di Manlio Dinucci
Alla 69a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, che si apre oggi a New York sotto la sua presidenza, il presidente degli Stati uniti Obama domani «chiamerà il mondo a raccolta contro la minaccia dell’Isis». Subito dopo lo stesso Obama presiederà una speciale riunione del Consiglio di sicurezza, che dovrebbe approvare una risoluzione presentata dagli Stati uniti.
A quanto si legge nella bozza fatta circolare giorni fa dall’agenzia di stampa Reuters, la risoluzione si concentra su uno specifico aspetto della campagna contro lo «Stato islamico dell’Iraq e della Siria»: quello di obbligare tutti i paesi a «prevenire e sopprimere il reclutamento, l’organizzazione, il trasporto e l’equipaggiamento di individui che si recano in altri Stati allo scopo di pianificare, preparare o attuare atti terroristici, oppure di fornire o ricevere addestramento terroristico e finanziamenti per tali attività». In base al capitolo 7 dello Statuto delle Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza avrebbe l’autorità di adottare misure per obbligare gli Stati ad attenersi a quanto stabilito nella risoluzione.
La risoluzione sarebbe condivisibile, se non costituisse il grimaldello con cui gli Stati uniti cercano di ottenere il timbro dell’Onu al loro piano strategico, formalmente incentrato sulla lotta contro lo «Stato islamico dell’Iraq e della Siria». Se la risoluzione fosse realmente applicata, i primi contro cui il Consiglio di sicurezza dovrebbe adottare sanzioni ed altre misure sarebbero proprio gli Stati uniti.
Sono stati gli Usa e i maggiori alleati Nato, come già ampiamente documentato, a finanziare, armare e addestrare in Libia nel 2011 gruppi islamici fino a poco prima definiti terroristi, tra cui i primi nuclei del futuro Isis; a rifornirli di armi attraverso una rete organizzata dalla Cia (documentata da un’inchiesta del New York Times, v. il manifesto del 27 marzo 2013) quando, dopo aver contribuito a rovesciare Gheddafi, sono passati in Siria per rovesciare Assad; sono stati sempre gli Usa e la Nato ad agevolare l’offensiva dell’Isis in Iraq (nel momento in cui il governo al-Maliki si allontanava da Washington, avvicinandosi a Pechino e a Mosca), fornendogli, in base a un piano sicuramente coordinato dalla Cia, finanziamenti, armi e vie di transito tramite Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Turchia, Giordania. Secondo funzionari dell’intelligence intervistati dal New York Times, vi sono in Siria e Iraq circa 15mila combattenti stranieri provenienti da 80 paesi, tra cui oltre 2mila statunitensi ed europei.
Se la risoluzione fosse realmente applicata, il primo uomo politico contro cui il Consiglio di sicurezza dovrebbe prendere provvedimenti sarebbe il senatore statunitense John McCain che, su incarico dell’amministrazione Obama, ha incontrato in Siria nel maggio 2013 il capo dell’Isis, Ibrahim al-Badri, oggi noto col nome di battaglia di Abu Bakr al-Baghdadi (v. foto sul manifesto del 9 settembre 2014).
Poiché la risoluzione lascia ogni Stato libero di stabilire quali siano i gruppi terroristici da combattere, viene data come probabile la sua approvazione all’unanimità, anche da parte di Russia e Cina. In tal modo, però, gli Stati uniti avrebbero di fatto mano libera nel lanciare la «guerra globale al terrorismo versione 2.0» che, incentrata apparentemente sull’Isis, mira alla completa demolizione della Siria, finora impedita dalla mediazione russa in cambio del disarmo chimico di Damasco, e la rioccupazione dell’Iraq. Ad esempio, invocando la risoluzione del Consiglio di sicurezza, gli Usa potrebbero bombardare una base governativa in Siria, asserendo di avere le prove che è un centro di addestramento di terroristi.
Tutto ciò rientra nella strategia dell’«impero americano d’Occidente» che, perdendo terreno sul piano economico e politico di fronte alla Cina ed altre potenze emergenti o riemergenti – anzitutto la Russia, contro cui Usa e Nato hanno lanciato in Europa una nuova guerra fredda – getta sul piatto della bilancia la spada della sua superiorità militare, mirando oltre: all’Iran e, nella regione Asia/Pacifico, alla stessa Cina. Utile fonte di profitti per le multinazionali statunitensi ed europee, ma allo stesso tempo temuta perché, accordandosi con la Russia, può creare una potenza euroasiatica in grado di contrapporsi alla superpotenza statunitense e, in generale, al ruolo dominante dell’Occidente.
23 settembre 2014