Gaetano Bucci (docente Università di Bari) sarà presente il 6 dicembre a Bologna per ricordare:
L’umana pienezza e il ruolo politico-culturale di SALVATORE d’ALBERGO nella storia sociale, politica e culturale del nostro Paese
Assemblea pubblica, per un confronto con lavoratori, intellettuali, giuristi, economisti costituzionalisti, dirigenti del movimento sindacale, personalità del mondo scientifico Tre temi di attualità rivalorizzeranno il suo contributo militante ai conflitti in corso: · ambiente e territorio sociale · difesa dei valori economici-sociali della costituzione e estensione dell’art 18 · controllo sociale dei piani d’impresa e programmazione democratica dell’economia
Sabato 6 dicembre dalle 10.30
sala del Palazzo del Rettorato.
Università di Bologna, Palazzo Poggi Via Zamboni n. 33
°°°
Parlamentarismo senza parlamento: a proposito dell’attacco al bicameralismo perfetto
di Gaetano Bucci
1. Revisione costituzionale e forma di stato: violare il “divieto del discorso sui fini” prescritto dalla cultura “postdemocratica” dominante. 2. Forma di stato, forma di governo e sistema elettorale nell’impianto unitario della Costituzione italiana. 3. Le ambiguità e le insidie della revisione della forma di governo parlamentare
1. Revisione costituzionale e forma di stato: violare il “divieto del discorso sui fini” prescritto dalla cultura “postdemocratica” dominante
Nell’ultimo ventennio le forze politiche di “centrodestra” e di “centrosinistra” hanno avanzato incessantemente proposte di riforma costituzionale, asserendo che fossero indispensabili per adeguare l’ordinamento nazionale alle evoluzioni dell’ordinamento dell’UE e specie alle nuove regole della governance economica considerate a loro volta necessarie per affrontare adeguatamente le «sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie».
Nella Relazione introduttiva al disegno di legge di revisione costituzionale (AS 1429), si legge infatti che la «stabilità dell’azione di governo» e l’«efficienza dei processi decisionali» costituiscono «le premesse indispensabili per agire, con successo, nel contesto della competizione globale».
Si deve rilevare a questo proposito, come le proposte di revisione presentate nel corso delle precedenti legislature che perseguivano similmente l’obiettivo di potenziare la “governabilità istituzionale” e la “stabilità economica” come condizioni necessarie per affrontare le dinamiche dei mercati concorrenziali, abbiano mirato a depotenziare il ruolo “centrale” del Parlamento al fine di predisporre «un quadro di comando verticale» svincolato dagli ostacoli della dialettica sociale e quindi dalle istanze considerate incompatibili con le strategie dei «mercati finanziari» e delle «grandi agenzie internazionali».
Nel valutare l’attuale proposta di superamento del “bicameralismo paritario” non si può tuttavia non rimarcare come le complesse questioni da essa evocate, siano state già affrontate e risolte dai Costituenti in una prospettiva opposta a quella del rafforzamento dell’esecutivo e della stabilità del governo, ossia nella prospettiva della valorizzazione del ruolo delle forme organizzate del pluralismo sociale e politico e specie dei partiti considerati come strumenti di partecipazione dei cittadini alla determinazione degli indirizzi concernenti l’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, 2° co., C.).
La Costituzione ha infatti riconosciuto piena rilevanza all’esigenza di garantire alle minoranze spazi di effettiva agibilità nel Parlamento per porle in condizione di svolgere un ruolo attivo non solo nella fase elettorale, ma anche e soprattutto nella fase di determinazione della politica nazionale (art. 49 C.).
L’approvazione di un ordine del giorno favorevole al sistema proporzionale (o.d.g. Giolitti), testimonia del resto l’avversione dei Costituenti per il sistema maggioritario che nelle fasi precedenti si era rivelato inidoneo «a fare entrare nelle istituzioni le molteplici voci del Paese e a farle contare nella formulazione e nella attuazione dell’indirizzo politico». La rappresentatività delle istituzioni fu considerata pertanto come «la chiave per cogliere in modo continuo e ravvicinato i bisogni» della collettività e quindi come l’unico strumento capace di «consolidare le fragilità del sistema politico». Sulla base di queste premesse, i Costituenti hanno scelto di superare la «storica contrapposizione tra Camera “alta” e Camera “bassa”» per introdurre la peculiare innovazione del sistema bicamerale “paritario” caratterizzato dall’elettività dei deputati e dei senatori e dall’eguaglianza delle funzioni delle due Camere , perché fondato sul principio unificante della sovranità popolare che implica un “coordinamento” e non una separazione tra i poteri», il quale deve essere svolto da un Parlamento posto al “centro” «non solo del sistema delle assemblee elettive ma anche del complessivo sistema istituzionale, compresi quindi il Governo e il Presidente della Repubblica» .
I Costituenti non hanno ritenuto inoltre di fissare limiti stretti in relazione al numero dei componenti delle Camere, perché consapevoli del fatto che «la riduzione del numero dei parlamentari» restringe le «possibilità di scelta» e quindi gli «spazi della rappresentanza», rischiando di escludere «dalla sfera pubblica» le voci dei cittadini, specie «quelle più scomode per i poteri politico-economici dominanti».
Essi non considerarono pertanto prioritarie le esigenze connesse alla efficienza e alla rapidità delle decisioni rispetto a quelle del pluralismo politico, sociale e istituzionale, perché ritennero che «la forza del Parlamento» in un sistema democratico derivasse principalmente dalla «sua capacità di rappresentanza».
Non si può non considerare in proposito, come la proposta di riduzione del numero dei parlamentari penalizzerebbe vieppiù la rappresentanza perché – ove approvata – verrebbe ad inserirsi nel quadro di «un sistema partitico […] coerente con una formula elettorale fortemente sbilanciata in senso maggioritario» e quindi «incentrato su due partiti o coalizioni tendenzialmente convergenti verso il centro» che esprimono «per lo più […] gli interessi socio-economici più forti».
La costruzione di un Parlamento «più autorevole, coeso ed efficiente» avverrebbe pertanto «grazie all’esclusione di una parte dei rappresentati dalla sfera della rappresentanza e della scelta politica».
Si comprende pertanto come le esigenze della governabilità non coincidano necessariamente con quelle della democrazia, ma possano anzi provocarne una regressione, specie quando acuiscono «il distacco rispetto alla rappresentanza e sacrificano il pluralismo reale e potenziale».
La proposta di revisione non pone soltanto la questione della riduzione della rappresentanza, ma quella più ampia della compatibilità fra «un modello […] di governo che individua come proprio asse paradigmatico l’efficienza nella decisione» e la forma di stato democratico-sociale fondata sul principio della partecipazione effettiva «di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, 2° co., C.).
La proposta di riduzione del numero dei parlamentari appare pertanto coerente con la ratio complessiva del disegno di legge costituzionale che mira a rafforzare il ruolo del Governo «all’interno della prospettiva efficientistica e tecnocratica che domina la scena europea».
Le modalità adottate per la discussione e l’approvazione in prima lettura del disegno di legge costituzionale, hanno rivelato del resto come i “nuovi costituenti” considerino la democrazia come un «impaccio» o come «una pietra di inciampo che spezza il circolo potere-finanza».
La stessa «insofferenza» nei riguardi delle «forme politiche costruite dall’Europa nei secoli della sua storia» è stata espressa dai poteri economici in un report elaborato dagli analisti della banca d’affari statunitense JP Morgan (28 maggio 2013) che sollecita gli Stati a disfarsi delle Costituzioni adottate dopo la sconfitta del nazi-fascismo perché fondate su concezioni «socialiste […] inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea » e specie la realizzazione delle politiche di austerità considerate indispensabili per la soluzione della crisi.
Il documento evidenzia come le Costituzioni del secondo dopoguerra possiedano «limiti intrinseci» non solo di «natura economica», ma anche «politica», quali l’esistenza di «esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti», di «governi centrali deboli nei confronti delle regioni», di «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori» e di strumenti di controllo che consentono di contrastare le «proposte di modifica sgraditedello status quo».
Queste caratteristiche avrebbero impedito ai «Paesi della periferia» di realizzare pienamente le «riforme economiche e fiscali» prescritte per il ripianamento dei “debiti sovrani”, che sono stati in realtà prodotti dagli interventi pubblici di salvataggio delle banche e delle imprese responsabili della crisi.
Per queste ragioni, gli analisti della JP Morgan, ritengono che i governi debbano svolgere un ruolo di “superburocrati” finalizzato a garantire l’applicazione delle “misure di rigore” prescritte dalle istituzioni tecnocratiche sovranazionali e internazionali (BCE; FMI).
Sin dagli anni novanta del Novecento si è perseguito del resto l’obiettivo di «autonomizzare le istituzioni politiche dal terreno sociale e dai suoi conflitti», affinché potesse applicarsi, senza ostacoli, il «paradigma governamentale con tutti i suoi corollari autoritari e familistici compreso il proliferare delle logiche mafiose di appartenenza» che dominano ormai in ogni ambito istituzionale.
Si è assistito, pertanto, alla «paralisi della rappresentanza», al «congelamento della competizione politica», alla «perdita di significato delle promesse e dei programmi elettorali», all’affermarsi della logica della «condivisione e delle larghe intese» e al «predominio del governo nella sua versione tecnica ed esecutiva di volontà […] sovrastanti», ossia all’emergere di quei fenomeni sintetizzabili «nell’espressione “postdemocrazia”, che può assumersi nel significato di «divieto del discorso sui fini”».
La rimozione del discorso sui fini della forma di stato ha provocato infatti l’erosione dei fondamenti «del vivere comune», generando una fase politica «decostituzionalizzata» dominata dai «rapporti di forza» legittimati con le categorie dello «stato di necessità» e della «costituzione materiale». Ci troviamo pertanto dinanzi ad una “svolta autoritaria”, che sembra riportarci ai primordi dello stato liberale ottocentesco.
Il disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi costituisce il punto di approdo di questi processi, perché mira «a costituzionalizzare l’assetto più idoneo alla gestione oligarchica delle dinamiche economico-sociali» com’è comprovato dal fatto che «il governo […] persevera con un sovrappiù di populismo, nelle politiche pro-cicliche dei predecessori» (precarizzazione; tagli alla spesa; aumento della pressione fiscale sul lavoro), che provocano l’aumento della povertà e della disoccupazione, nonché la «disgregazione dell’apparato produttivo e del sistema formativo».
Si tratta, quindi, di una «riforma fondamentalmente conservatrice» che mira a stabilizzare la «lunga regressione che ha qualificato l’ultimo ventennio politico», contrassegnato da processi di «forte verticalizzazione del potere».
Se si vuole conseguire pertanto una consapevolezza critica sulle motivazioni reali che sorreggono la proposta di revisione avanzata dal Governo per rilanciare su tale base una «politica costituzionale» coerente con il senso e la direzione del programma di trasformazione economica e sociale recepito dall’art. 3, 2° co., C., occorre violare il «divieto del discorso sui fini» imposto dalla cultura “post-democratica” dominante e riaprire una riflessione sulle ragioni che indussero i Costituenti a superare sia il modello “autoritario” dello stato liberale, sia quello “totalitario” dello stato fascista-corporativo per fondare un modello di democrazia sociale incentrato sulla sovranità del popolo lavoratore.
La discussione su un disegno di legge costituzionale che mira a modificare radicalmente il ruolo e la struttura del Parlamento, non può pertanto essere affrontata soltanto confrontando la validità dei modelli istituzionali considerati più idonei a potenziare l’efficienza dei processi decisionali, ma richiede una riflessione sul ruolo che nella fase attuale si vuole attribuire al Parlamento della Repubblica democratica fondata sul lavoro, ossia a quell’organo costituzionale che «dopo il disastro dittatura fascista» è riuscito a conferire una nuova legittimazione allo Stato garantendo l’espressione del «confronto» e del «conflitto», considerato come il «sale della democrazia»
Nell’affrontare questa riflessione non bisogna però dimenticare che la forma di governo è posta al servizio dei fini perseguiti dalla forma di stato e che pertanto le revisioni della Seconda Parte devono potenziare e non stravolgere i Principi fondamentali e le previsioni della Prima Parte della Costituzione.
I costituzionalisti pur riconoscendo l’unitarietà dell’impianto costituzionale tendono tuttavia a non utilizzare come criterio di analisi la categoria della forma di stato, per evitare il rischio di doversi pronunciare sulla filosofia politico-sociale ad essa sottesa, travalicando così i confini del proprio ambito disciplinare.
Per salvaguardare una presunta purezza metodologica si finisce pertanto col ripiegare su una linea difensivistica che si traduce in proposte emendative, le quali finiscono però col legittimare le strategie controriformatrici che puntano a manipolare la forma di governo parlamentare per giungere a neutralizzare i principi di democrazia politica, economica e sociale posti a fondamento della Costituzione.
Un’analisi esaustiva delle proposte di revisione della forma di governo non può prescindere pertanto dalla considerazione dei principi e dei fini perseguiti dalla forma di stato e quindi dei “rapporti di classe” che condizionano il loro inveramento.
Nei Principi fondamentali i Costituenti hanno voluto sintetizzare infatti le ragioni fondative dell’impianto costituzionale, che costituiscono ancora oggi l’epicentro intorno a cui si esprimono i conflitti sociali, i quali condizionano – in senso progressivo o regressivo – le vicende dell’ordinamento.
2. Forma di stato, forma di governo e sistema elettorale nell’impianto unitario della Costituzione italiana
Nella Costituzione repubblicana forma di stato, forma di governo e sistema elettorale sono stati concepiti come parti di un disegno organico e connessi in modo tale da potenziare il processo di emancipazione sociale delineato nei Principi fondamentali e nella Prima Parte della Costituzione.
In questo contesto risulta fondamentale la previsione di una forma di governo imperniata sul primato del Parlamento, in quanto organo recettivo delle istanze espresse dal pluralismo sociale e politico organizzato nelle formazioni di base, nei sindacati e nei partiti di massa.
La centralità del parlamento presuppone tuttavia l’adozione di un sistema proporzionale “puro” idoneo a garantire la piena estrinsecazione della sovranità popolare. Non a caso il processo di erosione dei fondamenti della democrazia-sociale è stato contrassegnato da un ripetuto attacco al sistema proporzionale: dal tentativo democristiano di introdurre la “legge truffa-maggioritaria” (1953), all’adozione del Mattarellum (1993) e in seguito del Porcellum (2005), rivelatosi peggiore della stessa “legge truffa”.
Se dunque è vero che la scelta del sistema elettorale condiziona le caratteristiche della forma di Stato e della forma di governo, si possono comprendere le ragioni per cui i Costituenti hanno considerato il sistema proporzionale non come un mero meccanismo di traduzione dei voti in seggi, ma come lo strumento necessario per imprimere l’impulso al processo di trasformazione dei rapporti politici, economici e sociali nella direzione indicata dall’art. 3, 2° co., C.
Il metodo proporzionale – legittimato dall’“o.d.g. Giolitti” – fu infatti adottato per l’elezione dell’Assemblea costituente e in seguito per l’elezione del primo Parlamento repubblicano, perché venne riconosciuto come lo strumento più idoneo per collegare, in modo coerente, il suffragio elettorale al ruolo dei partiti di massa, del Parlamento e delle assemblee elettive locali in una prospettiva di collaborazione unitaria fondata sui valori e sui fini della Costituzione. Esso fu adottato in seguito per le elezioni dei Comuni, delle Province, delle Regioni, perché ritenuto conforme alla concezione di uno “stato-comunità” incentrato sul principio della “sovranità popolare”.
Il principio proporzionalistico costituisce lo strumento per realizzare in modo integrale il valore del pluralismo sociale, politico e istituzionale e rappresenta pertanto un principio “generale” espressivo dell’essenza del nostro ordinamento, come si desume dal fatto che risulta richiamato in varie disposizioni costituzionali e specie nell’art. 39 C. volto a potenziare il pluralismo sindacale.
Nel corso degli anni sessanta e settanta del Novecento, la cultura della “governabilità”, pur evocata dall’“o.d.g. Perassi”, non riuscì a radicarsi proprio a causa della spinta impressa dal sistema proporzionale al protagonismo delle forze politiche e sociali, che riuscirono a rendere il Parlamento sede di elaborazione e di approvazione di indirizzi politico-economici definiti nel quadro della “programmazione globale” dell’economia.
Solo il sistema proporzionale puro riesce infatti a dare espressione alle variegate forme della sovranità popolare anche dopo lo svolgimento delle elezioni, com’è dimostrato dal fatto che è riuscito a garantire per una lunga stagione la democraticità del sistema, nonostante gli effetti della cd. conventio ad exludendum stipulata fra le forze di maggioranza per escludere i comunisti dal governo della Repubblica.
Il sistema proporzionale puro si contrappone pertanto sia al metodo uninominale-maggioritario ad uno o due turni (usato in Gran Bretagna, negli Usa e in Francia), sia ai c.d. “modelli misti” fondati su sofisticate commistioni tra criteri maggioritari e criteri proporzionalistici che risultano tuttavia “manipolati” per rispondere alle “convenienze” dei gruppi di potere.
Se muoviamo quindi dai caratteri della forma di stato e della forma di governo delineati dalla Costituzione, non possiamo non constatare come siano da considerarsi incostituzionali in quanto lesivi dei principi della democrazia e del pluralismo, sia il c.d. “mattarellum” che prevede una ripartizione “maggioritaria” di tre quarti dei seggi conquistati con il metodo “uninominale” e una ripartizione di un quarto dei seggi conquistati con il metodo “proporzionale”, sia il c.d. “porcellum” che sortisce un esito “maggioritario” esorbitante perché prevede un “premio” idoneo a duplicare i seggi acquisiti con una vittoria di stretta misura.
Parimenti incostituzionale appare il disegno di legge in materia elettorale concordato nell’ambito del patto Renzi-Berlusconi che senza considerare le indicazioni contenute nelle motivazioni della sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale, fa rivivere le previsioni del “porcellum” sia pur aggravate dal fine di garantire gli interessi contingenti degli “stipulanti”.
La Corte costituzionale ha stabilito invece che «il principio di eguaglianza del voto» costituisce un «principio fondante della nostra Costituzione», il quale esige che nel «circuito democratico definito dalla Costituzione», l’esercizio dell’elettorato debba avvenire «in condizioni di parità, poiché ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari dignità alla formazione degli organi elettivi» (v. sent. CC. 43/1961).
Le previsioni del “porcellum” producono invece «una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica che è al centro della forma di governo parlamentare e la volontà dei cittadini espressa mediante il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare secondo l’art.1, 2° co., della Costituzione» (v. sent. CC. 1/2014).
Per la Corte la «stabilità» costituisce quindi un «obiettivo legittimo», ma non un «fondamento» dello stato democratico e non può pertanto legittimare «una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare» (v. sent. CC. 1/2014).
Se il disegno di legge in materia elettorale frutto dell’accordo Renzi-Berlusconi – che fa rivivere sia pur peggiorate le previsioni del “porcellum” – fosse approvato, si assisterebbe alla reiterazione di un «colpo di stato […] tutte le volte che il corpo elettorale sarà chiamato a votare» perché verrà «ogni volta vilipeso, truffato e ripudiato» un «principio fondante della Costituzione, dello stato di diritto, della democrazia e della civiltà giuridica», ovvero il principio di libertà e di eguaglianza del voto sancito dall’art. 48, 2° co., C.
Il disegno di legge presentato dal Governo viola infatti sia il principio della “libertà di voto” perché prevede le “liste bloccate”, sia quello di eguaglianza perché prevede un “premio di maggioranza” esorbitante che potrebbe consentire «a una lista che ha raggiunto il 30% dei voti […] di ottenere il 53% dei seggi, sottraendoli alla rappresentanza dei due terzi degli elettori». A ciò si aggiunga, la previsione di “soglie” di entità altrettanto abnorme da vanificare «i voti di milioni di elettori che non si riconoscono in nessuna delle due aggregazioni supposte maggiori».
Il “mattarellum”, il “porcellum” e il “renzusconum” si pongono quindi nel solco tracciato dalla “legge truffa” con cui le forze controinteressate all’attuazione della Costituzione tentarono già cinque anni dopo la sua entrata in vigore, di porre le premesse per un passaggio ad una “democrazia autoritaria”, definita oggi «governante» perché ritenuta capace di «tenere il passo con i nuovi ritmi e i nuovi modelli imposti dalla globalizzazione».
3. Le ambiguità e le insidie della revisione della forma di governo parlamentare
Il “potere costituentesco alla rovescia” dopo aver inferto alla forma di governo un rilevante vulnus con la revisione del Titolo V – che ha introdotto una sorta di “pseudo-federalismo” considerato prodromico ad un “presidenzialismo” (recte: premierato assoluto) respinto in seguito dal pronunciamento referendario del 2006 – continua a condurre la sua “guerra di posizione” sui due fronti della riforma elettorale e della riforma costituzionale che convergono verso il medesimo obiettivo, ossia quello di stravolgere le caratteristiche del modello costituzionale prefigurando un passaggio da «un sistema basato sulla rappresentanza e sulla centralità del Parlamento» a «un sistema basato sull’investitura del Capo politico e sulla centralità del Governo» e da «un sistema basato sulla distribuzione e l’equilibrio dei poteri ad un sistema basato sulla concentrazione dei poteri nelle mani del Capo politico», nonché «sull’indebolimento delle istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale e Magistratura)».
Il processo di controriforma è stato sostenuto da «una vera e propria offensiva culturale» che propugnando la riduzione dei “costi” e degli “sprechi” della “casta” è riuscita a porre la questione del superamento del bicameralismo paritario nei termini di una «sfida risolutiva tra conservazione e innovazione», ossia tra coloro che difendono «i privilegi e gli stipendi dei senatori» e coloro che propugnano «un Senato senza costi e senza indennità», non considerando come «in questa morsa […] rischino di essere stritolati […] gli istituti della politica e della democrazia» .
La proposta di riforma del Senato non mira infatti a introdurre un sistema “monocamerale” per rafforzare la sovranità popolare, ma ad alterare – con l’introduzione del “Senato delle autonomie” – la configurazione unificante del rapporto “sovranità-rappresentanza” delineata dall’art. 55 C. unitamente ai «delicati congegni di architettura istituzionale delineati dalla Costituzione repubblicana».
Nel discorso programmatico rivolto alle Camere il Presidente del Consiglio Letta, seguendo le sollecitazioni del Presidente della Repubblica Napolitano, sostenne che le riforme istituzionali si sarebbero dovute ispirare ai principi della «democrazia governante» ed indicò come obiettivo prioritario dell’azione di governo il superamento del bicameralismo paritario al fine di «snellire il processo decisionale», proponendo di attribuire «ad una sola Camera il compito di conferire o revocare la fiducia al Governo» e all’altra Camera (il“senato delle autonomie”) delle competenze differenziate.
La proposta di revisione avanzata dal Governo Renzi si colloca nella prospettiva delle proposte precedenti, ossia in una prospettiva di «estremismo revisionista che sfocia nell’assolutismo maggioritario», perché non svuota soltanto il potere di un ramo del Parlamento, ma distorce la rappresentanza, ponendola al servizio di un «premierato assoluto con tensione alla monocrazia».
Essa prevede il passaggio da «una Camera elettiva» ad un organo che, nella versione originaria del disegno di legge costituzionale è denominato «Senato delle Autonomie» e risulta composto «da membri di diritto, eletti di secondo grado e nominati dal Capo dello Stato» (v. art. 2 ddlc. Renzi-Boschi), mentre nella versione approvata dal Senato, viene ridenominato «Senato della Repubblica» e risulta composto da «novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali» eletti dai Consigli regionali «fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori», nonché da «cinque senatori […] nominati dal Presidente della Repubblica».
In ambedue le versioni il Senato è però escluso dal circuito fiduciario e privato comunque «di ogni rilevante ruolo costituzionale entro la complessiva forma di governo», dovendo limitarsi «a esprimere pareri sulle leggi già approvate» che possono tuttavia essere superati facilmente dalla Camera, «essendo richiesta al massimo la maggioranza assoluta, vale a dire un quorum facilmente raggiungibile», specie se dovesse essere approvata «una riforma altamente distorsiva dei risultati elettorali […] come quella in discussione al Senato», che assegnerebbe la maggioranza assoluta alla singola lista o alla coalizione di liste che è riuscita ad ottenere il premio.
Nella versione originaria della proposta di revisione si prevede che «le leggi di revisione della Costituzione e la altre leggi costituzionali» (v. art. 8 ddlc. Renzi-Boschi) restino di competenza bicamerale, mentre nella versione approvata dal Senato in prima lettura, dovrebbero rientrare nella suddetta competenza anche le «leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di referendum popolare», le «leggi che autorizzano la ratifica dei Trattati relativi […] all’Unione europea», le «leggi che danno attuazione all’art. 117, secondo comma, lett. p)» e la «legge di cui all’articolo 122, primo comma», oltre agli «altri casi previsti dalla Costituzione».
Sulla base di tali caratteristiche, si può quindi comprendere come la proposta di revisione si muova in una direzione opposta rispetto alle proposte avanzate dai Costituenti social-comunisti e rivendicate ancor oggi dal costituzionalismo democratico che puntano a rafforzare il processo di espansione della sovranità popolare non solo nei rapporti sociali ed economici ma anche in quelli politici e istituzionali.
I rappresentanti social-comunisti, ritenendo che all’unicità della sovranità dovesse corrispondere l’unicità della rappresentanza, proposero l’istituzione di una sola Camera per evitare una segmentazione del corpo elettorale sulla base di criteri che reputavano artificiosi, quali quelli della “rappresentanza degli interessi corporativi” o della “rappresentanza (diretta o indiretta) degli enti territoriali”.
Non riuscendo a superare la pregiudiziale dei bicameralisti contrari al cd. “governo di assemblea”, conseguirono tuttavia l’obiettivo di ottenere l’elezione a “suffragio diretto e universale” dei deputati e dei senatori (chiamati entrambi a “rappresentare la Nazione”) e la parificazione del ruolo delle Camere nel processo di elaborazione degli indirizzi legislativi finalizzati a rispondere alle istanze delle forme organizzate della sovranità popolare (artt. 1 e 49 C.).
Il disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi non mira a superare il bicameralismo per concentrare in una Camera sola la forza della rappresentanza, ma punta invece ad estromettere il Senato dal circuito politico-istituzionale con gli altri organi in ossequio ad un orientamento sconfitto in sede costituente propenso ad assegnargli una funzione “burocratico-corporativa”.
Lo scopo prioritario della proposta di revisione è tuttavia quello di eliminare una «istituzione rappresentativa» per sostituirla con un organo pletorico, «fragile e politicamente inutile» che sarà composto non più da «rappresentanti della Nazione», ma da «“mandatari” di enti regionali e comunali» irresponsabili nei confronti del «corpo elettorale» e quindi della sovranità popolare «dalla quale soltanto può derivare la rappresentanza politica».
Si può comprendere quindi come il bicameralismo possieda un senso solo se concepito in modo “paritario”, altrimenti in coerenza con la forma di stato recepita dalla Costituzione, si dovrebbe introdurre il sistema monocamerale come traduzione istituzionale del principio dell’unitarietà e dell’indivisibilità della sovranità popolare, respingendo di conseguenza quelle proposte di riforma ispirate ad una “governabilità” antitetica alla “rappresentatività”, che vengono non a caso rilanciate nelle fasi di crisi allo scopo di favorire restaurazioni di tipo autoritario/plebiscitario funzionali alla garanzia dei profitti e delle rendite delle imprese industriali e finanziarie.
La proposta di revisione appare diretta quindi a imprimere «al sistema nel suo complesso […] una torsione fortemente maggioritaria e centrata sull’esecutivo», sminuendo drasticamente «i poteri del Parlamento, cui lo stesso Governo dovrebbe essere sottoposto per la fiducia, il controllo e la vigilanza».
Il predominio del Governo sul Parlamento è stato sancito in modo incisivo nel sesto comma dell’art. 12 del disegno di legge costituzionale che modifica l’art. 72 della Costituzione.
La norma attribuisce infatti al Governo la possibilità (recte: il potere) di chiedere alla Camera che «un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto a votazione finale entro sessanta giorni dalla richiesta».
Risulta evidente come questa previsione che rafforza le prerogative del Governo e comprime quelle del Parlamento, incida profondamente sugli equilibri costituzionali», distorcendo gravemente la forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione.
L’attacco alla democrazia sociale trova in questa previsione il proprio compimento, perché la sanzione del primato del governo sul parlamento nel processo di elaborazione degli indirizzi politico-legislativi aggiungendosi all’introduzione del principio del pareggio di bilancio, determina la piena integrazione fra la “governabilità istituzionale” e la “stabilità economica” che ripristina il nesso di compenetrazione organica fra lo stato-apparato e gli interessi economico-finanziari, su cui si incardinava lo stato liberale e lo stato fascista-corporativo.
L’istituto del “voto a data certa” introdotto dal disegno di legge costituzionale, evoca del resto la cultura istituzionale sottesa alla previsione dell’art. 6 della Legge 24 dicembre 1925, n. 2263 che condizionava gravemente l’autonomia del Parlamento, attribuendo al Capo del Governo il potere di determinare la formazione dell’ordine del giorno delle Camere.
Per contrastare questi processi di degenerazione istituzionale che nella fase della crisi capitalistica globale, si intrecciano con profondi processi di destabilizzazione sociale, si dovrebbe riprendere un percorso di lotta sociale e politica che assuma i principi fondamentali della Costituzione come assi di un processo di democratizzazione e socializzazione dell’organizzazione pubblica e privata del potere.