Con questo articolo diamo un chiarimento mirato delle valutazioni cubane in merito alla visita del Presidente Obama e al “riavvicinamento” con gli Stati Uniti. Punto per punto sui temi focali di questo percorso, che riguarda il passato ma soprattutto il futuro, troveranno ulteriori specifiche coloro che credono fermamente, come noi, nella continuazione del percorso rivoluzionario cubano. A maggior ragione la lettura potrà fornire chiavi di interpretazione efficaci ai meno informati, quelli che pensano addirittura che Cuba aprendo le porte a Obama si sia arresa al capitalismo.
Proponiamo quindi questa riflessione di uno dei più riconosciuti uomini di scienza di Cuba invitando con convinzione tutti alla lettura, alla riflessione e anche al dibattito nei nostri Circoli
Agustín Lage Dávila*
Ho avuto l’opportunità di partecipare a vari incontri con la delegazione che ha accompagnato il Presidente Obama e di ascoltarlo in tre interventi; e sento ora il dovere di condividere con i miei compagni quello che ho interpretato di ciò che è stato detto, e anche di ciò che non è stato detto, dato che in politica quello che si omette di dire di solito è tanto importante quanto quello che si dice.
Ci sono due direzioni complementari di pensiero per interpretare questa visita e tutto il processo di impegno per la normalizzazione delle relazioni: interpretare ciò che significa per una valutazione del passato, e interpretare ciò significa per una proiezione verso il futuro.
Guardando il passato è evidente che il processo di normalizzazione appena iniziato nelle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti bisogna interpretarlo come una vittoria capitale del popolo rivoluzionario e socialista cubano, delle sue convinzioni, della sua capacità di resistenza e di sacrificio, della sua cultura, del suo impegno etico nella giustizia sociale; così come pure una vittoria della solidarietà con Cuba dell’America Latina.
Ci sono cose che ai cubani sono tanto evidenti che a volte dimentichiamo di sottolinearle.
- Questa normalizzazione è iniziata durante la vita della generazione storica che ha fatto la Rivoluzione, e diretta da leader di questa stessa generazione.
- Ha compreso un riconoscimento della istituzionalità rivoluzionaria cubana, riconoscimento che non vi è stato verso l’Esercito Liberatore nel 1898, né verso l’Esercito Ribelle nel 1959 (e c’è stato, tuttavia, verso le dittature di Gerardo Machado e di Fulgencio Batista).
- Ha compreso un riconoscimento esplicito dei risultati della Rivoluzione, almeno nell’Educazione e nella Salute (che è stato ciò di cui si è parlato).
- Ha compreso un riconoscimento esplicito all’aiuto solidale di Cuba verso altri popoli del mondo, e il suo contributo a cause nobili come la salute mondiale, e l’eliminazione dell’apartheid in Africa.
- Ha compreso un’accettazione esplicita che le decisioni sui cambiamenti e sui modelli socio-economici a Cuba riguardano esclusivamente i cubani, che abbiamo (abbiamo guadagnato) il diritto a organizzare la nostra società in modo diverso a come lo fanno altri.
- Ha compreso la dichiarazione dell’abbandono dell’opzione militare e sovversiva, come pure l’intenzione di abbandonare la coercizione, come strumenti della politica nordamericana verso Cuba.
- Ha espresso il riconoscimento del fallimento delle politiche ostili contro Cuba delle amministrazioni precedenti, aspetto che implica (se pure non dichiarato così) il riconoscimento della resistenza consapevole del Popolo Cubano, poiché le politiche ostili di fronte alle resistenze tenaci sono destinate a fallire.
- Ha riconosciuto i patimenti che il blocco ha causato al Popolo Cubano.
- Questo processo non è partito da concessioni cubane di uno solo dei nostri principi. Tanto meno dalle richieste di fine del blocco e di restituzione del territorio illegalmente occupato a Guantánamo.
- Ha compreso il riconoscimento pubblico che gli Stati Uniti erano isolati in America Latina e nel mondo per la loro politica verso Cuba.
Non credo che ci sia nessuno mediamente lucido e informato nel mondo che possa interpretare questo processo di normalizzazione in corso come un’altra cosa che non sia una vittoria di Cuba nella sua controversia storica con gli Stati Uniti.
Di fronte al passato è questa l’unica interpretazione possibile.
Orbene, di fronte al futuro le cose sono più complesse, e ci sono almeno due interpretazioni estreme possibili, e le loro varianti intermedie:
- L’ipotesi della cospirazione perversa.
- L’ipotesi delle concezioni divergenti sulla società umana.
Nelle strade di Cuba oggi si discute su entrambe. A questo punto avviso il lettore che per adesso non mi metto ad argomentare a favore o contro una di queste due ipotesi, o delle combinazioni diverse di entrambe. Gli avvenimenti futuri si incaricheranno di farlo, e ognuno trarrà “le proprie conclusioni” in questo “passaggio verso l’ignoto”.
Quelli che propendono per l’ipotesi della cospirazione perversa vedono le parole del Presidente Obama come una falsa promessa o come un sottile inganno che risponde a un piano concepito affinché apriamo le porte al capitale nordamericano e all’influenza dei suoi mezzi di comunicazione; affinché permettiamo l’espansione a Cuba di un settore economicamente privilegiato, che nel tempo si andrebbe trasformando nella base sociale della restaurazione capitalista e della rinuncia alla sovranità nazionale. Sarebbero i primi passi della strada di ritorno verso la Cuba dei ricchi e dei poveri, dei dittatori e dei mafiosi, che avevamo negli anni ‘50.
I cubani che pensano così hanno diritto a farlo: ci sono molti fatti nella storia comune che giustificano questa enorme sfiducia. Sono noti e non devo enumerarli qui.
Molta gente ricorda la famosa frase attribuita al Presidente Franklin D. Roosevelt quando disse riguardo al dittatore nicaraguense Anastasio Somoza: “Forse Somoza è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”.
Certamente né il Presidente Obama, né le attuali generazioni di nordamericani di buona volontà (che sono molte persone) hanno la colpa, come persone individuali, delle prime fasi di quel percorso storico. Ma è anche innegabile che quella storia è lì, e che impone condizionamenti a quello che loro possono fare, e alla nostra maniera di interpretare quello che loro fanno. I processi storici sono molto più lunghi di una vita umana, ed eventi successi molti decenni fa hanno influenza sulle nostre scelte di oggi, perché condizionano atteggiamenti collettivi che hanno un’esistenza obiettiva, relativamente indipendente dalle idee e dalle intenzioni dei leader.
Anche separando il Presidente Obama dalle politiche aggressive e immorali di amministrazioni precedenti che hanno organizzato invasioni, hanno dato rifugio a terroristi, hanno promosso assassini di leader cubani e hanno impostato il tentativo di far arrendere per fame il Popolo Cubano; anche stabilendo questa distinzione, non ci si può dimenticare che Obama da solo non è la classe politica degli Stati Uniti. Ci sono lì molti altri componenti del potere che sono sempre stati presenti, lo sono oggi, e lo saranno quando finirà il mandato di Obama tra alcuni mesi, e nel futuro prevedibile. Li stiamo vedendo nella campagna elettorale in corso.
Per essere onesti con coloro che leggano queste righe, devo riconoscere che il Presidente Obama non ha dato qui l’impressione di essere il manovratore di una cospirazione perversa, bensì quella di essere un uomo intelligente e colto che crede in quello che dice. Allora quello che accade è che le cose nelle quali egli crede (con tutto il suo diritto) sono diverse da quelle in cui crediamo noi (pure con tutto il nostro diritto).
Questa è la seconda ipotesi, quella delle concezioni divergenti sulla società umana, che sono state molto evidenti in tutti i momenti della visita a Cuba del Presidente Obama e della sua delegazione, in tutto quello che è stato detto, e anche in quello che si è omesso di dire.
È stato molto chiaro che la direzione principale della relazione degli Stati Uniti con Cuba sarà nel campo dell’economia, e dentro questo, la strategia principale sarà quella di entrare in relazione con il settore non statale e di appoggiarlo.
È stato molto chiaro, nel discorso e nei messaggi simbolici, nel prendere le distanze dall’economia statale socialista cubana, come se la proprietà “statale” significasse proprietà di un ente estraneo, e non proprietà di tutto il popolo, come realmente è.
Sulla necessità che esista un settore non statale nell’economia cubana non abbiamo divergenze. In realtà l’espansione dello spazio dei lavoratori in proprio e delle cooperative è parte dell’attuazione dei Lineamenti sorti dal 6º Congresso del Partito. Dov’è la divergenza è nel ruolo che deve avere questo settore non statale nella nostra economia:
- Loro lo vedono come il componente principale dell’economia; noi lo vediamo come un complemento al componente principale che è l’azienda statale socialista. In realtà oggi questo settore non statale, sebbene si avvicini a essere il 30% dell’impiego, non arriva ad apportare il 12% del PIL, aspetto che indica il suo carattere limitato per la creazione di valore aggiunto.
- Loro lo fanno equivalere “all’innovazione”; noi lo vediamo come un settore di relativamente basso valore aggiunto. L’innovazione è nell’alta tecnologia, nella scienza e nella tecnica, e nelle loro connessioni con l’azienda statale socialista.
- Lo spirito innovatore del popolo cubano si è espresso in questi anni in molti altri modi, come nello sviluppo della biotecnologia e dei suoi farmaci e vaccini, la formazione di massa di informatici nella UCI, l’agricoltura urbana, la rivoluzione energetica e molti altri risultati del “periodo speciale”, e niente di questo è stato citato nei discorsi dei nostri visitatori.
- Loro vedono l’imprenditoria privata come qualcosa che “dà potere” al popolo; noi la vediamo come qualcosa che dà potere a “una parte” del popolo, e relativamente piccola. Il protagonismo del popolo è nelle imprese statali, e nel nostro grande settore finanziato (che comprende la salute, l’educazione, lo sport, la sicurezza cittadina) che è dove si lavora realmente per tutto il popolo e dove si produce la maggior parte della ricchezza. Non si può accettare il messaggio implicito di far coincidere il settore non statale con “il popolo” cubano. Questo non è stato detto in modo così brutale, ma lo si intende dal discorso in un modo fin troppo chiaro.
- Loro separano tacitamente il concetto di “imprenditoria”, e quello di proprietà statale. Noi vediamo nel settore statale le nostre principali opzioni di imprenditoria produttiva. Così lo abbiamo spiegato nel Forum di imprenditori illustrando l’organizzazione in cui lavoro (il Centro di Immunologia Molecolare) come “un’azienda con 11 milioni di azionisti”.
- Loro vedono il settore non statale come una fonte di sviluppo sociale; noi lo vediamo in un ruolo doppio, dato che è anche una fonte di disuguaglianze sociali (di cui già abbiamo prove, come illustrano i recenti dibattiti sui prezzi degli alimenti), disuguaglianze che bisognerà controllare con una politica fiscale che sia un riflesso dei nostri valori.
- Loro credono nella funzione “dinamizzatrice” della concorrenza (benché questo concetto sia stato già discusso perfino da ideologi seri dell’economia capitalista). Noi conosciamo la sua funzione depredatrice e di erosione della coesione sociale, e crediamo di più nella dinamica che proviene da programmi del paese.
- Loro credono nel fatto che il mercato distribuisca efficientemente l’investimento rispondendo alla domanda; noi crediamo che il mercato non risponde alla domanda reale bensì alla “domanda solvibile”, e che approfondisca le disuguaglianze sociali.
- Loro si basano sul percorso di sviluppo imprenditoriale degli Stati Uniti, la cui economia è decollata nel Secolo XIX, in condizioni dell’economia mondiale che oggi sono irripetibili. Noi sappiamo che le realtà dei paesi sottosviluppati a economia dipendente sono altre, specialmente nel Secolo XXI, e che lo sviluppo economico e tecnico-scientifico non avverrà a partire dalle piccole imprese private in concorrenza, né cercando di riprodurre oggi il percorso dei paesi industrializzati, con 300 anni di differenza. Sarebbe la ricetta della perpetuazione del sottosviluppo e della dipendenza, con un’economia progettata come appendice e complemento dell’economia nordamericana, cosa già successa nel Secolo XIX, quando questa dipendenza ci ha sommerso nella monocoltura e ci ha chiuso la via verso l’industrializzazione. Per capirlo serve la Storia, e per questo non possiamo dimenticarla.
Intraprendere la via della convivenza civile “con le nostre diversità”, implica conoscere bene a fondo e in tutto il Popolo Cubano, dov’è che ci sono quelle differenze, per potere evitare che decisioni precise apparentemente razionali di fronte a problemi economici tattici, possano portarci a errori strategici; e peggio ancora che altri ci spingano a ciò, attraverso le cose che si dicono e quelle che non si dicono.
Abbiamo saputo evitare quegli errori agli inizi del periodo speciale, di fronte alla sparizione del campo socialista europeo e alla marea ideologica neoliberista degli anni ‘90. Lo sapremo fare meglio ora.
Certamente la convivenza civile ci tiene lontani dal rischio e dalla barbarie della guerra (militare ed economica), ma non ci esonera dal dare battaglia sul piano delle idee.
Dobbiamo vincere in questa battaglia di idee per potere vincere nella battaglia economica.
La battaglia economica del Secolo XXI cubano avverrà in tre campi principali:
1. quello dell’efficienza e della capacità di crescita dell’Azienda Statale Socialista, e l’inserimento di questa nell’economia mondiale.
2. quello della connessione della scienza con l’economia attraverso aziende di alta tecnologia, con prodotti e servizi di alto valore aggiunto che arricchiscano il nostro portafoglio di esportazioni.
3. quello della limitazione cosciente dell’espansione delle disuguaglianze sociali, attraverso l’intervento dello Stato Socialista.
In questi campi si deciderà il Secolo XXI dei cubani.
La battaglia di idee consiste nel consolidare pensiero e consenso verso dove vogliamo andare, e sulle strade concrete per arrivare.
Le acque dello stretto della Florida non devono essere un campo di conflitto bellico, ed è bene per tutti che sia così, ma quelle acque continueranno a separare per molto tempo due concezioni differenti dalla convivenza umana, dell’organizzazione degli uomini per la vita sociale e per il lavoro, e della distribuzione dei suoi frutti. Ed è pure bene che sia così. Il nostro ideale di società umana ha le radici nella nostra esperienza storica e nell’anima collettiva dei cubani, sintetizzata magistralmente dal pensiero di José Martí. Egli ha studiato e ha capito meglio di nessun altro nel suo tempo la società nordamericana e ha detto: “la nostra vita non assomiglia alla sua, né deve in molti punti assomigliarle”.
La credenza di base del capitalismo, perfino in coloro che vi credono onestamente, è la costruzione di prosperità materiale basata sulla proprietà privata e sulla concorrenza. La nostra si basa sulla creatività animata dagli ideali di equità sociale e di solidarietà tra le persone, comprese le generazioni future. Il nostro concetto di società è il futuro, e anche se il futuro ritarda, invischiato nei condizionamenti obiettivi del presente, continua a essere il futuro per il quale bisogna lottare.
La proprietà privata e la concorrenza sono il passato, e anche se questo passato continua a esistere necessariamente nel presente, continua a essere passato.
Bisogna sempre saper vedere i concetti che vi sono dietro le parole che si dicono, e le ragioni che vi sono dietro le parole che non si dicono.
La battaglia per il nostro ideale di convivenza umana sarà nelle mani delle attuali generazioni di giovani cubani, che affronteranno nel loro tempo sfide diverse da quelle delle generazioni rivoluzionarie del Secolo XX, ma altrettanto grandi e trascendentali, e anche più complesse.
Analizzando la complessità delle loro sfide vi confesso che vorrei entrare un’altra volta nell’Unione dei Giovani Comunisti, la cui tessera (nº 7784, del 1963) ho in questo momento sulla mia scrivania. Continuo a essere comunista, ma ormai devo accettare che non posso più continuare a essere “giovane”. Ma posso condividere con i giovani l’analisi di quello che oggi si dice, e svelare quello che non si dice, e costruire con loro gli strumenti intellettuali di cui abbiamo bisogno per le battaglie che verranno.
José Martí ha scritto nell’aprile del 1895: “Di pensiero è la guerra più grande che ci fanno. Vinciamola a colpi di pensiero”.
* El Moncada in passato ha spesso pubblicato interventi del Dr. Agustín Lage Dávila, direttore del C.I.M., il Centro di Immunologia Molecolare di Cuba, uno degli avamposti più importanti della scienza e della ricerca non solo cubana.
Marzo 2016