Tra il 28 e il 29 gennaio si è tenuto a Roma il vertice Italia-Africa che ha visto la presenza di 25 tra capi di governo e di stato africani e che ha posto le basi del cosiddetto Piano Mattei. Tra le iniziative politiche promosse dal governo Meloni in questa prima fase della legislatura, il Piano Mattei ricopre un ruolo importante, in quanto mira a ritagliare un ruolo specifico e di primo piano all’Italia nel rapporto tra Ue e Africa. Infatti, il continente africano ricopre una importanza fondamentale per la sua ricchezza di materie prime e per la sua demografia. Infatti, l’Africa nei prossimi decenni registrerà una crescita demografica consistente a fronte del calo demografico che caratterizza e caratterizzerà anche in futuro i paesi avanzati del cosiddetto Occidente collettivo, in particolare l’Europa occidentale e il Giappone.
Sul rapporto tra l’Europa e l’Africa, però, pesa come un macigno l’eredità di cinque secoli di storia in cui l’Europa ha esercitato sul continente nero un ferreo dominio coloniale. Tale dominio si è mantenuto anche più di recente in una forma nuova, neocoloniale appunto, dopo che tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso i Paesi africani si erano liberati del dominio coloniale formale dei Paesi Europei, che era stato sostituito da una dipendenza diretta, sul piano economico, e indiretta, sul piano politico, da quelle stesse potenze ex coloniali, come ad esempio la Francia.
Per quanto riguarda l’Italia, l’iniziativa della Meloni si innesta in un Paese che è abituato a nascondere le parti scomode della sua storia sotto il tappeto. Molti dimenticano che l’Italia, tra la fine dell’800 e la prima metà del 900, è stata artefice di una politica colonialista che l’ha portata, sebbene ultima arrivata insieme alla Germania alla spartizione dei paesi periferici, a realizzare un impero di dimensioni tutt’altro che piccole. A parte una piccola presenza in Cina, eredità della missione militare occidentale contro i Boxer (1900) e l’annessione dell’Albania (1939), l’impero italiano alla fine degli anni Trenta del secolo scorso era concentrato proprio in Africa, comprendendo la Libia, la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia.
Vale la pena di ricordare, a questo punto, che la costruzione di questo impero avvenne a seguito di guerre sanguinose, come quella contro l’Etiopia e quella contro i resistenti della Libia, durante le quali furono usati anche gas asfissianti, proibiti dai trattati internazionali. Particolarmente virulenta fu la reazione italiana e fascista ai tentativi di ribellione delle popolazioni soggiogate. Oltre ai massacri avvenuti in Libia, dove una parte della popolazione fu rinchiusa in campi di concentramento per piegarla ai voleri dell’occupante, in Etiopia la rappresaglia a un attentato contro Graziani, comandante delle truppe occupanti italiane e ribattezzato con l’epiteto di “macellaio del Fezzan”, si concretizzò in una serie di massacri, tra cui quello di 2000 monaci del monastero cristiano copto di Debra Libanòsi. Ma la presenza militare italiana in Africa non è stata del tutto assente neanche nel dopoguerra. Nel 1993, l’Esercito italiano, durante la missione “Ibis” in Somalia, nel corso della battaglia del “check point pasta” contro le milizie locali a Mogadiscio, uccise centinaia di civili tra cui donne e bambiniii.
Tutto questo, come dicevamo sopra, viene dimenticato e nascosto dietro la retorica degli “italiani brava gente”. Inoltre, l’imperialismo italiano viene in qualche modo sminuito dalla definizione di “imperialismo straccione”, come se non fosse stato un vero imperialismo. Il fatto è che un imperialismo “debole” è debole nei confronti di altri imperialismi e non delle popolazioni che sottomette. Senza contare che, come ricordava Palmiro Togliatti a proposito dell’imperialismo fascista, gli imperialismi deboli sono spesso quelli più aggressivi, perché sempre tesi a modificare i rapporti di forza a proprio favore. Non è, quindi, un caso che la strada che portò verso la Seconda guerra mondiale sia stata aperta dai conflitti innescati da due potenze imperialiste emergenti: quello dell’Italia contro l’Etiopia e quello del Giappone contro la Cina in Manciuria (1931-1932).
Dunque, stanti i precedenti, è lecito domandarsi se il piano che va sotto il nome prestigioso di Mattei (fondatore dell’Eni ed ex partigiano) ma che è ideato dal primo presidente del consiglio che rappresenta l’estrema destra di origine fascista dal 1943, data della caduta di Mussolini, non sia altro che l’ultimo capitolo del neocolonialismo e del neoimperialismo italiano, che, per quanto “debole” e subalterno all’imperialismo egemone statunitense, trova una nuova via di espressione, mascherandosi dietro la copertura della cooperazione internazionale.
Oggi, l’imperialismo è diverso da quello dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. Non si basa più (o quasi) sulla conquista e sul controllo diretto del territorio della periferia dell’economia-mondo, ma si estrinseca attraverso la conquista economica e il controllo degli snodi strategici di comunicazione. L’obiettivo, però, è sempre lo stesso: accaparrarsi le risorse minerarie e agricole dell’Africa. Ad ogni modo, il fatto che il neoimperialismo italiano ed europeo non si estrinsechi in occupazioni territoriali non significa che non ci sia una presenza militare dei Paesi occidentali in Africa, come dimostra la presenza dell’esercito francese e di altri paesi europei (tra cui l’Italia) in molti paesi africani e la prossima messa in campo da parte della Ue della missione militare navale Aspides, che avrà il compito di pattugliare l’area del Mar rosso, strategica per i flussi commerciali, specie di materie prime energetiche, tra canale di Suez e Mar arabico.
Ma vediamo più da vicino che cosa è il piano Mattei. Il piano comprende, secondo il governo Meloni, cinque settori d’intervento: istruzione, salute, agricoltura, acqua e energia. I fondi utilizzabili dal piano Mattei non sono enormi: appena 5,5 miliardi di euro. Però, non si deve dimenticare che l’idea di Meloni è far sì che il piano Mattei si inserisca all’interno del Global Gateway della Ue, un piano che, per la costruzione di infrastrutture in Africa, stanzia ben 150 miliardi. Centrali nel nuovo imperialismo sono gli investimenti, principalmente nell’estrazione mineraria e nelle infrastrutture che colleghino i paesi africani produttori di materie prime all’Europa. In particolare, il piano Mattei prevede infrastrutture che colleghino l’Africa con l’Italia, che, sempre in base alle ambizioni della Meloni, dovrebbe diventare un hub energetico dell’Europa. Del resto, l’Africa e le sue materie prime energetiche sono diventate ancora più importanti per l’Italia (e per l’Europa) dopo che le sanzioni contro la Russia hanno provocato l’interruzione dei rifornimenti di gas e petrolio da parte di quello che è stato il maggiore fornitore di energia dell’Europa per decenni.
Il piano Mattei si fonda anche sugli investimenti di alcune delle maggiori imprese multinazionali e sul coinvolgimento diretto di alcune istituzioni statali italiane. L’elenco delle imprese italiane è abbastanza corposo e parte dai due colossi energetici controllati dallo Stato italiano, l’Eni e l’Enel. L’Eni, che è attiva in Africa dagli anni Cinquanta ed è in prima linea in 13 paesi (dal Marocco alla Costa d’Avorio), è l’architrave del piano Mattei, essendo direttamente coinvolta nella acquisizione di nuove rotte di rifornimento di materie prime energetiche per l’Italia e la Ue. L’Enel, dal 2016 ad oggi, ha investito in Africa 2,4 miliardi di euro, concentrati per lo più su solare e eolico. Fondamentale sarà l’apporto di Snam (anch’essa statale essendo controllata da Cassa depositi e prestiti), società di infrastrutture nel settore energetico, che sarà strategica per ultimare il progetto del SouthH2 Corridor, il corridoio dedicato all’idrogeno e lungo 3.300 chilometri che connetterà il Nord Africa, l’Italia, la Germania e l’Austria. Terna, sempre controllata da Cassa depositi e prestiti, opera nelle reti di trasmissione dell’energia elettrica e sarà centrale nella realizzazione del nuovo elettrodotto italo-tunisino Elmed, il primo collegamento elettrico in corrente continua tra Europa e Africa. Nel settore idrico ci sarà l’intervento dell’Acea (al 51% di proprietà del comune di Roma). Altre imprese italiane coinvolte nel piano Mattei sono, per quanto riguarda il settore pubblico, Fincantieri, colosso della cantieristica e Leonardo, multinazionale del settore bellico e elettronico e, per quanto riguarda il settore privato, Webuild, una grande impresa di costruzioni già presente in Africa.
Coinvolte nel piano sono anche diverse organizzazioni statali: Cassa depositi e prestiti, chiamata a studiare un nuovo strumento finanziario per agevolare gli investimenti privati nel piano Mattei, Sace, gruppo assicurativo-finanziario controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che proseguirà nel supporto di contratti e progetti di imprese italiane, Simest, società del gruppo Cassa depositi e prestiti attiva nel supportare le imprese italiane che investono all’estero, che aprirà al Cairo la prima sede in Africa, e infine l’Ice, l’agenzia governativa che opera per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane. Tutti i maggiori dirigenti delle imprese e delle organizzazioni statali suddette sono intervenuti all’incontro Italia-Africa con i capi di governo e di stato africani a palazzo Madama. Significativa è stata anche la presenza della presidentessa della Commissione europea, von der Lyen, a dimostrazione della connessione tra piano Mattei e il Global Gateway della Ue. Oltre ai colossi pubblici (ma quotati in borsa e partecipati da capitali privati internazionali) e privati, è previsto il coinvolgimento nel piano Mattei di altre imprese italiane anche di dimensioni meno grandi. Del resto, Akinwumi Adesina, presidente della banca africana di sviluppo, è intervenuto recentemente a una assemblea di Confindustria esortando il settore privato e le imprese Ue a investire molto di più in Africa.
Tuttavia, al vertice Italia-Africa non sono mancate critiche da parte africana all’Italia e al governo Meloni. Il Presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki, ha affermato nel suo intervento d’apertura che i leader del Continente avrebbero preferito “essere consultati prima” e che “c’è la necessità di passare dalle parole ai fatti”iii. Dall’intervento di Faki emerge un certo scetticismo verso un cambiamento di approccio europeo all’Africa che appare più retorico che sostanziale. La ripetizione di un tipo vecchio di approccio è paventato dagli africani soprattutto per due questioni: le forniture energetiche e il controllo dei flussi migratori verso l’Ue, che era in cima all’agenda di Meloni e dei leader europei presenti a Roma. Sull’emigrazione africana Faki insiste su un approccio più economico che sicuritario.
Il punto, infatti, è che il governo Meloni, fedele all’antica tradizione coloniale italiana, cerca di ritagliarsi uno spazio nella corsa all’accaparramento delle risorse, soprattutto energetiche, dell’Africa, un’area dove l’Europa sta subendo negli ultimi anni la forte concorrenza di altri Paesi, per lo più emergenti, quali la Russia, l’India, la Turchia e la Cina. Emblematica è la difficoltà della Francia, che, già presente anche militarmente in Africa, recentemente è stata cacciata da alcuni paesi africani, come il Niger, che l’hanno sostituita con la Russia.
Di particolare importanza è il ruolo della Cina, che ha dato vita, nell’ambito della Nuova via della seta (Belt and Road Initiative), a un’intensa relazione con molti stati africani, basata sullo scambio tra materie prime e costruzione di infrastrutture utili all’economia dei paesi. Il Global Gateway (300 miliardi di cui la metà destinati all’Africa) vuole essere la risposta europea alla Cina. C’è da vedere se gli africani daranno credito alle dichiarazioni degli europei e dell’Italia, anche perché ora – a differenza di cinquanta o anche solo dieci anni fa – esiste una concreta alternativa all’Europa e gli africani si trovano nella condizione inedita di poter scegliere i propri interlocutori economici.
Note:
i Su questo si può vedere di Angelo del Boca, Italiani brava gente? Neri Pozza, Milano 2005.
ii Il dato sulle vittime civili della battaglia del “check point pasta” è stato riferito a chi scrive da un maggiore della brigata paracadutisti “Folgore”, durante una conversazione nel corso di una ricerca sociologica presso la sede della brigata.
iii Alberto Magnani, Faki (UA): ora passare dalle parole ai fatti, “Il Sole 24 ore”, 30 gennaio 2024.
9 Febbraio 2024