Cancellare il diritto materiale degli oppressi alla rivoluzione: ecco il senso ultimo di (non)concetti come quello di totalitarismo, a proposito della indecente risoluzione del parlamento UE
di Carla Filosa
Per chi ha incontrato nella propria infanzia i fumetti dei tre porcellini (anni ’50), era consuetudine leggere ripetutamente la loro rassicurante canzoncina “chi ha paura del lupo?”, riferito a Ezechiele Lupo, il cattivo minaccioso attentatore alla vita dei porcellini perpetuamente destinato a soffrire la fame, nel finale buonista. Il potere di oggi di molti governi mondiali ha bisogno di rinnovare aggravate le vecchie paure, di fronte al rigurgito fascistoide diffuso unito al pericolo di ribellione di masse sempre più espropriate perfino dei territori su cui vivere, avendo però l’accortezza di sostituire al “lupo”- metafora, il non-concetto di “totalitarismo”.
Sotto questo ombrello infatti, oltre alla genericità sempre ambigua, si annida ancora il concetto invece di lotta di classe – sebbene mascherato – da esorcizzare definitivamente. Il riferimento qui è alla non nuova risoluzione del Parlamento Europeo del 19.09.20019, che ha approvato la “valutazione… riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista” (art.5). Questa richiede ora una riflessione meno semplicistica sull’equiparazione di nazismo e comunismo ivi di fatto contenuta, e una presa di posizione di fronte alla storia passata, ferma perché consapevole.
La domanda su “chi ha paura del totalitarismo” non solo è pertanto lecita ma soprattutto doverosa, perché riguarda la definizione e la tenuta delle nostre cosiddette democrazie, dove la virulenza dell’imperialismo mondiale viene invece sottaciuta e distolta mentre si innalzano muri e si armano guerre itineranti dall’apparenza locali. Il finale buonista, per questo imperialismo sempre più famelico, non è per niente scontato.
Accomunare comunismo e nazismo forse va fatto risalire ai tragici anni ’30 del secolo scorso, come scrive lo storico Eric J. Hobsbawm in Il secolo breve: “Si può inoltre sostenere che, senza il trionfo hitleriano in Germania, l’idea del fascismo come di un movimento universale, una sorta di equivalente di destra del comunismo internazionale avente in Berlino la sua Mosca, non si sarebbe sviluppata. Quest’idea non produsse un movimento consistente, ma diede soltanto motivazione ideologica alla schiera dei collaboratori dei tedeschi nei paesi europei sotto l’occupazione germanica”[1]. Da allora ai nostri giorni molteplici sono stati i tentativi di replicare la fantastica idea di equiparare, e cioè cancellare, l’antitesi reale, alterando con cura il diritto di primogenitura storica proprio della rivoluzione d’ottobre, quasi si fosse verificata contemporaneamente una casuale inessenziale compresenza di opposti. Il nazismo, infatti, avrebbe dovuto – successivamente e ad opera dell’imperialismo euro-atlantico – costituire l’argine armato alla estensione rivoluzionaria europea.
Ancora ai nostri giorni, purtroppo, non risulta chiaro che il fascismo, nel suo fallimento storico, non è sopravvissuto alla sconfitta, non solo bellica, dovuto alla scomparsa della crisi internazionale da cui ha avuto facile origine. In altre parole, la sconfitta bellica, politica, ideologica portata dalla crisi non è stata sufficiente a far capire – oggi – che il fascismo non era altro che uno strumento autoritario della fase storica. In seguito infatti, il fascismo non ha avuto nulla da offrire alle popolazioni sottomesse dalla guerra, quella sì totale (il massacro non ha riguardato solo i combattenti ma soprattutto la popolazione civile col proposito terroristico). Queste furono infatti costrette a pagare il sostegno alle istituzioni e alle procedure dei vincitori, da questi introdotte per esercitare un controllo imperituro a vantaggio dei propri interessi, dato che il fascismo non ebbe mai un programma o un progetto politico universale men che meno teorico.
L’analogia comunismo-nazismo, sorta come possibile libidine ideologica del liberismo, è tornata poi alla ribalta non a caso proprio negli anni ’50 (l’immediato dopoguerra da pacificare, nella esclusione di ogni conflittualità sociale proveniente dal mondo del lavoro!), per cui sarebbe interessante individuare la specifica opportunità politica che attualmente si ripropone alla sua sempreverde riesumazione. Se infatti la continua condanna del nazismo – solo dopo la sua fine, però! – ha avuto l’inestimabile merito di nascondere connivenze e simpatie non solo di USA, GB e Francia con questo regime (analogie con aggressioni coloniali e non, orrori umani imbevuti di razzismo, lager, ecc.), dietro la facciata di una “democrazia” falsata nel suo stesso uso terminologico, la esecrazione del comunismo ha richiesto un’attenzione ulteriore.
La condanna prontamente espressa ma insufficiente sul solo piano morale e religioso, da parte della Chiesa d’“Occidente”, (altra categoria, quella di occidente, coniata all’occultamento di ogni differenza economica, sociale e politica reale) doveva essere rafforzata col trasferire quel “comunismo”- preventivamente e riduttivamente incollato al regime staliniano dell’Unione sovietica, prontamente identificato con le purghe politiche, con i gulag, con i carri armati inviati in Ungheria, la cosiddetta “cortina di ferro”, ecc. – nel “totalitarismo”. Questo termine avrebbe così sintetizzato nella dittatura tout court ogni negazione di libertà individuale – l’unica che conta per i laissez faire – lasciando nell’invisibilità la sola libertà di sfruttamento garantito quale appannaggio dei capitali. I campioni diventavano così “il mondo libero” contro “le dittature”, la “democrazia” contro gli “stati totalitari”. Del comunismo come conquista possibile della gestione e del controllo razionale comune ed egualitario della vita umana e delle risorse naturali del pianeta, non se ne sarebbe più dovuto nemmeno sentir parlare.
Per questo liberismo europeo dei nostri giorni lo “spettro” comunista continua quindi ad aggirarsi minaccioso nei confronti delle stabilità politiche precarie, tanto da richiedere una revisione non più solo ideologica ma istituzionale della storia ad aiutare la manipolazione continua della realtà, data l’aggressività crescente del summenzionato imperialismo mondiale, che si alimenta solo di pauperizzazione, guerre, destabilizzazione e migrazione dell’impoverimento già realizzato, continua rapina delle risorse umane e naturali altrui, chiaramente insostenibili per la sopravvivenza riservata solo alla esigua minoranza dominante. Che i fascisti poi siano stati “i rivoluzionari della controrivoluzione… perfino nel loro deliberato adattamento di simboli e di nomi propri dei Partito nazionalsocialista dei lavoratori, nellasceltadellabandierarossamodificata e nell’istituzione immediata, avvenuta nel 1933, del Primo Maggio (che era una festa rossa per definizione) come giorno di vacanza ufficialmente riconosciuto” [2], poteva esser sottaciuto e abbandonato all’oblio rassicurante della memoria massificata.
Ma anche il comunismo doveva incontrare la sua esecrazione convincente per non esercitare un potere attrattivo per le masse da diseredare del proprio sostentamento. Accantonate le positività del regime staliniano ed esaltate le sole caratteristiche che più si sono discostate dalla realizzazione del comunismo prospettato da Lenin, dimenticata la necessaria e provvida alleanza nell’esito bellico contro la Germania hitleriana, il comunismo è stato trasformato nella propaganda dei capitali monopolistici nell’“Impero del Male”.
Creato il nemico da criminalizzare, è bastato evitare ogni distinzione tra concetto, obiettivi comunisti e indebita realizzazione storica (in un solo paese!), per definizione altra dalla sua progettazione possibile. Il connubio o parallelo tra comunismo e fascismo è stato così facilitato dal martellamento ideologico sostenuto da dollari e progresso tecnologico delle comunicazioni, immediatamente finalizzati non solo alla mistificazione storica ma anche alla falsificazione teorica. Ormai queste ultime sono diventate necessità costante di qualunque potere, la cui durata è legata alla cancellazione dei presupposti e delle finalità conflittuali delle classi antitetiche, quali figure storiche protagoniste dello sfruttamento del lavoro umano coatto. La ricchezza prodotta può così continuare ad essere in massima parte sottratta ai produttori da parte degli accaparratori, in virtù dell’arbitrio naturalizzato come legale, come capitale di nuovo pronto ad accrescersi.
Infine, la retorica di regime della “rivoluzione” fascista doveva – come anche ora quella di equidistanza tra destra e sinistra, ambedue cestinate nell’insignificanza – cancellare nelle masse il sospetto di sostenere gli interessi delle vecchie classi dirigenti. Il capitale monopolistico trovò in quel regime l’esecutore dei propri interessi, tanto quanto nel New Deal roosveltiano, nel laburismo britannico, come pure nella Repubblica di Weimar, la cui inconsistenza insieme alla Grande crisi lasciò poi le consegne al nazismo. L’attuale concentrazione e centralizzazione dei capitali è progredita ancora fino al punto di sapersi rapidamente spostare su ambigui politici destro-sinistri o sinistro-destrorsi di scarso rilievo purché proni alle esigenze della crisi attuale, banali esecutori delle holding transnazionali indifferenti ai colori delle monete nazionali, in quanto concretizzazioni materiali della forma Denaro. Come ha mostrato allora la fine dei dittatori fuori controllo – Hitler, Mussolini, Hirohito, solo deposto per mantenere l’unità nazionale giapponese – e recentemente quella di Saddam Hussein e Gheddafi, chi non risponde più alle esigenze momentanee del dominio del denaro viene abbandonato e se occorre eliminato.
Il totalitarismo è quindi la sintesi priva di significato del nostro recente passato, e per l’oggi raduna tutte le paure necessarie a realizzare l’affidamento fideistico in chi ipoteticamente rappresenta la nazione (confusa con lo Stato), al parlamento europeo, per cui l’ideologia anticomunista può essere veicolata senza tèma di incontrare contrasti. Esecrare e demonizzare il comunismo non basta mai, soprattutto nei nostri tempi in cui l’imperialismo è costretto a svelare maggiormente il suo volto criminale. L’opposizione a questa fase più avanzata del sistema di capitale diventa allora una possibilità concreta dato l’esproprio del “diritto alla vita” di vaste masse di popolazioni, “il diritto del bisogno estremo” di hegeliana memoria, che legittima il diritto materiale alla rivoluzione.
Dato che analisi storiche già effettuate non occorrono al sistema di potere che deliberatamente le ignora, è inutile ribadirne l’importanza laddove la memoria del passato è interessata solo a cancellarne il senso. Queste servono unicamente alle masse impossibilitate ad accedere ai fatti storici, perché escluse o per i limiti culturali loro imposti, per facilitare una comprensione del presente. Fondamentale a questo punto è fornire, sempre alle stesse, il significato ambiguo di “totalitario” che non sia lo spauracchio voluto dai mistificatori, né tantomeno la confusione ideologica per fini politici solo apparentemente imperscrutabili. L’analisi complessiva di questo termine e del suo uso è stata già effettuata in un libro pubblicato una decina d’anni fa dal titolo La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea [3]. A questo studio ci si rivolge qui, data la ricchezza di elementi su cui è importante riflettere e di cui non basta mai essere informati. L’occhiello con cui si inizia il capitolo riservato alla “triste storia…” del totalitarismo riporta un discorso di George W. Bush su La strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d’America: “La grande battaglia del XX secolo tra la libertà e il totalitarismo si è conclusa con una vittoria decisiva delle forze per la libertà – e un unico modello possibile per il successo di una nazione: libertà, democrazia e libera impresa”.
Il termine totalitario è stato attribuito a individui (perfino a Gramsci!) o in disparate situazioni quale insulto, rifiuto o vera e propria esecrazione, nell’indicazione del nemico messo a gogna imperitura perché contrastante gli interessi dell’ “Occidente”. L’identificazione di nazismo e stalinismo è stata costruita sulla tendenza di questi regimi al “dominio totale” sulle persone, e su quello “globale” a livello planetario [4]. L’ideologia, il “terrore” e il partito unico diventano così il modello politico di una esteriorità atta a cancellare ogni differenziazione reale, che la storia ha invece sancito come opposti. La superficiale tesi della Arendt (una prima edizione del suo Le origini del totalitarismo risale al 1951) giunse a controbilanciare la barbarie nazista con un’altra – la stalinista – catalogata come della stessa portata, ignorando così le specificità dei fatti considerati soltanto in quanto risultati, nell’evasione delle cause che li avevano generati.
Un regime politico non è che l’apparenza di un potere economico che ne plasma le caratteristiche e la funzionalità, fino a quando questa mantiene il proprio ruolo utile. A questo proposito anche gli individui sono soggetti a tale destino, ma non per la stessa autrice che travisò anche la stupefacente personalità di Eichmann ridotto alla “banalità del male”, quale assenza cioè di un pensiero consapevole in cui non emergeva invece il suo convincimento al nazismo. I gerarchi nazisti e i loro aiutanti, perduta la loro carica al servizio di profitti che si proponevano di dominare il mondo, furono abbandonati alla casualità della sconfitta che ne fece affiorare solo l’oggettività criminale delle azioni. Il nazismo non sarebbe mai sorto senza i Krupp, Siemens, I.G. Farben, Dresdner Bank, ecc., mentre l’Armata rossa di Stalin non sarebbe mai entrata a Berlino senza la rivoluzione d’Ottobre. La continuità economica già menzionata con le cosiddette democrazie occidentali, il cui razzismo si è sempre presentato come necessità coloniale, conferma il regime hitleriano quale emanazione autoritaria del capitale, contro la cui forma imperialistica l’Unione Sovietica ha invece dovuto lottare anche oltre la fine di tutte e due le guerre mondiali, sebbene in forme diverse.
Ancora Carl J. Friedrick e Zbigniew Brzezinski usarono in Dittatura totalitaria e autocrazia (1956) l’inclusione della Russia post-staliniana, della Cina comunista e di tutti i paesi dell’est europeo, come focalizzazione sul vero nemico comunista per esprimere la condanna della negazione della “libertà”. Una libertà usualmente privata d’ogni contenuto, puro suono articolato appropriato al proprio pulpito. Sebbene il “totalitarismo comunista“ dell’Urss sia crollato nell’89 insieme al muro di Berlino e senza terrore per alcuno, il termine da spendere ideologicamente persiste indelebile nell’attesa di un suo nuovo impiego a difesa del liberismo, magari sotto l’ombrello capace del post-moderno. “Sembra un giorno di festa” dirà la canzone di Cochi e Renato, “basta avere l’ombrela che ti para la testa…”.
È così che nel 2005 appare al Consiglio d’Europa una risoluzione sulla “Necessità di una condanna internazionale dei crimini del comunismo” definito “totalitario”, per richiedere infine anche “la revisione dei manuali scolastici… a tutela dei diritti dell’uomo”. Le democrazie dell’Occidente, impantanate nella crisi di sovrapproduzione ormai irresolubile, hanno cioè rispolverato i vecchi arnesi dell’irrazionalismo, del razzismo e della xenofobia per difendere i propri confini dall’ingresso di migliaia di immiseriti, proprio dalla rapina di risorse nei loro paesi ad opera del capitale. Nel 2006 il Parlamento Europeo approverà un’altra risoluzione secondo cui: “la comunità democratica deve respingere inequivocabilmente l’ideologia comunista repressiva e antidemocratica”. Sparito il regime sovietico cosiddetto comunista insieme ai suoi crimini, sparisce il referente oggettuale del totalitarismo ma non il ritorno possibile del suo spettro persistente nella dimensione immateriale dell’ideologia. Rimane – scrive Giacché – “…l’incubo del dominio totale… del potere inostacolato, della violenza selvaggia ma organizzata, del linguaggio asservito al potere che stravolge e rovescia la realtà, cancellando ogni distinzione tra vero e falso”.
Il rovesciamento del significato dei termini e dei valori, proprio dei nazisti, entra ora nel linguaggio “democratico” costituendo un muro di gomma ideologico costituito dal Male assoluto del nemico anche immateriale come il “terrorismo”, il “bipensiero” nella denominazione pacifista di azioni belliche, la “mutabilità del passato” nello sconfessare rapidamente alleanze pregresse, “immaginarie congiure mondiali” come strumento per mobilitazioni e consenso (si pensi solo alla guerra all’Iraq motivata dal possesso di “armi di distruzione di massa”!), ecc. La creazione di un mondo fittizio è oggi facilitato anche dalla tecnologia atta alla comunicazione in tempo reale, mirando ad essere capillarmente pervasivo per mantenere il controllo mondiale nell’occultamento delle proprie centrali.
Non è poi così difficile per chi ha avuto accesso all’analisi dell’imperialismo individuare nelle forme del capitale transnazionale – e non più nella forma Stato – la matrice “totalitaria”, se così più chiara appare la denominazione, che allontana da sé ogni sospetto di dominio mondiale incontrastato, indicando nel Nemico le caratteristiche da esecrare. Il capitale finanziario, già denunciato nell’analisi leniniana, le holding o corporation in continua evoluzione procedono velocemente ad incrementare lo sfruttamento del lavoro mondiale, eliminando ogni ostacolo all’esazione dei loro profitti. Chi ha paura del totalitarismo appare dunque questa classe mondiale tecnologicamente più avanzata di chi ancora aveva bisogno di lavoro forzato con i lager o i prigionieri di guerra, sostituiti adesso con una “oggettiva” precarizzazione della vita in tutto il mondo. I nuovi schiavi affrontano volontariamente il rischio della morte pur di essere sfruttati per riuscire a vivere, oppure accettano ogni condizione lavorativa pressati dal ricatto. Si veda l’aumento dei morti sul lavoro e di quelli in fuga da guerre, torture, fame e malattie! Che non abbiano a unificare le loro forze però!
20/10/2019
Note
[1] Eric J. Hobsbawm, “Il secolo breve” , 1995, Rizzoli, Milano. P. 143.
[2] Ivi, p.144, 145.
[3] Vladimiro Giacché, “La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea. Derive Approdi, Roma, 2008. P. 102 e sgg.
[4] Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Sugarco, Milano, 1985.
20/10/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.