di Felice Roberto Pizzuti
Il governo di Matteo Renzi ha deciso di applicare la sentenza della Corte Costituzione, ma dei 16 miliardi dovuti ne restituirà solo 2. Non solo: i soldi saranno presi da quanto era previsto per gli interventi contro la povertà. Il che conferma che a pagare per la redistribuzione saranno i più poveri
Il Governo ha deciso di applicare la sentenza della Corte Costituzionale al 12%. Questa infatti è, all’incirca, la percentuale del rimborso (2,180 miliardi di euro) che verrà effettuato ai pensionati rispetto a quello che sarebbe loro dovuto in base alla piena applicazione delle indicazioni della Corte (16,6 miliardi più gli interessi). Tra le righe della sentenza si possono anche individuare elementi per contenere la restituzione del mancato adeguamento all’inflazione, ma è fortemente dubbio che le sue indicazioni possano essere eluse per quasi il 90%. La restituzione parziale avverrà in misura progressiva: 750 euro per le pensioni superiori a tre volte il minimo (circa 1406 euro lordi mensili al dicembre 2011) fino a 1700 euro lordi; 450 euro per le pensioni fino a 2200 euro lordi; 278 euro per quelli fino a 3200 euro lordi. Anche per chi prenderà di più, si tratterà di un assegno una tantum (perché la questione dovrebbe essere rivista nella prossima legge di stabilità dove le pensioni saranno oggetto di altri interventi) e nettamente inferiore a quanto previsto dalla sentenza. Infatti, anche per la prima fascia d’importo, il rimborso avrebbe dovuto essere di circa 1700 euro, mentre per la fascia più alta dovrebbe essere di circa 3800.
Il Presidente Renzi ha specificato che i 2,180 miliardi necessari saranno presi da quanto era previsto per gli interventi contro la povertà il che conferma che sarà una redistribuzione ai margini della povertà. A differenza di altri paesi, dove i redditi da pensione hanno trattamenti fiscali ridotti, in Italia sono tassati con le normali aliquote, e una pensione lorda di 1406 euro diventa di circa 1200 netti. Rimane poi il fatto – da non dimenticare – che il sistema pensionistico pubblico presenta un saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali nette che è attivo dal 1998 e che nell’ultimo anno per il quale si hanno dati, il 2013, è stato pari a circa 21 miliardi di euro (cioè dieci volte quello che gli si vuole restituire per il mancato adeguamento all’inflazione). Si aggiunga che il valore medio delle pensioni è attualmente pari a circa il 45% della retribuzione media degli occupati, che tale quota è in ulteriore discesa e che nell’assetto attuale, in base alle previsioni, raggiungerà il 33% nel 2036. Dunque quando il governo stabilisce di rispettare la sentenza della Corte al 12%, e il Presidente Renzi dice che non è contento di doverlo fare, sta perseverando nella politica redistributiva decisa da tempo che esclude la possibilità di colpire altri redditi e ricchezze più elevate per fronteggiare le esigenze di bilancio.
Ma è proprio la politica di bilancio del governo l’epicentro del problema che andrebbe messo in discussione. A questo riguardo, l’aspetto significativo da considerare è che, nonostante l’emergenza finanziaria determinata dalla sentenza della Corte, il Governo non vuole superare l’obiettivo fissato al 2,6% per il deficit di bilancio, quando avrebbe margini di manovra fino al 3%. Raggiungere quel limite gli consentirebbe altri 3 miliardi di aumento di spesa senza superare il vincolo di Maastricht. Il Governo, pur trovandosi di fronte alla necessità di fronteggiare una scelta del precedente governo Monti-Fornero così iniqua da essere definita “irragionevole” dalla Corte, ci tiene ad apparire ligio ai programmi delle politiche di consolidamento fiscale che oramai lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha dovuto ammettere essere controproducenti non solo rispetto agli obiettivi della crescita, ma anche per migliorare i conti pubblici. Da questo punto di vista, l’Agenda Monti, nonostante i suoi effetti provatamente perversi, continua ad essere il sestante della nostra politica economica e sociale che si conferma essere iniqua e controproducente allo stesso tempo. Oramai non si tratta più nemmeno di essere o meno di sinistra o progressisti, ma semplicemente di uscire da una visione di politica economica e sociale conformista i cui effetti fallimentari sono generalmente riconosciuti. Se le politiche comunitarie stanno insistendo nel portarle avanti, e i nostri governanti le accettano supini, è perché è in corso il braccio di ferro sulla “questione greca”. Si tratta di un confronto dimostrativo che non risponde a nessun criterio di razionalità economica e che – oltre pregiudicare le condizioni sociali ed economiche della Grecia – sta mettendo a rischio la costruzione europea. Quella in atto è una politica pericolosamente miope che risponde ad idiosincrasie nazionali e alla necessità di dare soddisfazione agli interessi rappresentati da tutti i governi di centro-destra europei, in particolare da quelli dei paesi della “periferia” dell’Unione che quelle regole sbagliate le hanno accettate e adesso non tollererebbero – per questioni elettorali – di dover ammettere che è stato un errore.