Fabrizio Casari
Venezuela, Cuba, Nicaragua, Messico. I paesi progressisti o socialisti dell’America Latina, sono vittime di una guerra ibrida decisa dagli Stati Uniti, condotta con sanzioni, minacce, aggressioni mediatiche e politiche, blocchi economici e colpi di Stato con il sostegno aperto degli organismi multilaterali. Le motivazioni sono ideologiche, economiche, politiche. Affermare che “gli Stati Uniti non possono tollerare che in America Latina vi siano sistemi politici incompatibili con i suoi standard di libertà” è una dichiarazione di guerra ideologica, che conferma quella economica e indica la possibilità di passaggio a quella militare. Dichiarare il Nicaragua “inusuale e grave minaccia alla sicurezza nazionale USA”, oltre che una affermazione ridicola da ogni punto di vista, è un artificio politico per aggredire il governo sandinista. E’ la sicurezza nazionale del Nicaragua ad essere minacciata dagli USA, non viceversa.
Dire che il Venezuela “sostiene la sovversione in altri paesi”, serve a coprire come siano proprio gli USA a tramare contro la stabilità del Venezuela; avverte come il continuo fallimento di ogni opzione golpista non possa essere inteso come una resa definitiva e che l’opzione militare resta sul tavolo.
Minacciare il Messico di intervento militare con la scusa dei narcos (che prosperano però in Colombia, dove gli USA sono i padroni di casa e dispongono di 7 basi militari) è solo dare un monito a Lopez Obrador che punta alla sovranità del Paese. Ma forse più che il narcotraffico pesa la recente scoperta di giacimenti petroliferi straordinari in territorio messicano; com’è noto, la parola “democrazia” per gli USA si declina sempre in rapporto all’indice Brent.
Definire Cuba “regime autoritario”, serve a coprire 60 anni di figuracce e crimini contro l’isola, di anacronistica aggressione e di impotenza. L’idea che il contesto regionale possa determinare una crisi politico-militare nell’isola, è sintomo chiaro di come l’approccio statunitense verso Cuba sia difficile da leggere con le categorie della politica.
L’operazione di riconquista statunitense del subcontinente si caratterizza con il ritorno della strategia golpista che ripropone il modello di protettorato militare degli anni ’70, chiude alla democrazia e riafferma, senza alcun ritegno, la vigenza della Dottrina Monroe quale bussola per la relazione tra Washington e il continente latinoamericano.
Ma non c’è solo furore ideologico: il controllo politico-militare del subcontinente è anche disegno economico e strumento di politica interna. Un’America Latina in povertà e sottosviluppo è interesse della superpotenza dominante; solo in una relazione diseguale con il resto del continente, infatti, gli Stati Uniti trovano le migliori condizioni per impadronirsi di tutto ciò che l’America Latina produce e gli Stati Uniti consumano. Il modello di relazione commerciale segue quello politico: globalisti nell’esportare e protezionisti nell’importare, vendono care le loro eccedenze ed acquistano a poco le altrui risorse in un mercato diseguale, dove sono importatori, esportatori e regolatori allo stesso tempo. Per questo l’assalto a Cuba, Venezuela, Nicaragua e Messico, il golpe in Bolivia: l’America Latina, priva della dignità socialista del blocco democratico regionale, sarebbe solo la regione delle vene aperte, depredata, saccheggiata ed utilizzata nello scacchiere mondiale.
Il saccheggio e il piombo
Oltre ad essere un mercato enorme, l’America Latina è anche la più grande riserva di biosfera del pianeta. E’ un continente bagnato da due oceani, dotato di incredibili ricchezze in acqua, minerali e fossili e, per la sua posizione geografica, è determinante per gli equilibri geopolitici e militari planetari. Possiede risorse fondamentali per gli USA che consumano circa dieci volte di più di quanto dovrebbero per indice demografico e restituiscono al pianeta il 25% dei rifiuti. Come sostiene il Third World Resurgence, “è un modello semplicemente insostenibile: con il 4,5% della popolazione mondiale, gli statunitensi consumano il 40% delle risorse del mondo e ne recuperano solo l’1%”.
Per mantenere questo modello onnivoro e la loro supremazia planetaria, il dominio del continente è vitale. Per garantirlo ci sono state 42 invasioni di truppe statunitensi in poco più di un secolo, senza contare i colpi di stato organizzati e finanziati e i tentativi frustrati. Gli attacchi di questi mesi dell’amministrazione Trump contro i governi di Cuba, Nicaragua e Venezuela, il colpo di stato in Bolivia ed ora le minacce al Messico, dimostrano l’intolleranza di Washington per un sistema politico indipendente, che non risponde al suo comando, agisce secondo i suoi interessi nazionali e non cede risorse, armi e sovranità all’implacabile sete dell’onnipotente Nord. Anche l’inedita aggressività verso il Messico deve essere inquadrata nella sua giusta luce. Non sono i migranti la preoccupazione reale, tantomeno dopo che AMLO ha in qualche modo assecondato le misure di contenimento dell’emigrazione richieste da Washington. E nemmeno i narcos (contro cui gli Stati Uniti conducono una guerra apparente). Si tratta invece della decisione di Andres Manuel Lopez Obrador di riattivare le pertinenze messicane sulla Pemex. E che il Messico recuperi dignità politica, chiuda con il Gruppo di Lima, rifiuti le manovre contro il Venezuela, condanni il colpo di Stato in Bolivia ed accolga Evo Morales, a Washington risulta insopportabile.
Uno scenario globale
Lo scontro aperto con Russia, Cina ed altri Paesi emergenti, vede la Casa Bianca guidata dai nazi-evangelici perdere posizioni sullo scacchiere globale. Pur centrato sul dominio dell’area, il golpismo statunitense in America Latina s’inserisce in un riposizionamento globale ed è un tentativo di risposta alla sua crisi di leadership planetaria; Trump puntella il “giardino di casa” per meglio attrezzarsi nella guerra per la supremazia globale. Distribuisce a 75 paesi sanzioni unilaterali, armi con le quali Washington tenta di costruirsi vantaggi commerciali e forza politica per riequilibrare a suo favore uno scontro per il dominio futuro che appare già compromesso. A ciò ha cercato di rispondere spingendosi all’offensiva contro l’America Latina, sia per arroccarsi economicamente e politicamente, sia per dispiegare sul terreno ideologico una guerra che dichiara voler condurre contro i paesi socialisti latinoamericani ma che ha anche nel contenimento di Russia e Cina il suo contesto strategico.
Contrastare la Cina è l’ossessione di Trump e passa anche dall’impedire la sua penetrazione nel continente americano. Si vuole colpire Pechino nei suoi due punti di debolezza: energetico e alimentare. Non è un mistero che con l’America Latina la Cina ha messo in piedi uno scambio tra liquidità monetaria ed approvvigionamento energetico ed alimentare reciprocamente soddisfacente. Per i paesi latinoamericani sono importanti risorse finanziarie, per Pechino la possibilità di sostenere con sufficienti energia ed alimenti uno sviluppo industriale e tecnologico poderoso. Per gli USA è necessario complicare o addirittura impedire questa partnership e i riflessi politici che ne derivano.
Quanto alla Russia, gli USA sono intimoriti dal crescente posizionamento politico nel subcontinente che aiuta Mosca a svolgere un ruolo globale, non più solo regionale. La sua cooperazione militare preoccupa anche per la possibilità che i governi socialisti vengano dotati di strumenti difensivi all’avanguardia che permetterebbero una resistenza efficace ad inopportune prove di forza.
La politica estera in mano ai nazi-evangelici della Florida
La destabilizzazione del continente ha i suoi ritorni anche in politica interna. Le difficoltà crescenti con un Congresso pronto a votare l’impeachment, ed un forte appannamento della presidenza, che complica il cammino per un secondo mandato, spinge Trump a compattare il blocco di potere del partito Repubblicano con le frange più estreme della destra, dal Tea Party fino alle organizzazioni segregazioniste, agli evangelici ed ai gruppi nazisti particolarmente attivi negli stati del Sud.
Ma l’aiuto si paga, specie se lo si chiede da “esterno” al partito. E il prezzo non poteva che essere la cessione in appalto della politica verso il subcontinente ai gruppi di interessi di Miami che hanno nell’odio verso i governi progressisti latinoamericani la loro ragione di vita. Per questo lo spazio assegnato a Ted Cruz, Lincoln Diaz Balart e Bob Menendez, che col coinvolgimento della FNCA e delle organizzazioni terroristiche cubano-americane decidono ormai la politica estera statunitense verso l’America Latina; e in questa chiave va letto il ritorno di Elliot Abrams alla Casa Bianca, dove svolge le stesse mansioni che gli costarono una condanna penale. Le oligarchie nicaraguensi e venezuelane, così come quelle messicane e boliviane, sono gli alleati locali che svolgono il ruolo di fronte interno. Sono sponda politica per offrire agli USA l’opportunità d’ingerenza nei Paesi avversari, destinata attraverso l’OSA ed altri organismi regionali a fornire le finte basi giuridiche per le richieste d’intervento statunitense.
L’Europa tace e acconsente
A Washington contano anche sull’acquiescenza dell’Europa. Il Parlamento Europeo subisce pesantemente il lavoro di lobby che la fondazione Open Society di Soros e le miriadi di presunte ONG svolgono. Sono centinaia gli europarlamentari che ricevono contributi ed orientamento dall’organizzazione di George Soros. Il quale guida le operazioni di destabilizzazione dei paesi guidati da governi che gli Stati Uniti ritengono ostili o che, comunque, dispongono di risorse che gli USA pretendono e che non riescono ad avere.
Il prostrarsi della UE agli interessi statunitensi e il non rispettare le regole che proprio in Europa si sono scritte sui processi democratici, apre un’incognita seria per l’America Latina. Il nodo futuro è rappresentato dalla praticabilità e difendibilità dei processi democratici di fronte a USA e UE, che con blocchi economici, presidenti autonominati, colpi di stato, sequestri e persecuzioni giudiziarie disegnano il corollario di una debacle del Diritto Internazionale.
Ma se la via democratica non viene rispettata, quali strumenti adoperare? Di fronte al combinato disposto di aggressione esterna e destabilizzazione interna, bastano le urne a garantire il diritto a governare delle maggioranze? La democrazia, che esprime attraverso il voto il proprio indirizzo politico, ha il diritto di scegliere un governo? O essa funziona solo se a vincere sono i rappresentanti graditi all’impero? E il Diritto è sufficiente o c’è bisogno della forza?
E ancora: gli organismi finanziari internazionali devono divenire il braccio finanziario dell’unilateralismo USA? E quelli multilaterali e a livello regionale devono trasformarsi in loro portavoce?
Il declino dell’impero sembra portare con sé quello della democrazia e allora vanno attivati anticorpi robusti per il ripristino delle regole e il riequilibrio planetario. Se la linea di Washington prevede solo la destabilizzazione permanente ai quattro angoli del pianeta, è chiaro a tutti che per la governance internazionale gli Stati Uniti rappresentano il problema e non la soluzione.
08 Dicembre 2019