutta biunda”, con cui “il malnatt” ha avuto una storia prima che andasse sposa a un meridionale: “A me resta solamente la soddisfasiun/d’avegh faa ona pastrugnada prima d’on terun! Se ’l Signor el disarà: ma va ti a ciappà i ratt/el savevi giamò prima, mì sont on malnatt!”.
Nonsense e satira politica si mischiano nelle sue canzoni. “Si chiamava Ambroeus/e faceva l’entraineuse/in un trani con balera/proprio in fondo a via Marghera”. Ma anche: “Si può morire facendo il presidente/si può morire scavando una miniera/si può morire d’infarto all’osteria/o per vendetta di chi non ha niente/Si può morire uccisi da un regime/si può morire schiacciati sotto il fango/si può morire attraversando il Congo/o lavorando in alto sul cantiere”.
Ora Nanni sarà su qualche nuvola con la sua chitarra, a cantare ancora una volta, strizzando l’occhio al pubblico: “È la domenica il giorno del Signore/è la domenica il giorno dell’amore/tutti ben rasati/con su gli abiti belli/è d’obbligo sentirsi tutti un po’ fratelli/E poi andiamo in chiesa a pregare Dio/ma tu ti preghi il tuo/ed io mi prego il mio”.
Il Fatto quotidiano, 28 agosto 2017