Basta con le balle della politica. Questa crescita, piccolissima, è a spese del futuro prossimo”
Nella sua nota mensile l’Istat qualche giorno fa registrava un “consolidamento della crescita economica” corredata da tutta una serie di indicatori positivi come aumento della produzione industriale, aumento dell’export, crescita del turismo, aumento dell’occupazione (ma solo quella precaria), fiducia di famiglie e imprese in rialzo.
La situazione non è esattamente quella disegnata dall’istituto di statistica. E meno che mai si può parlare di “consolidamento”. Infilare qualche trimestre con segno positivo serve solo a dire che ci si sta allontanando dalla recessione, e non che la situazione economica si sta consolidando. C’è un gioco di specchi che va svelato.
“L’Italia ha ripreso a correre”, è stato il commento della maggioranza di Governo. Come evidenziato da molte agenzie italiane ed europee in termini di crescita del PIL si parla di un più 1,4% nel 2017: qualche decimale in più rispetto alle previsioni, ma decisamente sotto la media europea. E già questo è un elemento che deve aiutare la riflessione, perché per l’Italia perdere posizioni nel “consesso monetario” vuol dire, con le attuali regole Ue, pagare un prezzo maggiore sul fronte del bilancio pubblico. E oggi parlare di bilancio pubblico non vuol dire parlare solo di servizi, che vanno comunque acquistati privatamente dai cittadini, ma di investimenti. Voce che continua ad essere deficitaria, azzoppando ancora di più l’ipotesi del “consolidamento della ripresa”.
Una perdita di posizione che riguarda lo stesso asset complessivo dell’Italia. Sta cambiando il codice genetico della nostra economia, e di questo nessuno parla. Un fenomeno che non è solo in relazione al continuo cambiamento delle tecnologie, ma soprattutto alla perdita di un ruolo di rilievo nei settori strategici. La vicenda Fincantieri è solo una delle tante “storie” la cui narrazione viene adeguatamente sottaciuta dal mondo politico. E poi c’è un’altro interrogativo “forte” da sottolineare: per quale strano motivo la politica, e soprattutto le istituzioni, rimangono muti di fronte alle numerose vertenze che riguardano le grandi imprese? Parliamo di vertenze che hanno al centro dello scontro centinaia di esuberi: Sky, Nestlé (Perugina), Ericsson, tanto per citare gli ultimi casi. Si tratta di aziende che non si trovano, oggettivamente parlando, in uno stato di crisi. Caratteristica, questa, già messa in evidenza dai sindacati al tavolo delle trattative. Ha una qualche importanza questo per il Governo? Sembra proprio di no. Anzi, l’unica ricetta che l’esecutivo ritiene possibile è la privatizzazione. Un ragionamento perverso che, come la storia economica del nostro paese ha ampiamente dimostrato, porta a mettere “pezze” che presto torneranno a logorarsi moltiplicando i danni. Presto, giusto il tempo di trasferire il debito ai cittadini e i profitti ai pescecani di turno. La ripresa avviene ai danni del futuro prossimo, altro che uscita dalla crisi. E i dati sulla ripresa dell’occupazione lo dimostrano in modo inconfutabile.
Il punto nodale, però, rimane quello di sempre. A questa “crescita nominale” non corrisponde una svolta per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza, anzi. Le famiglie italiane si indebitano pur di tirare al campare. E molte rinunciano addirittura ad onorare i debiti.
Per esempio, tornano a crescere le sofferenze delle banche italiane: le rate non pagate da famiglie e imprese sono salite di 2 miliardi di euro nell’ultimo anno arrivando a quota 202 miliardi con un incremento superiore all’1%. Sono cresciuti di quasi 2 miliardi i finanziamenti non ripagati dalle imprese, arrivati a sfiorare quota 144 miliardi, e di 244 milioni quelli delle famiglie che in totale ammontano a quasi 38 miliardi. Il rapporto tra sofferenze e prestiti e’ salito dal 14,18% al 14,39%. Il rapporto mensile sul credito realizzato dal Centro studi di Unimpresa, dice chiaramente che il credit crunch per le aziende italiane non si ferma. E questo è il nodo di una crisi che in rapporto agli altri paesi europei sta penalizzando fortemente il Bel Paese: i prestiti delle banche alle imprese, nel corso dell’ultimo anno anno, sono calati di quasi 17 miliardi di euro (-2%) nonostante l’aumento di oltre 12 miliardi dei finanziamenti a medio termine.
A pesare sul calo e’ la diminuzione di oltre 15 miliardi dei finanziamenti a breve e di 13 miliardi di quelli di lungo periodo. In aumento di 10 miliardi, invece, i prestiti alle famiglie, spinti dal credito al consumo (+8 miliardi) e dai mutui (+9 miliardi), comparti che hanno compensato la riduzione di 7 miliardi dei prestiti personali. In totale, lo stock di impieghi al settore privato e’ diminuito di 6 miliardi, passando da 1.410 miliardi a 1.404 miliardi. Mezzo miliardo al mese in meno ad aziende e cittadini.
“Lo stock di crediti marci sui bilanci delle banche e’ un ostacolo all’erogazione di nuovi finanziamenti all’economia reale”, commenta lapidario il vicepresidente di Unimpresa, Claudio Pucci.
08/08/2017