di Angelo Ruggeri (1)
Il referendum come ogni strumento istituzionale non è neutro: un conto sono i referendum dall’alto anche quando mascherati come popolari ma sono promossi dai vertici e dagli apparati di partito o di stato e da lobbies, un’altra cosa sono quelli promossi dal basso.
Non e’ democrazia diretta del popolo se lascia intatte le forme di stato e di governo autoritarie che esercitano un potere dall’alto sul parlamento e sul popolo.
Si tratta di rovesciare l’idea dominante anche nella cultura democratica e di sinistra – anche di “iper” sinistra – che la direzione dello Stato spetti, comunque, in ogni tipo di Stato e di regime politico-istituzionale, al potere esecutivo. per questo occorre sottoporre a referendum di tipo deliberativo gli atti del governo.
I modo con cui si susseguono le manifestazioni più varie della crisi sociale, in un rincorrersi ormai irrefrenabile tra fenomeno di degrado e lacerazione indotti dall’industrialismo e dai tentativi arroganti e patetici di porvi rimedio da parte di governi e apparati ostentatamente lontani dalla società, ripropongono con urgenza vieppiù drammatica problemi di intervento sociale, armato di potere reale, che comportano riflessioni teoriche di tipo nuovo nella prospettiva ormai chiaramente aperta dell’insufficienza, oltre che dell’estraneità dei governi, verso i valori della convivenza civile.
Il dibattito avviato su queste pagine da Vladimiro Scatturin intorno alle questioni istituzionali e sui rapporti tra democrazia e nucleare, documenta ampiamente una situazione contrassegnata da un avanzamento – venti anni fa imprevedibile – della cultura di massa e degli scienziati delle “due” culture, così che oggi può essere indifferentemente un fisico, un chimico, un medico, un ingegnere in grado di proporre trasformazioni, anche puntuali, del sistema di potere. Si vede inoltre un attardarsi degli scienziati sociali nonché dei filosofi, su schemi vecchi riguardanti le teorie sociali e le forme concrete dell’organizzazione richieste dalla società di oggi e dai drammi sconvolgenti che la percorrono così rapidamente
Si rende pertanto indispensabile l’approfondimento di una discussione che, partendo dalle connessioni tra valori sociali, sviluppo produttivo, salvaguardia dell’ambiente e del territorio, individui le responsabilità oltre che dei gruppi di potere monopolistico e della scienza legata ai problemi della rivoluzione tecnologica anche della filosofia e delle scienze sociali, il cui ruolo determinante si manifesta, infatti, in quelli che, con acuta formula allusiva si sono chiamati gli “apparati ideologici di Stato”, capaci di condizionare dalla cultura l’esercizio del potere, contrastando il dominio dall’alto non solo nelle organizzazioni autoritarie di stampo conservatore e reazionario, ma anche nelle organizzazioni di democrazia “formale”.
Al punto in cui sono giunte le cose, e proprio perché si tende ad affermare, sia pure con una studiata genericità, che non “tiene” più nessun modello istituzionale, occorre riconoscere che la situazione richiede un tipo di impegno teorico, rivolto a individuare il senso di un orientamento incline a spostare l’asse del potere verso la società civile, per fare sempre più coincidere società civile e società politica, dando alfine atto che tutte le forme organizzate di potere – in qualunque emisfero e qualunque tradizione sociale rifletta – presentano in forma diversa un’identica inidoneità a governare, proprio perché il governare è ovunque inteso come funzione sostitutiva di pochi a molti, come restringimento anziché allargamento della società, come arroccamento di grandi centrali di potere “dietro” le forme apparenti della democrazia.
Il fatto che il mondo sia segnato da in bipolarismo che governa con il terrore nucleare, e che i protagonisti del bipolarismo, da una parte, in nome della democrazia sostanziale non abbiano edificato una democrazia formale e, dall’altra parte, in nome della democrazia formaleabbiano edificato un sistema che ha solo l’apparenza della democrazia e formale e sostanziale, comporta una ricerca, che partendo dai dati della contraddizione alimentata dall’affermarsi in concreto di strumenti di “democrazia diretta” come quelli referendari, risalga sino alla individuazione degli elementi teorici che contestino gli ascendenti ideologici dell’attuale situazione, allo scopo di dare alla crisi un orientamento capace di pervenire a un nuovo tipo di sintesi.
Si tratta in concreto di domandarsi come le tendenze referendarie si sono lentamente ma decisamente fatte strada, in un tipo di situazione sociale diversa da quella che aveva caratterizzato la previsione del referendum in Paesi come la repubblica elvetica, tenuto conto che anche il referendum, come ogni strumento istituzionale, non è neutro, e che perciò altro è il referendum di iniziativa presidenziale e governativa, altro il referendum di iniziativa popolare; nel senso cioè che senza una valutazione del tipo di forma di stato e di forma di governo nel cui ambito sia previsto lo strumento, non è possibile dare spiegazione coerente a quella che si chiama un po’ affrettatamente ”democrazia diretta”.
Ma se è decisivo tenere conto del sistema di governo cui il referendum inerisce, mentre è pseudo-democratico il referendum che con iniziativa dall’alto consolida il primato dell’esecutivo, si tratta di vedere come il referendum promovibile dal basso, si rapporti con una prospettiva di democrazia diretta, che in quanto tale è incompatibile con l’ideologia della “governabilità”, che è il punto teorico di omologazione di tutte le forme storiche di organizzazione del potere, comprese quella di democrazia “formale”.
Esso non può essere facilmente assimilato a livello di massa – però – se non spiega che nell’ideologia giuridica dominante, la forma di governo riguarda solo i luoghi del potere centrale e, quindi, essenzialmente i rapporti tra governo e parlamento e non anche le forme del potere decentrato e locale. Sicché per tale via, si finisce per occultare un’operazione ideologica che accomuna le assemblee parlamentari – ma anche quelle regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali -, in una istituzionale subalternità ai rispettivi esecutivi, governo e giunte, ma sottacendo quel dato teorico che, in concreto, manifesta i suoi effetti pii devastanti proprio al livello territoriale, in cui sarebbe possibile conferire un effettivo primato istituzionale alle assemblee elettive, e dove quindi la contraddizione è più acuta tra domanda sociale e disponibilità delle istituzioni.
Ora, l’idea dominante che perviene alla conseguenza di fare dei governi, degli esecutivi, delle variabili indipendenti dalla società, finendo per omologare nei momenti di crisi o di emergenza, i regimi di tipo autoritario e reazionario con i regimi di tipo democratico, è quella secondo cui il nucleo di fondo del potere di governare, come potere di “direzione” o di determinare “l’indirizzo politico”, è il potere di “iniziativa”, termine con il quale si intende legittimare o l’esclusiva nei regimi autoritari) o la preminenza relativa o assoluta (nei regimi di democrazia formale) del potere governativo. Tanto che non si esita ad affermare addirittura che il potere di indirizzo politico si riassume nel potere di direzione e di iniziativa dell’esecutivo. Ma se in base a tale assunto ideologico, che trascende le stesse forme differenziali delle forme di Stato e di governo, si arriva a mistificare con tanta grossolanità la cosiddetta teoria della “divisione dei poteri”, perché il potere “esecutivo” in verità è il potere “dominante” delle istituzioni statali di qualunque forma di governo – presidenziale o parlamentare, pluripartitico, bipartitico o a partito unico -, si comprenderà meglio come occorra affiancare l’analisi della forme di governo parlamentare, in cui si possono annidare gli equivoci più stravolgenti a cominciare da quelli concernenti il tipo di “rappresentatività” realizzata con la legge elettorale (proporzionale o maggioritaria). Ed è proprio con riferimento a tale questione che, in Italia, l’affermazione dell’istituto referendario ha acquistato un senso meritevole di grande attenzione, se si vuole che se ne traggano lezioni positive non tanto per il destino del referendum in se stesso considerato, quanto piuttosto per la costruzione di una forma di governo che faccia della sovranità popolare l’effettivo baricentro del rapporti tra società e istituzioni.
Va cioè considerato che il referendum è stato introdotto nel nostro sistema istituzionale, nella stessa fase di sviluppo sociale e democratico nella quale sono state istituite concretamente le Regioni a statuto ordinario – facendo prendere corpo effettivo alla riforma “politica” dello Stato – e con la riforma dei regolamenti parlamentari si e avviata un’esperienza di “centralità” del parlamento, superando i principi che regolavano, dal l922, il sistema parlamentare proprio dello Stato “liberale” e non, come quello odierno, “democratico-sociale”. Dato che la natura specifica del referendum previsto dalla Costituzione è, al tempo stesso, di iniziativa popolare quanto alla legittimazione e di natura abrogativa quanto all’efficacia, ne è derivato che dopo un avvio di tipo contraddittorio – nel senso che, come per il divorzio, risultava coerente con iprincipi una vittoria dei “no” contro le iniziative per abrogare importanti istituti conquistati con le lotte sociali tramite il ruolo preminente del parlamento sul governo -, ora siamo pervenuti ad una fase nella quale si tende a far prevalere sotto il segno dei “sì”, proposte di iniziativa popolare rivolte a spianare la strada legislativa nella quale di recente – si veda il caso particolare del nucleare – si sono sparse norme che rendono subalterno tutto l’assetto istituzionale, centrale e decentrato, a scelte governative che mettono in pericolo il rapporto tra sviluppo, energia e ambiente.
Ora – come Scatturin ha sottolineato richiamando i primi accenni alle questioni generali che i referendum sul nucleare sollecitano nelle masse dei cittadini e dei lavoratori -, deve penetrare più profondamente la consapevolezza che coi referendum nucleari, si sono colti problemi la cui essenzialità si connette al nucleare, ma riguarda in verità la concezione stessa del potere e quindi dei rapporto tra Stato e diritto, tra potere popolare e potere istituzionale dello Stato. Sicché occorre evitare che l’auspicata vittoria dei “si” venga riassorbita immediatamente dal potere dominante, che si riassume nel connubio tra potere degli esecutivi di governo e degli enti pubblici nazionali, avendo una precisa consapevolezza dei limiti invalicabili di un referendum inteso solo come “contropotere”, come aggiunta estrinseca di uno strumento di democrazia “diretta” alla prevalente democrazia “delegata”, per operare quindi un’ulteriore salto qualitativo dilatando il potere che è inerente al potere di iniziativa referendaria popolare.
Precisamente, si tratta di rovesciare l’idea dominante anche nella cultura democratica e di sinistra – anche di “iper” sinistra – che la direzione dello Stato spetti, comunque, in ogni tipo di Stato e di regime politico-istituzionale, al potere esecutivo. Potere esecutivo che, oltretutto, ha escogitato strumenti sempre pii sofisticati di governo dall’alto, mediante il trasferimento illegittimo del potere di governo a “consigli di gabinetto”, a “comitati interministeriali” irresponsabili verso il parlamento; mediante l’esclusione del primato della legge con l’espediente della “delegificazione”; mediante il rafforzamento del primato governativo ormai incontrollatamente scatenato con i decreti legge e così consolidando il primato dell’iniziativa legislativa governativa a danno di quella parlamentare, occultata anche mediante l’approvazione delle leggi non più prevalentemente inassemblea ma nel chiuso delle commissioni parlamentari. Battiamoci quindi, impostando un organico collegamento tra le iniziative referendarie e lo sviluppo di una nuova teoria del potere, che tolga progressivamente il potere di iniziativa legislativa agli esecutivi, assegnandola al popolo in raccordo e non isolatamente dalle forze politiche rappresentate nelle assemblee elettive locali regionali e parlamentari; liberando a loro volta queste dalla loro attuale subalternità istituzionale.
Referendum, potere e sistema democratico
di Salvatore d’Albergo (2)
In quanto servizio intermedio della economia, obbliga a parlare dell’uso dell’energia nella produzione, così che una nuova pianificazione energetica richiede non solo un ruolo di quelli che vengono chiamati i “nuovi soggetti”, ma in primo luogo della classe operaia, in quanto soggetto principale e indispensabile per realizzare il controllo sociale degli investimenti e delle tecnologie e per “come” e “cosa” produrre.
Ogni specioso interclassismo dei cosiddetti nuovi movimenti restringe anziché allargare il movimento di chi lotta per obbiettivi tra loro collegati come il controllo operaio della produzione e la natura, impedendo di rapportarsi in modo scientifico all’ambiente come luogo di produzione e di vita.
Comitati interministeriali segreti e Enti pubblici sono un nuovo e vero potere sottratto alla sovranità del Parlamento e del popolo. per essere strumento democratico ogni referendum deve mirare a togliere potere al governo e a restituirlo al parlamento e collegarsi alla democrazia diretta della democrazia di base organizzata a livello sociale e istituzionale.
La crescita culturale e politica dell’iniziativa sul nucleare si è manifestata a partire dall’esperienza dei movimenti per la pace. Gli eventi del nucleare “civile” sollecitano e richiedono ulteriormente che si percorra come faceva Scatturin – l’intero significato che la questione nucleare ha per l’energia e per l’ambiente e di come queste ultime si collocano nel carattere del regime sociale, economico e politico e, dunque, del sistema di potere.
L’energia come servizio intermedio, tesi che sostengono a ragione gli ambientalisti, obbliga a parlare dell’uso dell’energia nella produzione e fuori dalla produzione, così che una nuova pianificazione energetica richiede non solo un ruolo di quelli che vengono chiamati i “nuovi soggetti”, ma della classe operaia che è stata antesignana delle lotte per l’ambiente e la qualità del lavoro e della vita quando si è battuta per la prevenzione dalle cause ambientali della malattia e delle lotte per il controllo sociale degli investimenti e delle tecnologie e per “come” e “cosa” produrre. Tutto questo è da ricordare, sia per non confondere la responsabilità della classe operaia con quella dei suoi dirigenti, sia per favorire l’allargamento del movimento di chi lotta per obiettivi collegati, senza quegli speciosi interclassismi che impedirebbero di rapportarsi in modo scientifico all’ambiente come luogo di vita e di produzione.
Va considerato che un “servizio” come l’energia, obbliga a valutare ciò che è accaduto nell’ambito generale dell’economia e dello sviluppo rispetto a cui l’energia è “intermedio”. È quanto è avvenuto nell’economia, con conseguenze su energia, ambiente, ricerca scientifica e tecnologia, è che non c’è stata una programmazione e un governo democratico, ma è anzi avvenuto il contrario: libertà del mercato e investimenti economici e sociali che privilegiano “economicità” e “produttività a scapito della socialità delle funzioni economiche e imprenditoriali (occupazione, salute, ambiente, modelli di vita e di consumo, ecc.)
Da qui il succedersi, prima e dopo Cernobyl, di numerosi gravi episodi non sempre occultabili, che da Seveso all’atrazina, fino all’incredibile inquinamento atmosferico rilevato nella provincia di Varese e altre, hanno prodotto danni visibili e non visibili alla natura e all’umanità. Ora, dal momento, che ad Est come ad Ovest, la logica economica del capitale, privato o di Stato, non può avere riguardo per la salute e per la vita delle persone e dell’ambiente “quando non sia costretto a tali riguardi dalla società”, è urgente che il popolo riassuma interamente il potere democratico che, almeno in Italia, legittimamente gli appartiene Che gli appartiene, ma che risulta ad esso materialmente sottratto dalla “governabilità” esercitata dagli esecutivi e dai loro apparati non responsabili (Comitati interministeriali, ecc.) e dagli Enti, che negli anni di lotta per la riforma dello Stato, si definivano “inutili” (inutili per la democrazia).
Oggi si deve invece riconoscere che sempre più il “governo” vero non è più solo il “governo” ma sono gli Enti, che fanno dei vari Corbellini, Viezzoli, Colombo, Prodi ecc., i veri ministri, ma assolutamente inafferrabili e di cui neanche o a malapena il nome si conosce. Sono la vera nuova forma del potere reale, sia a livello nazionale sia locale, perché sono quelli che hanno il “potere di proposta” e di “iniziativa” che – come dice Salvatore d’AIbergo in queste pagine – è ciò che definisce chi comanda veramente, più della titolarità formale della decisione. Quando loro dicono: va bene il pec , o il Superphenix, che il nucleare non è rischioso e che i consumi crescono e bisogna soddisfarli con il nucleare, esercitano un “potere di direzione” e danno l’“indirizzo politico” al governo e al Parlamento. In questo modo si determina uno snaturamento generale degli assetti di potere che alimenta il consolidamento di centrali di potere occulto sulle assemblee elettive e sui partiti, tramite personaggi dei partiti che di quegli Enti fanno parte e da essi dipendono. Da qui leggi e decisioni votare con grande unanimità e celerità in Parlamento, come pure nei Consigli Comunali.
Per ricostituire un circuito corretto di rapporti con le forze politiche e obbligare i governi presenti o a venire o a mettersi al passo con la domanda sociale di uno sviluppo in cui risorse e conoscenze siano al servizio dei cittadini-lavoratori, bisogna allora collegare l’istituto del referendum deliberativo a una nuova forma di democrazia organizzata. Infatti il referendum “toglie”, esprime una volontà collettiva volta a imporre e non già a delegare (come accadrebbe con il referendum consultivo in cui i potere di proposta, oltreché quello di decisione, non sarebbe, del popolo ma del governo), che per concretarsi ha poi bisogno di un’organizzazione del potere dal basso, perché occorre un controllo sociale sull’importante dopo referendum. E per avere un esecutivo di gestione effettivamente dipendente dalla comunità occorre un potere diffuso che dalla società si eserciti – come nell’idea della Costituente – attraverso le forme istituzionali del potere democratico espresso con le assemblee elettive locali, regionali e parlamentari oltre che con referendum di iniziativa popolare.
La questione dell’energia è dunque tale da sollecitare la ripresa della riforma democratica dello Stato, interrotta dopo la riforma sanitaria, perché porta direttamente al cuore della questione democratica del chi comanda oltre che del chi decide. La sovranità popolare non è per ciò una questione astratta, ma si traduce nella modifica di tutte quelle leggi che dall’Enea all’IRI, danno agli Enti pubblici un potere autonomo e superiore a quello dello Stato di cui sono parte. Si tratta di riportare ad effettiva direzione democratica quegli Enti che falsificano i dati e che sanno quello che né la gente, né il Parlamento, riescono a sapere; che occultano l’inquinamento nucleare; che si rifanno a all’economicità privata (il profitto), anziché all’economicità pubblica (interesse generale); che finanziano i partiti e le campagne contro i portuali con i “fondi neri”. Sono quelli che a Napoli si consorziano con la camorra, o che con le Municipalizzate che non sono riuscite a risolvere nemmeno la questione “Nettezza Urbana” ma che permettono al Comune di rispondere al cittadino che gli si rivolge per soddisfare un bisogno, che l’ente locale non può fare niente perché non c’entra con la Municipalizzata. Sono Enti e aziende considerati equivalenti ad apparati privati, anche quando hanno la forma della SpA, che rispondono a tutti gli interessi meno che a quelli sociali e pubblici delle comunità locali o nazionali.
Democratizzare la gestione degli Enti non può perciò significare la loro sostituzione con Municipalizzate che risultano ugualmente separate dai poteri elettivi, dal territorio e dalle popolazioni – Il bisogno che si esprime a partire dal nucleare e dall’energia è un bisogno di democrazia diffusa, non di imprenditorialità diffusa. È bisogno di un potere alternativo e diretto da parte di chi vive sul territorio, che può realizzarsi anche con “imprenditorialità diffusa”, purché sia effettivamente pubblica in cui attraverso le forme democratiche di collegamento istituzionale, il cittadino-lavoratore sia riconosciuto come l’“azionista” e in cui all’azienda non sia consentita nessuna autonomia dalla comunità e dalle assemblee elettive.
Si tratta di un impegno aspro che richiede una cultura di massa completamente rinnovata, capace di partire dai problemi sociali vissuti sul territorio, per sconfiggere la collusioneteorica che c’è attualmente tra teoria economica dell’efficienza, della produttività e del profitto e teoria giuridica dell’impresa che teorizza l’autonomia della SpA e del suo equivalente Ente o azienda pubblica, Un impegno reso più difficile, non solo per il conservatorismo delle forze dominanti, ma anche per il moderatismo, le ambiguità, gli equivoci, gli sbandamenti e gli opportunismi di quanti, in seno al movimento democratico, sulla base di un certo “craxismo istituzionale”, mirano più a dirigere che a potenziare i movimenti di massa, rilegittimando come prima dello stato democratico, su basi ideologiche e formali diverse, il potere dall’alto e la sostanziale esclusione del popolo dall’esercizio effettivo del potere, assegnando alla politica la funzione della “governabilità”, come espressione dell’organizzazione centralistica e verticistica del potere, come “decisione” non espressione dalla volontà collettiva ma di pochi, come pilotamento dall’alto e “comando” forte e autoritario sulla società, che si vuole “medioevalmente” prona e dipendente, anziché democraticamente sovrana e autonoma.
[1] SE Scienza Esperienza, Settembre 1987
[2] SE Scienza Esperienza, Settembre 1987