di Davide de Bari
Seconda udienza per l’ex boss di Altofonte al processo Messina Denaro
“Vincenzo Milazzo? Fu ucciso perché era contrario a tutti quegli omicidi che si stavano consumando nel trapanese e poi non voleva le stragi”. A parlare dell’omicidio del capomafia di Alcamo, assassinato il 14 luglio del 1992, è il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, ex boss di Altofonte, nuovamente sentito davanti la Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, nel processo sulle stragi del 1992 in cui è imputato la primula rossa di Cosa nostra Matteo Messina Denaro.
La scorsa udienza argomento principale erano stati i suoi rapporti con gli apparati dei servizi segreti. Stavolta, invece, le domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci si sono concentrate maggiormente sul fronte trapanese.
Di Carlo avrebbe appreso le informazioni, nonostante fosse detenuto nel carcere di Londra, direttamente dal cugino, Nino Gioè, cui comunicava: “Negli ultimi tempi, prima che diventasse latitante, ho sentito mio cugino che mi disse che avevano eseguito la morte di Milazzo e poi della sua fidanzata”. Infatti, l’omicidio di Milazzo verrà poi seguito, pochi giorni dopo, da quello della compagna, Antonella Bonomo, incinta di pochi mesi. “Mio cugino mi disse: ‘facendo queste cose, mi stanno facendo diventare un mostro’. – ha raccontato in aula il pentito – Venni a sapere dopo che erano amici e si conoscevano con la moglie di Nino Gioè. Ed era un po’ scosso di dover commettere questi omicidi sia di Milazzo e della fidanzata quando l’hanno strangolata”. Secondo l’ex boss di Altofonte in quel periodo nessuno poteva contrapporsi al volere del capo dei capi Totò Riina: “In quel periodo bastava una parola fuori posto, vista la mentalità di Riina e suo cognato Bagarella, per diventare dei nemici”.
In un altro passaggio, quando il pm Paci ha chiesto al collaboratore se Gioè avesse aderito alle stragi, Di Carlo ha risposto: “Certo che ha aderito, tutti lo avevano fatto. Non si poteva dire di no a Riina perché sarebbero morti. L’unico sono stato io che nei tempi passati dissi a Riina che stavano andando a battere la testa e non ci si sarebbe salvati. – ha continuato – Dopo l’omicidio di Bontade, che mi ero salvato, dissi a Riina che così stava distruggendo Cosa nostra. Lui vedeva sempre traditori in Cosa nostra, perché aveva paura e chi non era vicino a lui lo uccideva”.
Altro tema affrontato quello degli incontri tra Nino Gioè e l’ex estremista di destra Paolo Bellini, inerente a una trattativa che vedeva sul piatto il recupero di opere d’arte trafugate. “Gioè – ha spiegato Di Carlo – per quanto riguarda le opere d’arte aveva i contatti con Bellini, ma io gli ho detto solo una volta che doveva stare attento perché questo era uno che era stato in carcere con lui e aveva rapporti con i carabinieri e poteva fare il doppio gioco”.
Nel corso della deposizione, Di Carlo ha anche parlato brevemente dei rapporti che sarebbero intercorsi tra la famiglia dei Madonia e apparati dei servizi di sicurezza: “Ricordo che avevano avuto rapporti quando ci fu l’attentato di capodanno o natale negli anni ’70. Comunque i rapporti ci sono sempre stati sia con la politica che con i servizi quando dovevano fare delle pressioni o azioni. Come quando dovevano approvare una legge. Si rivolgevano sempre a Cosa nostra per fare questo attentato e creare tensione. – ha concluso – In quel periodo c’era la P2 che pressava e i maggiori iscritti erano militari”.
L’udienza è poi proseguita con l’esame del luogotenente della Dia Giandomenico Fenu. La Corte ha inoltre accolto la richiesta del pm di sentire i collaboratori di giustizia Giuseppe Di Giacomo e Pino Lipari. Il processo riprenderà il prossimo 12 febbraio.
31 Gennaio 2020