Lo scontro tra Cina e sostenitori dell’Occidente sull’isola va letto in chiave di classe
di Stefano Paterna
Hong Kong è un paradosso. Uno dei tanti che ci propone la storia. Una città-regione autonoma iperliberista all’interno del territorio di uno Stato fondato nel ’49 da Mao Zedong, a seguito di quella epocale Rivoluzione.
Ogni tanto gli squilibri internazionali tra le classi creano situazioni bizzarre e apparentemente senza uscita dalle quali è comodo districarsi invocando la tradizione, il colore preferito delle bandiere, il ruolo del nemico straniero o di casa, ecc. In questo senso gli articoli precedenti sul tema pubblicati da questo giornale sono assai utili per evitare facili letture ideologiche di questa crisi asiatica.
Nel caso specifico, poi, la scena del paradosso è di per sé particolare perché si tratta di un’enclave creata dal colonialismo britannico dopo la prima delle due oscene Guerre dell’Oppio (1839-42): ovvero due conflitti condotti dall’Impero della Sua Graziosa Maestà Britannica per imporre alla Cina della dinastia Quing di consumare la droga prodotta in India. Tra le eredità acquisite dagli inglesi ci fu proprio la sovranità sul “Porto Profumato”.
Con il passare dei secoli e fino al 1997, quando è tornata sotto la sovranità cinese, Hong Kong è diventata uno dei principali “hub” finanziari internazionali ed è divenuto in questo modo assai simile alla capitale degli ex colonialisti, ovvero Londra. Ora la domanda è: cosa diavolo si produce a Hong Kong? La risposta è: poco che si possa toccare, tranne il danaro. Se nel 2001 il settore dei servizi rappresentava l’86,5% del Pil, nel 2019 la percentuale era cresciuta sino al 93%, stando a quanto ci racconta l’Index of Economic Freedom della Heritage Foundation.
E cosa accade in questo “paradiso” del grande capitale internazionale incistato nel corpo della Cina Popolare? Niente di diverso da quello che può accadere in un luogo dove si ritiene che il mercato funzioni perfettamente senza le interferenze dello Stato. Pertanto, la città autonoma era nel 2016 il luogo in Asia con la più marcata disuguaglianza, ben misurata dal coefficiente di Gini che tocca uno stratosferico 0,53 (in Italia siamo a 0,36). Secondo dati provenienti dal World Factbook della Cia il 19,9% della popolazione della Regione Speciale Autonoma di Hong Kong è sotto la linea della povertà, mentre la Cina è al 3,3% (l’Italia, secondo gli analisti di Langley, starebbe addirittura al 29,9%).
Questo universo sociale di poveri (circa un milione e mezzo di persone su oltre 7 milioni di cittadini) è composto da lavoratori poveri che ben conosciamo anche da noi, adibiti a mansioni come le pulizie degli uffici delle grandi Corporation, da appartenenti alle minoranze etniche, da anziani. Sono da sempre afflitti dalla penuria di case a buon mercato e devono trovare soluzioni abitative ai limiti della sopravvivenza.
Il sistema politico di Hong Kong
Come si è relazionato questo proletariato con i movimenti di protesta che hanno imperversato in questi anni in città prima nel 2014 e poi lo scorso anno e ancora adesso?
Confesso di non avere dati precisi in merito. Tuttavia, è difficile che tra le classi popolari di Hong Kong e la protesta contro il disegno di legge sull’estradizione non ci sia alcun nesso partecipativo, dato che la stessa polizia in diverse occasioni ha ammesso che alle manifestazioni del giugno del 2019 hanno partecipato centinaia di migliaia di persone (240 mila il 9 giugno, 338 mila il 12 giugno), mentre per gli organizzatori si parla sempre di più di un milione.
È difficile soprattutto nel quadro del sistema politico che governa la città al cui centro sta il Consiglio Legislativo di 70 membri, per una metà eletti a suffragio universale, per l’altra metà scelti in base a criteri diversi da politici e categorie professionali: in pratica una sorta di rappresentanza corporativa espressione del notabilato locale.
Il capo del governo locale, il Chief executive, (in questo momento la contestatissima Carrie Lam), viene indicato da un corpo elettorale di 1.200 persone designate in parte dalle categorie professionali (di nuovo i notabili), appartenenti al Consiglio Legislativo e dai deputati inviati da Hong Kong al Congresso del Popolo. La designazione del capo del governo locale viene poi ratificata da Pechino.
Questo meccanismo mette abbastanza in evidenza l’alleanza politica stabilitasi dal 1997 tra il governo della Repubblica Popolare e i notabili di Hong Kong, espressione delle famiglie più potenti e legate alle attività finanziarie internazionali. In questo quadro è possibile che una parte delle classi popolari prive di qualsiasi peso politico si siano fatte trascinare nelle ripetute proteste di questi anni, sperando di ottenere una qualche attenzione e/o miglioramento delle proprie condizioni di vita fortemente condizionate dalla rigida Basic Law, la costituzione della città improntata al pareggio di bilancio.
Tuttavia, è ancora più probabile che la “testa” e anche buona parte del corpo del movimento (gli “studenti eroi” dell’immaginario mainstream dei mass media occidentali) siano invece espressione delle classi medie della città e soprattutto della loro crisi.
Shanghai, Shenzhen, Singapore vs Hong Kong
Quando nel 1997 la Union Jack venne ammainata, Hong Kong gestiva il 27% di tutte le transazioni commerciali da e per la Cina, ora è al 3%. Nel frattempo, pericolose rivali gli si sono parate davanti tra le quali la più minacciosa è Shanghai, ma non vanno sottovalutate Shenzhen e Singapore. Se nel 2001 Hong Kong si assicurava ancora il 77,8% dei trasporti di container del Delta del Fiume delle Perle, nel 2018 arrivava al 45,3%.
Come non vedere che tutto questo ha una relazione con il futuro delle classi medie della città del “Porto Profumato”? Come non vedere la paura di chi pensa che il proprio benessere e i propri privilegi sono legati al mondo del commercio, alla Borsa, alle grandi corporations? Come non vedere che i pargoli di questi broker, di questi quadri amministrativi, di questi assicuratori, guardano al proprio destino con apprensione e si sentono legati sentimentalmente più a Wall Street che alla Città Proibita?
Eppure le classi dominanti di Hong Kong la loro scelta l’hanno già fatta e non è stata per niente filo-occidentale. Da anni esse perseguono l’integrazione progressiva con la Cina Popolare: nel 2003 viene firmato il CEPA (Closer Economic Partnership Arrangement) che ha implicato l’esenzione dai dazi per una gamma di prodotti e la liberalizzazione graduale di alcuni settori di attività.
Nel 2013 è arrivato il Supplemento X del CEPA, ovvero l’Accordo per la liberalizzazione di base del commercio dei servizi tra il Guangdong (la regione cinese prospiciente) e Hong Kong. Nel 2016 è stato il turno dell’Accordo per la liberalizzazione del commercio dei servizi, poi nel 2018 gli Accordi sugli investimenti e sulla cooperazione tecnica ed economica e infine a capodanno del 2019 è giunto l’Accordo bilaterale sul commercio dei beni.
A febbraio di quest’anno, nonostante la pandemia di Coronavirus, è stato diffuso il piano di sviluppo della Greater Bay Area, in cui la città autonoma dovrebbe giocare un ruolo di particolare importanza.
Hong Kong tra Usa e Pechino
Queste tensioni di classe si sviluppano nel contesto del piano di contenimento orchestrato da Washington nei confronti della Cina Popolare. Come non mettere in relazione l’appoggio dichiarato degli USA anche alle forme più violente e provocatorie di protesta ad Hong Kong con il medesimo appoggio a Taiwan e perfino agli ex nemici della Repubblica Socialista del Vietnam?
Gli Stati Uniti hanno bisogno di contenere la dinamicità dell’economia cinese, di renderle difficoltosi gli approvvigionamenti a sud e lo sbocco al Pacifico, esercitando una pressione economica e se possibile militare su Pechino, congiungendo la linea Filippine, Taiwan, Vietnam, Corea del sud, Giappone.
Il Congresso Nazionale del Popolo ha di recente approvato una nuova legge sulla sicurezza nazionale proprio per combattere il secessionismo, il terrorismo e le ingerenze straniere a Hong Kong. Al momento, non ne sono ancora chiari i contenuti, ma pare abbastanza chiaro l’intento di estendere il controllo del continente sull’irrequieta isola. Non per niente alte grida di allarme e di minaccia sono venute dai movimenti indipendentisti di protesta locali e dal loro “Lord Protettore”, ovvero l’attuale inquilino della Casa Bianca Donald Trump. Washington minaccia sanzioni contro i funzionari di Pechino nell’isola e perfino il ritiro delle esenzioni commerciali di cui gode l’ex colonia britannica. Il che però rappresenterebbe una mazzata soprattutto per i settori sociali che fanno riferimento agli Stati Uniti.
In realtà, il controllo di Pechino su Hong Kong pare saldo, solo che la Cina Popolare sembra tenere l’isola soprattutto per i “capelli”, ovvero attraverso l’alleanza con i gruppi dominanti locali.
Questo fattore produce una sistematica instabilità perché il resto della società non vede spazio per un proprio miglioramento di vita: questo vale per le classi medie (e per la frazione di lavoratori a loro legate e inquadrate nei sindacati) che tramite l’alleanza con l’imperialismo sperano di tornare ai privilegi di quando Hong Kong era colonia britannica: un’utopia reazionaria impossibile al giorno d’oggi, data la dimensione raggiunta dalla Cina e dai suoi interscambi con il mondo.
D’altra parte Pechino potrebbe facilmente conquistare le masse popolari della Regione Autonoma Speciale, innalzando davvero anche lì la bandiera del socialismo o almeno dello stato sociale, ma questo sancirebbe la rottura con i gruppi dominanti di Hong Kong. Peraltro è lecito dubitare che il governo di Xi Jinping intenda difendere il socialismo seppure di mercato anche sul resto della Cina.
Il paradosso dunque sembra destinato a durare.
Sitografia:
Hong Kong, cosa c’è dietro le proteste
Quadro macroeconomico (HONG KONG) – aggiornato al 05/05/2020
Poveri, disabili, anziani: le voci degli ultimi di Hong Kong
06/06/2020
Foto di copertina: Manson Yim