Si continua a spaventare le persone con il ricatto pensionistico e tutte le forze politiche, come potrete leggere nel post sottostante, non vogliono dire esattamente le cose come stanno perché sono in combutta con i poteri forti che vogliono aumentare il disagio sociale arricchendosi sulle spalle dei soliti noti. Sostenevamo in un post precedente che l’aspetto
“che continua ad essere poco percepito è che l’assetto del sistema pensionistico rileva non solo rispetto all’efficacia e all’efficienza della sua funzione primaria di trasferire reddito corrente dagli attivi agli anziani. Il funzionamento della previdenza si incrocia con altre importanti questioni. Tra queste c’è lo squilibrio del nostro complessivo bilancio pubblico; tuttavia, il nostro sistema pensionistico da molti anni non ha più problemi di sostenibilità finanziaria; sono state sufficienti le riforme del 1992 (governo Amato) e del 1995 (governo Dini) per riportare in attivo, già nel 1996, il saldo annuale tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali, il cui valore è arrivato a superare il 2% del Pil (nel 2008) e attualmente è intorno ai 20 miliardi di euro. Ciò nonostante, le riforme che si sono succedute fino ai giorni nostri hanno continuato ad usare il sistema pensionistico pubblico come un bancomat per prelievi a favore del complessivo bilancio pubblico.
Nel frattempo si è accentuato l’invecchiamento demografico e si è ridotta la crescita economica, circostanze che aumentano l’onerosità del trasferimento intergenerazionale; ma le riforme previdenziali ne hanno tenuto così conto che il rapporto tra la spesa pensionistica e il Pil è previsto in calo per i prossimi decenni e il rapporto tra i valori medi delle pensioni e dei salari è previsto in diminuzione dal 45% attuale al 33% nel 2036. Dunque la scelta politico-sociale è stata e continua ad essere quella di fronteggiare le negative tendenze demografiche ed economiche, operando una redistribuzione sfavorevole alla parte di popolazione coinvolta nel sistema pensionistico, cioè i lavoratori.
Attenti ai pifferai che propongono in campagne elettorali soluzioni pasticciate che arrivano tutte ( nessuno escluso) alle stesse identiche demenziali conclusioni: 41 anni di lavoro…
MOWA
Pensioni: Salvini e Di Maio per “quota 41″, ma a far danni è stata riforma Sacconi non Fornero
ROMA (WSI) – Terreno di scontro la riforma previdenziale che diventa inevitabilmente cavallo di battaglia dei partiti impegnati in campagna elettorale.
La riforma Fornero, varata sotto il governo tecnico guidato dal professor Mario Monti a fine 2011, è da sempre osteggiata da Matteo Salvini della Lega Nord. In un’intervista a Raio Rai1 il leader del Carroccio afferma:
“La legge Fornero è la prima battaglia che ho iniziato, 4 anni fa. Berlusconi mi ha detto: ‘cancelleremo le parti negative’ e gli ho risposto ‘Perché? Ce ne sono di positive Non scherziamo: stanno lavorando in questi minuti per scrivere una cosa messa bene, se ci sono altri Berlusconi che vogliono lavorare fino a 91 anni, va bene, ma tu dopo 41 anni di lavoro hai maturato il sacrosanto diritto di riavere i tuoi soldi. A chi dice non ci sono le coperture, rispondo che sono soldi dagli italiani. Quegli ipotetici 20 miliardi di costo, significano consumi, acquisti, spese e tasse che i pensionati mettono in circolo. La legge Fornero è sbagliata e va cancellata, assolutamente”.
La ricetta che presenta Salvini sulle pensioni è la quota 100 o 41, ossia i lavoratori potranno andare in pensione con 41 anni di versamenti oppure con quota 100, sommando l‘età anagrafica e i contributi. Lo ha detto il parlamentare leghista Massimiliano Fedriga parlando ad Agorà su Rai3.
“La nostra proposta per la riforma pensioni prevede la quota 100 e la quota 41. Quota 100 vuol dire che la somma dell’età anagrafica e contributiva è uguale a 100 e quindi si può accedere ai benefici previdenziali. Quota 41 non fa riferimento all’età anagrafica ma esclusivamente ai 41 anni contributivi previsti per prendere benefici previdenziali”.
Prima della Lega Nord però anche il Movimento Cinque Stelle aveva proposto la quota 41.
“Noi presto presenteremo il nostro programma che si chiama quota 41, si basa su un concetto che tu dopo 41 anni di lavoro devi andare in pensione senza che ci sia il legame tra tempo di lavoro e età pensionabile”. Così si è espresso il candidato premier pentastellato alle prossime elezioni politiche Luigi Di Maio qualche giorno fa.
In realtà la riforma previdenziale dell’ex ministro del lavoro Elsa Fornero non pare aver fatto più danni (per chi lavora, non certo per i conti pubblici) di quanti ne fece la riforma Sacconi sotto il governo Berlusconi, la quale ha provocato l’allungamento maggiore dell’età di pensionamento, soprattutto con l’introduzione dell’adeguamento automatico all’aspettativa di vita.
Dal 1992, le riforme delle pensioni sono state 8 (Amato, 1992; Dini, 1995; Prodi, 1997; Berlusconi/Maroni, 2004; Prodi/Damiano, 2007; Berlusconi/Sacconi, 2010; Berlusconi/Sacconi, 2011; Monti-Fornero, 2011). Le riforme Sacconi (2010 e 2011, oltre a Damiano, 2007) sono molto più corpose, immediate e recessive di quella Fornero e hanno introdotto una finestra di 12 mesi per tutti i lavoratori dipendenti pubblici e privati o 18 mesi per tutti quelli autonomi, nonché l’allungamento, senza gradualità, di 5 anni (+ “finestra”) dell’età di pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti pubbliche per equipararle a tutti gli altri a 65 anni (più finestra), tranne le lavoratrici private e l’adeguamento triennale all’aspettativa di vita. Una riforma più drastica quella di Sacconi che all’epoca proprio la Lega Nord, che da tempo grida alla cancellazione della Fornero, votò.
12 gennaio 2018