Movimento Naz. Antifascista per la Difesa e il RILANCIO della Costituzione
il governo parlamentare presidio fondamentale della democrazia economico-sociale
Piccolo manuale di autodifesa militante della Costituzione
Perché i rivoluzionari sono “conservatori” della Costituzione
Perché gli autentici democratici e tutti coloro che si battono per il progresso e l’emancipazione sociale difendono integralmente la Costituzione e ne rilanciano principi e norme
Perché i reazionari si presentano come “riformatori” della Costituzione…
Perché coloro che difendono l’ordine capitalistico-borghese e le politiche neoliberiste, con tutto il seguito di aggressioni imperialiste, la vogliono stravolgere…
Indice
1. Perché è così virulento oggi l’attacco alla Costituzione?
1.1. La Carta del 1948 contrasta con l’imposizione di politiche neoliberiste 1.2. È essenziale la forma di governo parlamentare
1.3. La posta in gioco
2. La rottura costituzionale operata dal governo delle larghe intese richiede un impegno forte e deciso a difesa e rilancio della Costituzione
3. La memoria storica della funzione costituente del Pci 4. Valorizzare l’organicità dell’impianto costituzionale
5. Perché l’attacco è portato alla “forma di Stato” prima che alla “forma di governo” 5.1. La posizione di Piero Calamandrei
5.2. I limiti della “Democrazia Costituzionale”
6. La forma di Stato e le differenze tra il caso italiano e la Francia di De Gaulle 6.1. Organicità dell’impianto costituzionale
6.2. Il ruolo dei sindacati 6.3. Il caso francese
6.4. Sì alla repubblica parlamentare delle autonomie. No al presidenzialismo federalista neo/centralista.
6.5. Il ruolo del capo dello Stato nel disegno organico della Costituzione democratica 6.6. Le argomentazioni fuorvianti dei fautori del presidenzialismo
6.7. Il presidenzialismo: rivendicazione storica della destra reazionaria
6.8. I due prototipi di Inghilterra e USA: Stato fondato su una gerarchia sociale conforme agli interessi del capitale
6.9. Le insoddisfacenti imitazioni dei modelli anglosassoni nell’Europa continentale e il “modello francese”
6.10. Differenze di fondo tra la situazione francese e quella italiana
6.11. Pervasività del presidenzialismo in Europa. È in pericolo la democrazia politica, oltre che sociale.
6.12. La revisione presidenzialistica di stampo francese stravolgerebbe il modello complessivo di forma di stato e di governo della nostra Costituzione
6.13. Il federalismo accentua il centralismo…
6.14. No all’elezione diretta del presidente del consiglio!
7. Le ambiguità e le insidie della revisione della forma di governo parlamentare, con trasformazione del bicameralismo, riduzione del numero dei parlamentari, introduzione della “sfiducia costruttiva” 7.1. La riduzione del numero dei parlamentari
7.2. Bicameralismo
7.3. L’apparente arcano del “bicameralismo eguale”
7.4. La struttura di classe alla base della costruzione degli Stati contemporanei 7.5. No alla “Camera delle regioni”!
7.6. La “sfiducia costruttiva” nel modello tedesco 8. Per il proporzionale puro
9. Una lotta che assuma la Costituzione come premessa e come obiettivo insieme 10. Le disapplicazioni della Costituzione “formale” e il procedimento di revisione 11. Cronologia
2
1. Perché è così virulento oggi l’attacco alla Costituzione?
Perché PdL e Pd, centro-destra e centro-sinistra attaccano oggi con particolare virulenza la forma di governo parlamentare e la forma di Stato definite dalla Costituzione del 1948?
Ce lo spiegano a chiare lettere i fautori stessi dello stravolgimento della Costituzione, in diversi casi senza mascherature, spudoratamente. E ce lo spiegano con un discorso “marxista”, in riferimento alla struttura economico-sociale che richiede la modifica della sovrastruttura: la forma di governo parlamentare stabilita dalla Costituzione italiana è incompatibile con le esigenze del capitalismo nell’attuale fase di imperialismo transnazionale (la cosiddetta “globalizzazione”), a conferma di una incompatibilità strategica di capitalismo e democrazia:
Le esigenze dell’economia e del mercato necessitano di tempi rapidissimi di decisione, tempi non più compatibili con il parlamentarismo puro. Si è ovviato per anni a questo problema con i provvedimenti economici a iter obbligato, con la decretazione d’urgenza e con le leggi delega, tra le proteste di coloro che, giustamente, in termini di diritto costituzionale, considerano tutto ciò come una compressione dei diritti dei parlamentari. Tuttavia questi escamotage da “Costituzione materiale” non possono essere utilizzati indefinitamente. Occorre, viceversa, velocizzare il procedimento decisionale, sia pure con tutte le garanzie costituzionali, politiche e legali necessarie. Il progetto di legge costituzionale qui presentato tenta di dare risposta ai problemi evidenziati, proponendo l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri
(Premier), l’ampliamento dei suoi poteri e il suo legame indissolubile con la maggioranza parlamentare. Contestualmente si provvede alla riduzione del numero dei parlamentari1.
La democrazia economico-sociale che permea tutto l’impianto della Costituzione del 1948 deve essere smantellata in nome delle “esigenze dell’economia e del mercato”. Da oltre venti anni è a tali esigenze che le forze politiche e culturali che esprimono gli interessi della classe capitalistica – sia centro-destra, per tradizione e vocazione, che centro-sinistra, per revisionismo e passione di neofiti convertiti all’ordine borghese – stanno provando a piegare la Costituzione, stravolgendone l’impianto complessivo.
Ma se negli anni passati, quando era ancor vivo il ricordo della presenza e dell’attività comuniste nella società italiana, vi era un qualche pudore tra gli indegni eredi (PDS-DS-PD) del Pci ad attaccare di petto, frontalmente, il nucleo di fondo della democrazia economico-sociale che ispira l’intero impianto costituzionale, oggi tale attacco viene portato apertamente, nascondendosi sempre meno dietro esigenze tecniche di miglior funzionamento della macchina governativa e dell’attività parlamentare.
Lasciamo la parola a un protagonista indiscusso, nella teoria non meno che nell’azione politica diretta, del revisionismo costituzionale: Giorgio Napolitano2, nelle sue vesti di (bis)presidente della repubblica, nonché deus ex machina (e si tratta di una “macchina” molto potente) degli ultimi governi “d’emergenza”, da Monti a Letta. Nella lettera (28 dicembre 2011, agli esordi del governo Monti) al direttore della rivista “Reset”, Giancarlo Bosetti, che lo aveva sollecitato a una riflessione sulla politica italiana a cinquanta anni dalla morte di Luigi Einaudi, egli spiega in modo inequivocabile come la Costituzione delineata dai padri costituenti non debba sopravvivere nel momento in cui l’Italia si è legata a doppio filo al carro europeista costruito dal trattato di Maastricht e successivi, con il netto predominio dei monopoli finanziari, che trovano nelle politiche neoliberiste l’espressione più coerente dei loro interessi. Giorgio Napolitano è nettamente schierato con le posizioni liberiste e neoliberiste, contro la democrazia economico-sociale, su cui nell’assemblea Costituente convergevano marxisti e cattolici, osteggiati dai liberali come Einaudi:
Varrebbe certamente la pena di ricostruire più attentamente di quanto non si sia ancora fatto, il dibattito in Assemblea Costituente e i contributi di Einaudi [..] Interessante, e suggestiva, è l’interpretazione che in
1 Cfr. XVII Legislatura, Proposta di legge costituzionale d’iniziativa del deputato Mario Pepe (allora nel PdL, dal 5 luglio 2011 al 14 marzo 2013 nel gruppo Misto-Repubblicani-Azionisti), Modifiche alla parte seconda della Costituzione concernenti il numero e l’elezione dei deputati e dei senatori, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e la forma di governo (C. 3738) presentata il 30 settembre 2010. Corsivi redazionali. È uno tra i numerosi disegni e proposte di
legge costituzionali presentati a raffica nella precedente legislatura.
2 Le posizioni di Giorgio Napolitano si sono viepiù articolate e sviluppate nel tempo, fino a quest’ultima fase in cui tra liberalismo e socialismo si schiera apertamente per il primo contro il secondo. Ma già nelle sue elaborazioni di 40 anni fa, quando era un alto dirigente del PCI, si possono cogliere alcune anticipazioni delle progressive deviazioni politico-istituzionali; si veda in proposito il suo libro, In mezzo al guado, pubblicato da Editori riuniti nel 1979 (e non a caso ripubblicato nel 2013 con prefazione di G. Vacca).
3
Cinquant’anni di vita italiana ci ha lasciato Guido Carli: secondo il quale “la parte economica della Costituzione risultò sbilanciata a favore delle due culture dominanti, cattolica e marxista”, ma nello stesso tempo, tra il 1946 e il 1947, “De Gasperi ed Einaudi avevano costruito in pochi mesi una sorta di ‘Costituzione economica’ che avevano posto però al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea Costituente”. Si trattò di una strategia “nata e gestita tra la Banca d’Italia e il governo”, mirata alla stabilizzazione, ancorata a una visione di “Stato minimo”, e aperta alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali. In effetti, benché, per usare le espressioni di Carli, quel che accomunava in Assemblea Costituente la concezione cattolica e la concezione marxista fosse “il disconoscimento del mercato”, l’azione di governo fu già nei primi anni della Repubblica segnata da scelte di demolizione dell’autarchia, di liberalizzazione degli scambi e infine di collocazione dell’Italia nel processo di integrazione europea. E con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune, furono riconosciuti e assunti dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i princìpi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei “Rapporti economici” nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario. Nell’accoglimento e nello sviluppo di quella costruzione, si riconobbe via via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista.
Napolitano, in linea con le posizioni del liberale Einaudi, si pronuncia nettamente contro la programmazione economica e l’articolo 41, contro l’intervento statale in economia, cui imputa la voragine del debito pubblico:
La distanza maggiore che tuttavia rimase tra le posizioni liberali, e specificamente einaudiane, da una parte, e quelle della sinistra di derivazione marxista (e anche quelle prevalenti nella pratica di governo della Democrazia Cristiana), dall’altra parte, è quella relativa al ruolo e ai limiti dell’intervento dello Stato nell’economia. Nella discussione in Assemblea sul testo che sarebbe diventato l’articolo 41 della Costituzione, Einaudi prese le distanze con pungente ironia dall’evocazione di “piani” e “programmi” e dal ricorso a espressioni di dubbio significato come “l’utilità sociale”; fu nello stesso tempo eloquente e fermissimo nel sollevare il problema dei monopoli, della necessità di scongiurarne la formazione e, comunque, di sottoporli a controlli. Ma al di là di quel dibattito in Assemblea Costituente, e più in generale, egli indicò come propria dei “liberisti” non solo una linea antiprotezionistica, ma la netta convinzione [..] che lo Stato dovesse fare “passi assai prudenti nella via dell’intervenire nelle faccende economiche”, anche paventando che tali interventi generassero corruzione nella società. Fino ad affermare: “il liberismo non è una dottrina economica, ma una tesi morale”. E invece è indubbio che in Italia, già a partire dagli anni Cinquanta, lo Stato intervenne con sempre minore “prudenza” e senso del limite, nella vita economica: dapprima, e per un non breve periodo, si trattò di un intervento diretto nell’attività produttiva, anche da Stato proprietario (sia pure nella più flessibile forma del sistema delle partecipazioni statali); si trattò poi di un ricorso crescente alla spesa pubblica, e sempre di più alla spesa pubblica corrente, in funzione di domande e interessi di carattere politico-elettorale e con la conseguenza dell’accumularsi di uno spaventoso stock di debito pubblico.
Ora che a minare la sostenibilità di quella grande e irrinunciabile conquista che è stata la creazione dell’euro concorre fortemente la crisi dei debiti sovrani di diversi Stati tra i quali l’Italia, è diventata ineludibile una profonda, accurata operazione di riduzione e selezione della spesa pubblica, anche in funzione di un processo di sburocratizzazione e risanamento degli apparati istituzionali e del loro modus operandi. Tale discorso non può non investire le degenerazioni parassitarie del “Welfare all’italiana”, rifondando motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l’epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all’Italia.
E, infine, Napolitano, chiudendo il cerchio, si propone di tornare “a incontrare Einaudi” per superare il “dogma e il limite delle sovranità nazionali”3.
L’impianto del discorso del presidente della repubblica non è molto diverso da quello di Stefania Craxi, quando chiede un’assemblea Costituente:
È oggi pertanto necessario, se si vogliono affrontare alla radice i problemi del Paese, dare repentinamente avvio a una «grande riforma» in grado di ridisegnare nuovi equilibri e di porre le basi per una «democrazia governante» o, come sarebbe auspicabile, di una Repubblica presidenziale che sappia tenere il passo dei nuovi ritmi e dei nuovi modelli imposti dalla globalizzazione, della modifica in senso liberale del sistema Italia, ciò che solo una riforma organica del dettato costituzionale può oggi assicurare.4
3 Cfr. http://www.reset.it/caffe-
http://www.ilfattoquotidiano.
4 XVII legislatura, Proposta di legge costituzionale d’iniziativa del deputato Craxi: Istituzione di un‘Assemblea costituente, N. 5069, presentata il 20 marzo 2012. Corsivi redazionali.
4
1.1. La Carta del 1948 contrasta con l’imposizione di politiche neoliberiste
Insomma, i “riformatori”, che si presentano come “innovatori” e “modernizzatori”, di contro al drappello di “conservatori” della Costituzione del 1948, ci dicono chiaramente che la nostra Carta, unica tra le costituzioni del paesi capitalistici occidentali, ha un impianto complessivo, un’architettura, che contrasta con l’imposizione di politiche neoliberiste proprie dell’attuale fase del capitalismo finanziario transnazionale e della Unione europea nata sulla base del trattato di Maastricht e successivi. E per questo i “riformatori”, stanno lavorando da un trentennio – e molto più intensamente e concitatamente dopo la caduta dei paesi socialisti est europei e dell’URSS tra il 1989 e il 1991 – alla demolizione sistematica dell’intero impianto costituzionale per varare una nuova costituzione fondata su principi opposti a quelli su cui sorse la Costituzione del 1948: quindi democrazia liberale o “democrazia costituzionale” versus democrazia economico-sociale.
Questo è il punto centrale. Per questo oggi Napolitano recupera le posizioni liberali di Einaudi, che furono minoranza e trovarono scarso spazio nella Costituente. Per questo ancora egli rilancia il ruolo del liberal-democratico Bobbio contro le culture marxista e cattolica, accomunate sprezzantemente dal “disconoscimento del mercato”. Per questo viene recuperato Piero Calamandrei e il ruolo del partito d’azione (da cui vennero i La Malfa e i Ciampi): liberaldemocrazia in antitesi alla democrazia economico-sociale.
Si tratta di due concezioni – e di due conseguenti organizzazioni dello stato e del potere, di forme di stato e forme di governo – profondamente diverse.
La costituzione del 1948 è il condensato della strategia politico-sociale imposta dai partiti di massa che, in nome dell’ideologia antifascista, intesero a porre le basi della formazione di una nuova classe dirigente che tagliasse alle radici gli istituti politico-istituzionali del liberalismo autoritario. Tali istituti, entrati in crisi dopo la prima guerra mondiale, furono ereditati dal fascismo e commutati secondo una concezione totalitaria, che fu sconfitta dall’alleanza delle democrazie liberali e socialiste nella seconda guerra mondiale. Con la Resistenza si è puntato a legittimare il pieno titolo del movimento operaio a contrastare, nel ripristino delle premesse della libertà e della democrazia, il dominio di classe del capitalismo, per erigere sulle ceneri del fascismo una nuova forma di stato. Essa non era più imperniata sulla sovranità degli apparati burocratici repressivi e oppressivi, ma sull’autonomia della società: le forze sociali e politiche organizzate (in partiti, sindacati, associazioni …) avevano il compito di elaborare – immettendosi nel circuito delle rinnovate istituzioni di governo – gli indirizzi politici, economici e sociali contrastanti con il ristretto interesse di classe che tradizionalmente ha visto contrapposto il meccanismo di accumulazione della ricchezza al lavoro.
Consapevoli della necessità non solo di sbarrare la strada di un infausto ritorno al fascismo, ma soprattutto di creare i presupposti di una democratizzazione della società e dello stato – che è estranea alla cultura liberal-democratica anche nella versione liberal-socialista – i partiti “costituenti” dell’Italia repubblicana hanno elaborato una forma di stato che andasse oltre i limiti dello “stato di diritto sociale”. Furono elaborate norme costituzionali di tipo nuovo. Esse statuivano un progetto di società alternativa a quella salvaguardata negli altri ordinamenti capitalistici: in tale progetto la legge unisce al compito di garantire l’attuazione dei diritti individuali, anche il nuovo compito di dirigere l’uso dei meccanismi produttivi e riproduttivi – cioè l’economia e i servizi collettivi – secondo un piano globale. Tale piano è conseguentemente imperniato sul potere preminente degli organi parlamentari, in quanto recettivi delle opzioni espresse dalle organizzazioni in cui si articola il pluralismo sociale e politico come cardine della democrazia di massa.
1.2. È essenziale la forma di governo parlamentare
Da qui l’importanza imprescindibile della forma di governo parlamentare, della centralità del parlamento, la quale a sua volta presuppone un sistema elettorale basato sulla proporzionale pura, senza sbarramenti, in modo da esprimere a pieno l’articolazione della società.
La Costituzione è un tutto organico. Forma di stato, forma di governo, sistema elettorale sono concepiti in funzione del progetto di società espresso nei principi fondamentali della Prima Parte.
Non a caso l’attacco alla Costituzione è iniziato con lo smantellamento del sistema elettorale proporzionale che, tentato nel 1953 con la democristiana “legge truffa” e sventato allora per la strenua opposizione dei social-comunisti e di un ampio fronte democratico, si è realizzato nel 1993 (il cosiddetto Mattarellum), cui è seguita una legge elettorale ben peggiore della legge truffa (il cosiddetto Porcellum) nel 2005.
5
Poi si è avuto l’attacco alla forma di stato, con la modifica dell’intero titolo V della seconda parte e l’introduzione nel 2001 di uno pseudo-federalismo pasticciato (riforma votata dal centro-sinistra con uno scarto minimo di voti), che apriva la strada al presidenzialismo, cavallo di battaglia del centro-destra (e non solo) sventato dal voto popolare nel 2006.
Ma, con le schede elettorali ancora fresche d’inchiostro, ad onta del netto pronunciamento popolare, ripartiva l’attacco alla centralità del parlamento: grazie alla campagna sulla casta e i costi della politica, guadagnava le prime pagine dei giornali la proposta – condivisa pressoché da tutti i partiti, compresi quelli che si dichiaravano a difesa della Costituzione, come l’IdV di Di Pietro – di riduzione consistente del numero dei parlamentari e di superamento del bicameralismo paritario, non già per arrivare al monocameralismo (come i comunisti chiedevano alla Costituente e come era in una proposta di legge del Pdci nel 20075), ma per introdurre un “Senato delle regioni”, rompendo in tal modo l’unitarietà della rappresentanza parlamentare quale espressione della sovranità popolare. Infatti, se la sovranità è una, la rappresentanza non può che essere a sua volta unica.
E rimanevano aperte tutte le opzioni per lo smantellamento della forma di governo parlamentare, trasformando il presidente del consiglio dei ministri in “premier”, dotato di ampi poteri, fino a quello di poter procedere allo scioglimento delle Camere, relegando il parlamento in una posizione ancillare e subalterna: non più il parlamento centro in cui si elabora, attraverso il lavoro delle commissioni e le assemblee plenarie, la politica del paese, ma l’organo che si limita a ratificare decisioni e scelte assunte al di fuori di esso. Per cui, se esso si riduce a questo ruolo subalterno, col trasferimento delle sue funzioni ad altri organi ad esso esterni – presenti nel paese o sovranazionali – si può ben perorare la causa del dimezzamento del numero dei parlamentari, che appaiono in tal modo come un’escrescenza inutile e parassitaria. Ecco quanto si scrive ad esempio in una delle tante proposte di legge in merito presentata da un ampio schieramento “bipartisan”. Essa, riprende la proposta di riforma costituzionale ed elettorale dal titolo “Le riforme istituzionali ed elettorali possibili prima delle elezioni del 2013”, su iniziativa di Enrico La Loggia (PdL), Linda Lanzillotta (Api/Terzo Polo) e del senatore Walter Vitali (Pd), nonché da un gruppo di parlamentari appartenenti ai diversi schieramenti politici: Marilena Adamo (Pd), Marco Causi (Pd), Renato Cambursano (Misto), Stefano Ceccanti (Pd), Antonio D’Ali (PdL), Enrico Morando (Pd), Andrea Pastore (PdL), Tiziano Treu (Pd), Salvatore Vassallo (Pd). La proposta è stata predisposta in collaborazione con gli esperti della Fondazione Astrid, tra i quali Franco Bassanini, Vincenzo Cerulli Irelli, Gian Candido De Martin, Giorgio Macciotta, Alessandro Pajno, Franco Pizzetti, Jacopo Sce, Luciano Vandelli, Massimo Villone:
Una riduzione a 450 del numero dei deputati e a non più di 225 del numero dei senatori sarebbe – a nostro avviso – largamente giustificata dalla notevole riduzione del «carico di lavoro» del Parlamento a seguito del
progressivo trasferimento di funzioni regolative verso i consigli regionali, le istituzioni europee, il Governo e le Autorità indipendenti6.
Qui si ammette esplicitamente lo svuotamento del parlamento ad opera di istituzioni sovranazionali, nonché del governo. Come vi era organicità nella costruzione dei padri costituenti (governo parlamentare, centralità del parlamento) così vi è un disegno organico di svuotamento del parlamento che passa anche attraverso proposte apparentemente tecniche.
L’attacco alla centralità del parlamento è sempre più intenso e concentrico: l’attuale stadio del capitale finanziario transnazionale, la sovranità limitata che esso impone con la Ue di Maastricht agli stati nazionali, richiedono una forma di governo anche formalmente autoritaria, basata su decisioni incontrollabili e insindacabili di élite al potere, che si servono di governanti-Quisling, ridotti al ruolo di prefetti obbedienti a centri decisionali esterni alla stessa comunità nazionale. Come si è visto negli ultimi anni, con l’accentuarsi
5 XV Legislatura, Camera dei Deputati, N. 3151, Proposta di legge costituzionale d’iniziativa dei deputati Diliberto, Sgobio, Licandro, Galante, Bellillo, Cancrini, Cesini, Crapolicchio, De Angelis, Longhi, Napoletano, Pagliarini, Ferdinando Benito Pignataro, Soffritti, Tranfaglia, Vacca, Venier, Modifiche alla parte seconda della Costituzione. Istituzione dell’Assemblea nazionale e soppressione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro nonché delle province, presentata il 15 ottobre 2007.
6 Cfr. XVI Legislatura, Camera dei Deputati, N. 5120, Proposta di legge costituzionale d’iniziativa dei deputati La Loggia
(PdL), Causi (Pd), Cambursano (ex Idv, dal 21.12.2011 nel Gruppo Misto), Lanzillotta (ex Pd, Dal 10.11.2009 Nel Gruppo Misto), Vassallo (Pd), Barani (PdL), Bernardo (PdL), Boccia (Pd), Capodicasa (Pd), Carella (Pd), Di Virgilio (PdL), Fabbri (Alleanza per l’Italia), Pianetta (PdL), Strizzolo (Pd), Traversa (PdL), Ventucci (PdL), Vernetti (Pd), Modifiche alla parte seconda della Costituzione in materia di forma di governo, composizione e funzioni del Parlamento e potestà legislativa dello Stato e delle regioni, presentata il 12 aprile 2012.
6
della crisi europea del debito sovrano e l’imposizione ai paesi europei “non virtuosi” di politiche di austerità (dalle raccomandazioni del FMI alle lettere della BCE): capitalismo finanziario transnazionale e Costituzione di democrazia economico-sociale non sono conciliabili.
1.3. La posta in gioco
La posta in gioco è altissima: non riguarda solo – come taluni ingenuamente potrebbero essere indotti a credere – alcune regole “tecniche” di funzionamento interno della macchina statale e amministrativa, ma il quadro complessivo delle politiche economiche e sociali dei prossimi decenni.
La guerra alla Costituzione, iniziata trenta anni fa (come data indicativa si potrebbe assumere il varo della prima commissione bicamerale Bozzi nel 1983), pur avendo conquistato alcune roccaforti importanti, non ha ancora vinto. È stata ostacolata in primo luogo dai vincoli posti dai costituenti alle modifiche costituzionali (l’articolo 138, che non a caso si cerca di aggirare o di depotenziare con ddl di revisione dell’articolo che regolamenta le revisioni!). E poi dall’opposizione e dalle resistenze sociali, che hanno saputo coagularsi nella battaglia referendaria del 2006. Infine, dalle divisioni interne al campo dei “riformatori”, che, pur sostanzialmente uniti nell’attacco alla Costituzione di democrazia economico-sociale, non sono riusciti sinora a compattarsi su un unico progetto di riscrittura costituzionale.
Ed è per favorire questo compattamento e riuscire a realizzare finalmente lo stravolgimento della forma di governo parlamentare che è intervenuto con tutto il suo peso il presidente della repubblica Napolitano, seguito dal neopresidente del consiglio Enrico Letta, che nel suo discorso programmatico alle Camere ha dedicato ampio e strategico spazio al mutamento della nostra Carta, ponendolo come obiettivo prioritario dell’azione di governo, alla cui realizzazione lega la vita stessa dell’esecutivo:
Fra 18 mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro. Se avrò una ragionevole certezza che il processo di revisione della Costituzione potrà avere successo, allora il nostro lavoro potrà continuare. In caso contrario, [..] non avrei esitazioni a trarne immediatamente le conseguenze. [..]. I principi che devono guidarci sono quelli di una democrazia governante[..] Dobbiamo superare il bicameralismo paritario [..] affidando ad una sola Camera il compito di conferire o revocare la fiducia al Governo. [..] Dobbiamo quindi istituire una seconda Camera – il Senato delle Regioni e delle Autonomie – con competenze differenziate [..] Occorre poi riformare la forma di governo, e su questo punto bisogna anche prendere in considerazione scelte coraggiose, rifiutando piccole misure cosmetiche e respingendo i pregiudizi del passato. La legge elettorale è naturalmente legata alla forma di governo [..] Permettetemi di esprimere a livello personale che certamente migliore della legge attuale sarebbe almeno il ripristino della legge elettorale precedente7.
2. La rottura costituzionale operata dal governo delle larghe intese richiede un impegno forte e deciso a difesa e rilancio della Costituzione
La campagna, scatenata con burbanza mista a fariseismo, per un cosiddetto “ammodernamento” delle nostre istituzioni tramite riforme di “vasto respiro” da concretare con una “procedura” dichiaratamente “straordinaria” perché volta a violare il complesso di norme che in virtù dell’art. 138 della Costituzione condizionano l’uso del potere di revisione costituzionale e di emanazione di qualunque legge di rango costituzionale, impone una chiamata a raccolta di tutti i militanti comunisti e genuinamente democratici, per un serrato impegno di lotta culturale e politica volto a contrastare l’esito di una vera e propria “controrivoluzione”: PdL e Pd, insidiosamente convergenti, sotto l’egida fuorviante del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, stanno approfittando della grave crisi di recessione economica e di distruzione sociale per assestare alla democrazia economico-sociale, come modello originale di regolazione della vita economica e sociale, quel colpo di grazia mirante ad omologare la vita del nostro ordinamento a quella degli altri Stati occidentali, sotto la cupola di istituzioni europee contrastanti con le sovranità popolari.
È importante per questa lotta culturale e politica a difesa della Costituzione, che va considerata come un tutto organico, mettere in chiaro rilievo i tratti caratteristici della forma di Stato e – sotto la spinta della funzione costituente assunta dal Pci – della forma di governo adottati nell’Assemblea Costituente del 1946-1947, con la concorde elaborazione promossa dai tre grandi partiti di massa, Dc, Psiup, Pci, con a latere il Partito
7 http://www.ilsole24ore.com/
7
d’azione, il Pri, e il Pli, andando al cuore di una contraddizione cui non sfugge la strategia delle revisioni costituzionali, che punta allo stravolgimento della forma di Stato e di governo, pur consapevole del fatto che “una piena valorizzazione del Parlamento” e “un efficace controllo sull’operato del governo”, e un “più stretto raccordo con le istanze della società civile” si potrebbero conseguire pervenendo in tempi rapidi all’approvazione dei regolamenti parlamentari: senza, cioè, ricorrere alle revisioni costituzionali, oltretutto sovrapponendo al “comitato bicamerale” di 40 membri, una “commissione” di esperti a disposizione del governo (passata da 35 a 42 membri), per l’anticipato “approfondimento” delle diverse ipotesi di revisione. Di fronte all’intreccio tra gli obiettivi destabilizzanti l’attuale modello di organizzazione costituzionale e gli artifici procedurali tesi ad intaccare l’autonomia degli organi delle due camere rispetto ad un’iniziativa governativa del tutto abnorme in materia di revisione costituzionale, si rende indispensabile un supporto critico alla risposta democratica che urge, con il dispiegamento di un vigore maggiore di quello che è valso nel 2006 a far prevalere il NO al progetto berlusconiano nel referendum confermativo.
Infatti, le revisioni oggi in cantiere incombono per la capitolazione delle forze del centro-sinistra di fronte alla pressione divenuta incontenibile di un centro-destra che, sotto gli impulsi del ministro per le riforme istituzionali Quagliariello, con l’incalzante abnorme patrocinio del capo dello Stato, è divenuto dominus dell’operazione complessiva di snaturamento della Costituzione e, tramite essa, dei presupposti stessi della democrazia politica, economica e sociale del nostro paese.
Tale supporto non può limitarsi a denunciare i due aspetti più deleteri, e come tali più clamorosi, della manovra che, se non bloccata per eventi congiunturali imprevisti, rischia di concludere un itinerario che ha accompagnato, in parallelo alla lotta per l’attuazione dei principi costituzionali, le trame palesi e occulte per restaurare l’autoritarismo nella società e nello Stato:
a) da un lato, l’artificiosità di una procedura che, nella sua incostituzionalità, viene accentuatamente deformata giorno dopo giorno, sicché da 35 gli esperti di nomina governativa sono passati a 40, poi a 42, poi ancora 43, a conferma dell’arbitrarietà, pervasiva sin nelle minuzie, di un’operazione volta a sottomettere le due Camere;
b) dall’altro lato, la riforma dello Stato e del governo sotto il segno del “presidenzialismo”, o nelle pieghe di quel cosiddetto “semi-presidenzialismo” alla francese che cela un marchingegno sofisticato, al pari di un altro meccanismo verticistico improntato all’elezione diretta popolare, non già del Presidente della Repubblica, ma del Presidente del Consiglio.
Non ci si può esimere, infatti, dal sollevare il coperchio sopra le riserve che da parte di qualche costituzionalista sono state giustamente avanzate sulla violazione dell’articolo 138 e sull’insanabile contrasto tra la forma di governo presidenziale e gli istituti della democrazia economico-sociale contenuti nei Principi Fondamentali e nella Prima Parte della Costituzione: perché in tal modo si viene a scoprire che in modo obliquo la situazione è pervasa da arrendevolezza su tutti i temi proposti all’elaborazione delle leggi di revisione costituzionale, nel momento in cui si parla di “manutenzione”, o di questioni cosiddette “neutre”, come quelle riguardanti il numero dei membri delle Camere, la struttura e la funzione del bicameralismo, la salvaguardia delle prerogative del governo per garantire l’attuazione del programma.
È un atteggiamento remissivo, fatto proprio persino da quel gruppo di parlamentari (sotto la sigla di SEL) che hanno tentato invano di vedere approvate le mozioni volte a introdurre nella discussione proposte di più ampie forme di “democrazia diretta”, dichiarandosi però d’accordo sulla convinzione generale che l’impianto studiato e approvato dai padri costituenti in materia di ordinamento della Repubblica (parte Seconda della Costituzione) “richieda ormai una revisione”, e che sia “assolutamente necessario un percorso volto a promuovere, in tempi celeri”, una riforma della Parte Seconda della Costituzione (ordinamento della Repubblica): e quindi depotenziando il campo già ristretto delle forze culturali e politiche favorevoli al mantenimento della forma di governo parlamentare e della centralità del Parlamento.
3. La memoria storica della funzione costituente del Pci
Stanti così i rapporti politici, mentre il processo revisionistico ha preso il suo avvio nella commissione governativa di giuristi eterodiretti, per attivare una conoscenza e una critica non solo intrisa di “specialismo”, ma orientata da una coscienza di massa della grande posta in gioco, occorre risalire alle ragioni fondative del complessivo articolato della Costituzione repubblicana e democratica del 1948, adottata sotto la spinta del Pci.
8
Infatti, nonostante l’ambigua prospettiva federalista aperta dalla contorta revisione costituzionale del 2001 (per la caparbia intenzione del centro-sinistra di riassorbire, con soli 4 voti di maggioranza e con un referendum confermativo di tenue consenso, i conati secessionisti del leghismo) e le prime brecce aperte soprattutto con la recentissima revisione dell’articolo 81 (in nome del pareggio del bilancio statale come ricasco dell’incidenza dei poteri sovranazionali che, a loro volta, sono anticipati dai cedimenti di sovranità sanciti dai governi a quella finzione chiamata “Europa”), la nostra Costituzione presenta tuttora caratteristiche che la distinguono da ogni altra dell’Occidente.
Solo riprendendo una lettura meditata degli atti dell’Assemblea Costituente – in particolare i verbali della Commissione dei 75, del Coordinamento dei 18, delle tre Sottocommissioni sui diritti e doveri dei cittadini, sull’ordinamento della Repubblica, e sui rapporti economici e sociali, attraverso i contributi di Togliatti, Terracini, Laconi, Di Vittorio, Pesenti – ci si può rendere conto della qualità nuova acquisita nelle vicende storiche come conseguenza delle sempre più determinanti dinamiche sociali influenti sulla questione “istituzionale”. Quest’ultima è apparsa come dominante nelle fasi in cui si è andato costruendo il passaggio dallo Stato assoluto allo Stato liberale, nel segno del costituzionalismo come terreno di coltura della limitazione del potere in nome delle libertà politiche da costruire ed estendere via via, sulla scia sia della rivoluzione francese, sia di quella americana, a latere della più singolare storia della Costituzione inglese: il numero maggiore delle norme e delle convenzioni costituzionali ha avuto come epicentro i rapporti tra gli organi costituzionali, titolari – rispettivamente – del potere esecutivo, legislativo e giudiziario.
Bisogna nello stesso tempo tener presente il ruolo spettante alla natura dei metodi elettorali e alle ambiguità connesse alla loro efficacia “costituzionale”, anche se prevalentemente assunti con legge “ordinaria” per potervi influire con maggiore discrezionalità e arbitrio. È ciò che si sta verificando nelle attuali circostanze. La mozione di maggioranza ha avviato la procedura di revisione della forma di Stato, della forma di governo, per il superamento del bicameralismo paritario, per la riduzione del numero dei parlamentari e, buon’ultima, per la riforma del sistema elettorale.
È sempre aperto, infatti, il gioco del reciproco inganno tra i partiti del centro-destra e del centro-sinistra sui destini della legge elettorale vigente. Essa è portatrice di una “maxi-truffa” che fa impallidire la ben nota “truffa” insita nella legge elettorale del 1953, dal cui fallimento, dovuto alla strenua contestazione ad ampio spettro guidata dal Pci, ha potuto maturare la conseguente apertura di una fase nuova della lotta sociale e politica, specialmente con il deciso avvio all’attuazione dei principi costituzionali dei decenni immediatamente successivi.
4. Valorizzare l’organicità dell’impianto costituzionale
Ciò ha implicazioni assai rilevanti.
Infatti, sotto la veste di articolazioni “tecnicisticamente” separabili, tutte le questioni sottoposte a incursioni revisionistiche sono elementi che concorrono a delineare l’organicità dell’impianto costituzionale: la valutazione di ciascuna delle questioni su elencate si deve combinare con le altre, e soprattutto con quella riferita al sistema elettorale, che influisce sul carattere tanto della forma di Stato che della forma di governo. Non bisogna quindi lasciarsi disorientare dal contrasto tra la “rigidità” delle norme costituzionali che disciplinano i rapporti tra gli organi dei tre poteri, e la “flessibilità” delle leggi ordinarie, cui è rimesso il compito di adottare e modificare il metodo elettorale.
Al tal proposito, e proprio partendo dalla prospettiva di analisi organica dell’impianto costituzionale, va sottolineato che la stessa Assemblea Costituente è a sua volta il frutto della scelta adottata sin dal 1946 di avvalersi del metodo elettorale “proporzionale” come strumento di più coerente attuazione del collegamento tra il suffragio universale (divenuto anche femminile), il ruolo dei partiti, sopratutto di massa, portatori dell’ideologia antifascista sui versanti delle culture cattolica e marxista (oltre i limiti storici di liberalismo e liberismo), e il ruolo del Parlamento, nonché della rete di assemblee gravitanti sul territorio anche per l’innovazione “regionalista”.
Si è trattato di un dato-cardine di tutto il complesso sistema di rapporti tra i contenuti della Repubblica fondata sul lavoro. Repubblica quindi indirizzata a trasformare la società per quella che il Pci formulava come “transizione al socialismo” mediante una “democrazia progressiva” imperniata sui partiti concepiti come “la democrazia che si organizza”: a tal punto che fino all’inizio degli anni ‘90 il metodo della proporzionale “integrale” (o “pura”, cioè senza manipolazioni più o meno arbitrarie adottate in altri ordinamenti, come la Repubblica federale tedesca), ha potuto operare per le elezioni nei Comuni oltre una
9
piccola soglia, nelle Province, nelle Regioni, nella Camera dei Deputati, e nel Parlamento europeo, in nome di una concezione teorica del passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico, i cui istituti di nuovo conio in ambito economico-sociale implicavano il superamento della “separazione” dei poteri propri delle forme di Stato e di governo britannico e nord-americano, in una prospettiva di “coordinamento” necessario all’attuazione dei principi costituzionali nel segno dell’emancipazione e dell’eguaglianza non solo formale, ma anche “sostanziale”.
Il punto centrale per comprendere la necessità di collegare il metodo della proporzionale “pura” al funzionamento della forma di governo “parlamentare”, innovativa rispetto a tutte le forme di governo definite più o meno rigorosamente parlamentari nelle sequenze storiche tra ‘800 e ‘900, è nella funzione della nuova “sovranità” in quanto “popolare” e non più “statale”, cioè a base “sociale” e non artificiosamente “burocratica”. Da cui consegue il pluralismo sociale e politico che coinvolge in una sempre più ampia dinamica di rapporti sia i partiti che i sindacati, tali da incidere sul potere legislativo, da un lato, e sulla contrattazione collettiva, dall’altro.
Si spiega così perché ha rivelato risvolti decisivi anche sul piano “istituzionale” il tipo di collaborazione unitaria fondata sulla Resistenza e postasi a presidio della svolta verso la Repubblica, realizzata con il referendum del 2 giugno 1946, e verso la Costituente.
Pertanto, l’elezione con la “proporzionale pura” dell’assemblea Costituente è stata il filo conduttore del passaggio dallo Stato liberale alla “democrazia economico-sociale” tramite una nuova organizzazione del potere, cioè per uno Stato non più volto a consolidare l’ordine sociale esistente, ma a realizzare riforme economiche caratterizzate da obiettivi sociali, avvalendosi di un sistema di partiti coinvolti in un condizionamento reciproco e in un’alleanza tale da lasciare definitivamente alle spalle la tradizionale contrapposizione tra “maggioranza” e “opposizione”: cioè in una più avanzata forma di “governo parlamentare”, tramite la quale il Parlamento divenisse non più il luogo di una separazione tra la funzione di governo, riservata alla maggioranza, e una funzione di controllo relegata alle minoranze, ma il luogo della distribuzione della responsabilità di governo alle principali formazioni politiche, mettendo così fuori causa il principio tradizionale che ha visto nel governo parlamentare il meccanismo idoneo a mantenere solo l’avvicendamento dei partiti al governo dello Stato nella ben nota “alternanza” tra “destra” e “sinistra” propria del “bipartitismo”- e in modalità più elastiche del “bipolarismo”- proprie del sistema britannico e nord-americano.
5. Perché l’attacco è portato alla “forma di Stato” prima che alla “forma di governo”
Benché la questione della forma di stato sia al primo punto della mozione approvata in senato, essa viene sorprendentemente elusa nonostante che rispetto alla questione della forma di governo abbia significati complessivi ben più ampi, coinvolgenti rapporti non solo politici, ma anche economico-sociali.
E in proposito occorre rievocare i problemi teorici sollevati alla Costituente dall’intesa tra democristiani, socialisti e comunisti, sulla connessione tra i Principi Fondamentali e i principi della Prima Parte della Costituzione, per il perseguimento degli obiettivi “emancipatori” coinvolgenti l’interesse dei lavoratori, mediante la disciplina a fini sociali della proprietà e dell’impresa.
Si tratta di un passaggio resosi indispensabile proprio perché appare inevitabile la spiegazione dell’importanza acquisita per almeno un quarantennio dei principi “giuridici” qualificatori della forma di Stato di democrazia economico-sociale, divenuti nel testo del 1948 gli assi portanti di un passaggio epocale, dovuto alla forza cogente di norme “programmatorie” di processi di trasformazione di quelle che erano state le teste di capitolo dello Stato liberale a garanzia della proprietà privata e dell’impresa capitalistica.
Va pertanto sottolineato che sulla linea teorico-politica che è stata alla base dell’impostazione vincente di La Pira, Dossetti, Basso, Togliatti, Di Vittorio, Pesenti – cioè con una netta egemonia della cultura cattolica e marxista – le riserve più frenanti sono state sollevate dal Partito d’Azione, esauritosi come forza unitaria organizzata nel rapido passaggio della fase costituente: i suoi eredi oggi stanno accompagnando l’involuzione costituzionale, nel contesto degli effetti di trascinamento derivanti dall’intreccio tra i principi “comunitari” della UE e quelli dei singoli ordinamenti statali.
10
5.1. La posizione di Piero Calamandrei
Vessillifero della linea contestativa del completamento dei tradizionali diritti di “libertà” con l’inserimento di nuovi diritti “sociali”, è stato quel Calamandrei che – studioso di diritto processuale (e docente, negli anni costituenti, anche di diritto costituzionale) – è stato un esemplare interprete della distinzione delle “categorie” concettuali proprie dei “codici” come fonti “ordinarie” del diritto, dalla categoria concettuale delle fonti “costituzionali”, specialmente di carattere “rigido”. Sicché egli ha avviato la sua serrata, persistente contestazione delle proposte degli esponenti dei rappresentanti dei tre partiti di massa, addirittura sulla pregiudiziale teorico-politica della competenza della Costituzione ad intervenire in materia “istituzionale” -come, appunto, la “forma di governo” – a differenza che nella questione “sociale”.
In un saggio del giugno 1945, prima di intervenire nel dibattito costituente, Calamandrei fece opera di interdizione, sostenendo una tesi, divenuta ora dominante, secondo cui i nuovi diritti di libertà sociale rappresenterebbero per lo Stato una insostenibile “questione finanziaria”, al contrario dei classici diritti di libertà, la cui soddisfazione “non costa nulla allo Stato”8.
Senonché – a parte il sofisma, teso a eludere il fatto che gli stessi diritti di libertà si reggono sull’ordine pubblico assicurabile dai costi finanziari dello “Stato-apparato” (potere militare, di polizia, e giudiziario, come attestato dalle politiche di bilancio dell’800 e primo ‘900) – il problema teorico non era eludibile, se lo stesso Calamandrei, già prima di entrare a far parte della Costituente, sostenne che negare i diritti sociali “vorrebbe dire negare infatti la democrazia”: al punto da affermare che la questione sociale si presentava sulla soglia della Costituente “come la più importante e la più urgente delle questioni costituzionali”, poiché i diritti sociali vanno classificati tra i “diritti pubblici del cittadino”. Per poi concludere apoditticamente che solo la Costituzione russa del 1936 era riuscita con il suo sistema economico a trasformare gli astratti principi di giustizia “in realtà di vita vissuta” con istituzioni che “garantiscono l’attuazione pratica del principio proclamato”, mentre nella incombente entrata in funzione della costituente italiana “dovremo mestamente accorgerci che ci sarà consentito soltanto di porre alcune premesse consolatrici, segnare mete che servono da faro al cammino dei figli e dei nipoti”.
Che il ruolo della Costituzione Italiana si presentasse del tutto diverso, era stato precisato più volte da Togliatti di fronte ai richiami alla Costituzione sovietica fatti da La Pira e da Dossetti, perché nell’Urss erano stati costituzionalizzati i principi di una “rivoluzione già compiuta”, mentre in Italia ci si apprestava al “prologo”, e non “all’epilogo”, di una rivoluzione sociale. Quello che però Calamandrei sostenne a proposito del problema centrale, non solo “politico” ma anche “tecnico” della costituente, consisteva nell’antitesi, a suo dire, tra “politica” e “tecnica giuridica”, come anticipazione della sua inesausta contrarietà all’inserimento nel testo costituzionale di quella parte dei “diritti e doveri dei cittadini” derivanti dalla disciplina dei rapporti etico-sociali ed economici, da cui ha ricevuto la sua originale impronta la forma di stato di democrazia economico-sociale, con tutte le implicazioni sulla democrazia politica e sulla forma di governo parlamentare e delle autonomie che sono oggetto del dibattito principale.
Come la storia degli anni successivi – specie 1960-70- sta a dimostrare, dietro la querelle ripetutamente sollevata da Calamandrei stava una questione di fondo coinvolgente la natura e la funzione della scienza giuridica in generale e del diritto costituzionale in particolare, destinati a subire innovazioni metodologicamente rilevanti proprio in rapporto al ruolo di “tecnica” e “politica”: a causa del superamento della cultura liberaldemocratica, di cui risentiva conflittualmente anche il partito d’azione cui apparteneva Calamandrei, si andava dispiegando in Europa una tendenza a passare a politiche di welfare state, il cui impulso prendeva corpo sotto l’egida di “principi” aventi anch’essi portata “normativa”, come guida verso obiettivi nuovi conseguibili mediante vincoli da porre sia verso lo Stato, sia verso la proprietà e l’impresa privata.
Il che comportava la necessità di modellare la forma di governo con criteri “politici” coerenti con la qualità “sociale” delle rivendicazioni da realizzare. Calamandrei (già nella fase di direttive di massima per la redazione del progetto di Costituzione) metteva in dubbio che “le norme elaborate dalla prima e dalla terza Sottocommissione fossero veramente tutte norme giuridiche”9, tali da poter trovare posto in una legge. E denunciava infondatamente che, a supporto dei “cosiddetti diritti sociali, la determinazione dei mezzi pratici
8 Cfr. Calamandrei P., Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Vallecchi, Firenze, 1995, p. 91.
9 Per tutte le citazioni di Calamandrei, cfr. Paolo Barile, “La nascita della Costituzione. Piero Calamandrei e le libertà”, in Scelte della Costituente e cultura giuridica, II, a cura di Ugo De Siervo, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 15-59.
11
per rendere effettivi questi diritti non è stata fatta”, sempre sul presupposto che i diritti sociali “non sono veri diritti”. Ragion per cui, in rispetto “della più corretta tecnica giuridica”, i desideri che hanno “carattere sentimentale” ma non “un carattere giuridico” avrebbero dovuto essere sistemati in un irrilevante “preambolo” della Costituzione.
Né Calamandrei ha esitato a evidenziare quello che era un limite derivante dalla sua concezione del diritto risalente all’epoca della nascita del positivismo giuridico e della forma di Stato liberale, quando, nell’insistere nella sua pregiudiziale, ha rimarcato il fatto che egli era “componente della seconda Sottocommissione”, alla quale spettava il compito di delineare i principi dell’ordinamento repubblicano, e quindi anzitutto della forma di governo; doveva cioè trovare “i mezzi pratici” attraverso cui debbono essere tutelati i diritti enunciati dalla prima e dalla terza Sottocommissione. Alla base vi è l’idea che norme giuridiche siano propriamente quelle di natura “istituzionale”, nonché quelle che tutelano “i diritti politici in senso tradizionale”, donde il ripetuto ricorso ad ordini del giorno volti a sottili distinzioni tra articoli recanti “finalità etico-politiche” e articoli destinabili a diventare diritti sanzionati con leggi, ma “ancora non maturi” a contenere diritti perfetti e attuali.
La linea di attacco fatta come “giurista” era inequivocabile ed anche beffarda. Calamandrei, dopo aver affermato che l’art. 1 dice questa bellissima cosa: “La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro”, ha poi avanzato una domanda retorica: “quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?”. La natura dissacrante dei suoi interventi è confermata dalla denuncia a carico delle norme in cui si afferma che “l’iniziativa economica privata è libera” e quella in cui si specifica che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (si ride)”: per sostenere che la prima soddisfa “il conservatore, o liberale che sia”, e la seconda “il progressista”, e che quindi rimane aperto l’interrogativo se la Costituzione della Repubblica italiana sotto l’aspetto sociale sia a “tendenza conservatrice o a tendenza progressiva”, “individualista o socialista”. E il sarcasmo raggiunge l’acme rivelatore dell’animus del giurista, laddove egli ha ritenuto di poter dissacrare le norme sulle misure economiche per la formazione della famiglia, sulla tutela della salute, sull’esercizio del diritto all’istruzione con borse di studio e assegni alle famiglie, norme che rappresenterebbero “una forma di sabotaggio della nostra Costituzione”, perché con l’entrata in vigore della Costituzione “noi sappiamo che questo non può essere vero per molte decine di anni”.
A Calamandrei, sostenitore dell’idea che “per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”, vengono oggi enfaticamente riconosciuti meriti politico-culturali: egli criticò aspramente la fase “centrista” del quadripartito dominato dalla Dc, partecipò attivamente alla battaglia contro la “legge truffa” del 1953, che introduceva un sistema elettorale in senso maggioritario e attaccò l’”ostruzionismo della maggioranza” che aveva bloccato l’attuazione dei principi costituzionali della Prima, ma anche della Seconda parte.
Ora, in questa fase di attacco sistematico alla Costituzione con il concorso delle forze culturali e politiche eredi della fase costituente, è indispensabile chiarire che Calamandrei è stato assertore di una concezione “modernizzatrice” dello Stato, e quindi insieme “presidenzialista” e “federalista”, in linea con le più consolidate visioni dello Stato capitalistico, di cui gli USA sono stati il prototipo. Sicché le sue benemerenze postume ne completano la personalità di politico prima che di giurista, grande alfiere dei diritti di libertà, che non a caso viene definita “negativa”, rispetto a quella “positiva” da lui ritenuta priva di garanzie effettive.
Si tratta di una posizione culturale che si presta a una critica senza residui, ove si tenga presente che secondo Calamandrei la Costituente avrebbe fatto meglio a impegnarsi su non si sa quali “riforme” immediate, benché il suo compito fosse quello di emanare il testo costituzionale e che le sue riserve sulla pretesa non azionabilità dei diritti sociali sarebbe stata smentita da quando è entrata in vigore la Corte Costituzionale, così come è risultata subito infondata la tesi ossessivamente imbracciata sulla inconsistenza giuridica dei diritti sociali, a fronte delle norme “istituzionali”: come dimostra il fatto che l’istituzione effettiva delle Regioni a statuto ordinario ha atteso il passaggio di tempo che va dal 1948 al 1970.
Più ancora, il compendio di riforme civili e sociali, e di interventi di “governo democratico dell’economia” hanno avuto legittimazione mediante le norme cosiddette “programmatiche” che il comunista Crisafulli ha saputo subito inquadrare in una concezione del diritto in cui le norme di “principio” sono assurte a strumento di guida verso la trasformazione della società e dello Stato.
Certo, un’altra benemerenza Calamandrei si è conquistato nella rigorosa difesa dei diritti politici delle minoranze, e quindi delle opposizioni, facendone espressa applicazione al caso delle discriminazioni contro il partito comunista, da lui ritenute illegittime – al contrario di quanto sostenuto nella Germania federale – sia perché il Pci “ha partecipato in misura più elevata di ogni altro alla lotta di Liberazione, ed è storicamente
12
una delle forze fondatrici del presente ordine costituzionale; sia perché l’attività democratica di un partito non può essere sindacata o limitata sotto il profilo delle sue finalità ideologiche”. Donde la necessità di limitarsi al rispetto della fedeltà “esterna” al metodo democratico, cioè al rispetto del fair play elettorale parlamentare nella lotta con gli altri partiti.
5.2. I limiti della “Democrazia Costituzionale”
È quindi decisivo rilevare, avvalendosi di un’essenziale memoria storica, che i rischi da affrontare in questa fase nella quale si sono concentrati i problemi istituzionali più importanti – ad esclusione solo di quelli concernenti la magistratura – riguarda il tema solo accennato, pur essendo il primo in elenco, identificabile nella questione della “forma di Stato”, poco approfondita dai giuristi per quell’idiosincrasia che studiosi come Calamandrei hanno portato all’estremo, ma che più o meno palesemente coinvolge i giuristi, soprattutto “costituzionalisti”, i quali hanno scarsa dimestichezza con i contenuti dei rapporti sociali ed economici, tanto che solo il ristretto stuolo di giuristi competenti in materia di diritto amministrativo, di diritto commerciale e di diritto del lavoro, ha mostrato di sapersi orientare nelle tematiche del governo dell’impresa, pubblica e privata, della programmazione economica e della programmazione finanziaria. Il tutto con l’incidenza delle istituzioni sovranazionali, e le convergenti implicazioni sulla forma di Stato e sulla forma di governo dall’”esterno”, oltre che dall’”interno”.
Bisogna tener conto, altresì, delle modifiche intercorse nel “sistema politico”, nella sua composizione e condizionamento, sul sistema istituzionale, dopo la crisi dei partiti comunisti che sono stati, con diversa efficacia in Italia e in Francia, i punti codeterminanti della modifica – organica in un caso, e appannata nell’altro – della forma di Stato, con effetti a lungo andare delegittimanti.
Infatti, la cultura della “democrazia costituzionale” (Ferrajoli, Ferrara, Rodotà, Zagrebelsky), al di là delle apparenze, comporta una riduzione ai soli aspetti “istituzionali” dei contenuti qualificanti della democrazia economico-sociale del caso italiano: punta più sulle “garanzie” della rigidità della Costituzione che sul “potere di indirizzo delle assemblee elettive”, come se il conseguimento di obiettivi di sviluppo della comunità e quindi dei cittadini non dipenda dal tipo – variabile – di efficacia dell’uso dei pubblici poteri in campo economico-sociale.
Qui si manifesta la connessione tra le posizioni politico-culturali del partito d’azione e gli attuali interpreti di un liberal-socialismo (esemplare in proposito la posizione di Eugenio Scalfari e del gruppo de “La repubblica”) timoroso di nuocere agli interessi del ceto medio, contrario ad assecondare linee di intervento pubblico nell’economia mirate a promuovere effettivamente i diritti sociali dei gruppi più deboli. Diritti che le riforme di tipo “federalista”, avviate in nome del “mercato comune”, benché non ancora comprese in un modello definito, hanno gravemente leso, oltre che appesantire viepiù una “governabilità” irretita da centri di potere elevati a cupola sovranazionale.
Ecco perché, se si lascia in disparte l’approfondimento del passaggio da una forma di Stato storica all’altra,-il cui nucleo dei principi di fondo è il cuore dei conflitti di classe nei vari ordinamenti politico-istituzionali, si immiserisce in sequenze di modellistiche asfittiche la questione delle forme di governo che sono il residuo funzionale delle forme di Stato. Le sue teste di capitolo appartengono alla filosofia sociale e politica da cui i giuristi cercano di fare astrazione, in nome di un “purezza” metodologica che ne svalorizza i contributi scientifici, proprio nella misura in cui gli aspetti “tecnico-giuridici” si ammantino di una autonomia – che diventa anche contrapposizione – rispetto ai valori “politici” da cui tutti i segmenti dell’organizzazione del potere sono qualificati.
Perciò non esiste un “popolo sovrano europeo”: il “Parlamento europeo” è solo somma di spezzoni di rappresentanze “nazionali” con un potere esiguo di assurda “codecisione”, e i parlamenti nazionali alla loro volta sono succubi dei rispettivi esecutivi.
Le due parti di quella che si vuol definire “democrazia costituzionale” (sminuendo la portata complessiva delle definizioni) sono scindibili solo se si parte dalla svalorizzazione della “democrazia sostanziale” con ricaduta fatale sulla stessa democrazia “formale”. I giuristi sostengono che le due dimensioni della democrazia costituzionale sono tra loro già logicamente indipendenti, intese cioè come funzioni di “governo” e funzioni di “garanzie” di libertà sociale, la cui omessa attuazione è veicolo di riduzione della stessa democrazia politica, condizionabile dal nesso dei poteri “forti” padroni del mercato con i poteri “politici” autoritativi, a dimostrazione che la carenza di “democrazia economico-sociale” è per se stessa luogo di
13
incubazione di plebiscitarismi in cerca del “capo”, nella insoluta alternativa tra forma di Stato “liberale” e forma di Stato “socialista”.
6. La forma di Stato e le differenze tra il caso italiano e la Francia di De Gaulle
È quindi indispensabile sottolineare il passaggio di fase in cui è stata coinvolta la natura del principio di “rappresentatività”, introdotta dallo Stato liberale, retto dalla monarchia costituzionale/parlamentare, e nelle forme del cosiddetto “Stato di diritto” come portatore del principio di “legalità”, della tutela dei diritti “individuali” e del principio di eguaglianza “formale” fondato su una base sociale “ristretta”, circoscritta ai residui della nobiltà, nonché all’imporsi della classe “borghese”, che di conseguenza escludeva dal suffragio, e quindi dalla rappresentanza politica, i cittadini il cui livello di cultura e di censo era inferiore a soglie mutevoli sino al lento passaggio al suffragio universale, tra il 1913, il 1919, il 1946.
A tal punto che il metodo elettorale “uninominale/maggioritario” – sia a un turno (senza ballottaggio), sia a due turni – viene criticato perché contrario alla democraticità della rappresentanza politica, ma soprattutto perché preferito come il più adatto a contenere l’incidenza sugli equilibri socio-politici dello Stato liberale dopo l’entrata in campo del partito socialista e del partito comunista e poi anche del partito cattolico, persino nella preoccupazione di evitare che l’avvento dei partiti di massa potesse addirittura sostituire i partiti conservatori, propugnatori del metodo uninominale/maggioritario in quanto garante dello Stato “monoclasse”, dominato dal capitale, ormai affermatosi come nuova formazione sociale.
Per la cultura e per l’azione delle forze politiche democratiche è pregiudiziale la sovranità popolare, poiché la rappresentanza politica ha un senso compiuto se imperniata sulla dialettica del pluralismo sociale e politico; mentre per la cultura e l’azione delle forze politiche conservatrici/moderate la sovranità popolare non ha un valore assoluto, adducendosi che la Costituzione si configura come un “limite volto a contenere le forme precise inserite nel testo normativo del consenso popolare”.
Per la democraticità del voto pertanto è condizione irrinunciabile l’applicazione alle leggi elettorali del principio di uguaglianza del voto. Esso è sancito infatti nell’art. 48 della Costituzione: il voto, oltre che personale, libero e segreto, deve essere “eguale”, concretando il principio “un uomo/un voto”. Ciò dovrebbe essere tenuto sempre presente in ogni occasione di modifica dei metodi elettorali, come garanzia indefettibile della vigenza di tutti gli accennati requisiti della democraticità della vita politica in funzione degli obiettivi della democrazia economico-sociale inseriti nei Principi Fondamentali nella Prima Parte della Costituzione, che è l’asse qualificante del nuovo rapporto tra forma di Stato e forma di Governo, frutto del passaggio dal fascismo alla democrazia di tipo nuovo.
Si evince da tali premesse l’inadeguatezza dei manuali di diritto costituzionale a descrivere i passaggi di fase nella transizione dallo “Stato moderno” allo “Stato contemporaneo”. Essi tendono ad annullare la portata “universale” del suffragio via via intervenuto. Esso proietta la legittimazione della piena autonomia delle forze sociali – prima sistematicamente poste in condizione di passività in un sistema di potere che ne comprimeva il ruolo e i diritti personali e collettivi – verso il conseguimento dell’eguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale nei rapporti politici, economici e sociali.
6.1. Organicità dell’impianto costituzionale
Dell’accennata organicità dell’impianto costituzionale, nell’Assemblea Costituente ci fu piena consapevolezza, tanto che il 23 dicembre del 1947 – nell’imminenza dell’approvazione definitiva dell’intero testo – fu approvato l’o.d.g. Giolitti per l’elezione con il sistema proporzionale della Camera dei deputati, al di là di dubbi sul metodo da adottare per il Senato.
Si comprende meglio, quindi, perché la storia del costituzionalismo della Repubblica “fondata sul lavoro” sia incentrata sulla strategia dell’unità democratica dei tre partiti di massa sino a pochi passi dal compimento della funzione costituente, nonché sulle implicazioni della lunga stagione politica in cui la Democrazia Cristiana si è accanita e logorata nell’intento – sempre meno efficace oltre che illegittimo – di escludere prima i social-comunisti, e poi i soli comunisti dall’area governativa, con l’obiettivo principale di ritardare l’attuazione di quei principi che delineavano un nuovo rapporto tra società e Stato, con riforme sociali e istituzionali volte a cambiare completamente pagina nella lotta contro le rinnovate forme di dominio del capitalismo.
14
Benché il piccolo gruppo di costituzionalisti membri della Costituente abbia tentato di attenuare l’organicità del nuovo sistema politico-istituzionale in via di elaborazione (a tal fine fu approvato l’ordine del giorno Perassi, per introdurre “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”, 5 settembre 1946), il modello scelto presenta, come meccanismo di cosiddetta “razionalizzazione” della forma di governo parlamentare, il principio -peraltro non lesivo dell’autonomia delle Camere – secondo cui “non importa obbligo di dimissioni” il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del governo (articolo 94, quarto comma); nonché il vincolo di non mettere in discussione “prima di tre giorni dalla sua presentazione” la mozione di sfiducia firmata da “almeno un decimo dei componenti della Camera” (articolo 94, quinto comma). Ma la capacità di autonomia nel perseguire i propri indirizzi politici, palesata dai partiti proprio in funzione dell’attuazione dei principi riformatori della Costituzione, non solo ha influito sul ripudio dei difetti del parlamentarismo ottocentesco e del primo novecento, ma ha contribuito anche a rovesciare il mito della “governabilità” e della “stabilità” nel segno originale della “centralità” del Parlamento. Quest’ultimo, a metà degli anni ‘70, fu posto nella condizione di contenere l’autonomia del potere esecutivo, diventando il luogo delle scelte più qualificanti, anche a seguito del completamento dell’ordinamento regionale, prima coincidente con le sole regioni di confine, “a statuto speciale”, e non ancora “ordinario”.
6.2. Il ruolo dei sindacati
Notevole rilievo ha avuto altresì per l’affermarsi dell’autonomia delle forze politiche del Parlamento, la spinta sollecitata dall’autonomia delle forze organizzate sindacalmente, il cui pluralismo unitario ha avuto alle spalle il principio di “proporzionalità” espressamente previsto nell’articolo 39, sia pure come presupposto della registrazione per il conseguimento della personalità giuridica da parte delle loro rappresentanze unitarie.
Sullo sfondo, infatti, è da tener presente la rilevanza anche politica acquisita dal ricorso all’esercizio del diritto di sciopero, la cui piena espansione, secondo quanto perorato dai comunisti in sede di elaborazione degli articoli 39 e 40, si connette al fatto che non se ne previde nessuna preclusione: tale diritto si esercita “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e non “nei limiti” della normativa, come si sono premurati di sostenere quei giuristi che dimenticano la funzione di “sostegno”, oltre che di condizionamento, operabile dalle leggi, come conferma in materia di economia la vicenda regolativa del liberismo, sottolineata da A. Gramsci.
6.3. Il caso francese
La peculiarità del caso italiano di rapporto tra forma di Stato e forma di Governo trova poi decisiva conferma nel raffronto con il caso francese, le cui complesse vicissitudini nei vari passaggi di fase dal 1789 in poi sono cadenzate dalle diverse angolature dei rapporti tra Capo dello Stato, potere esecutivo e Parlamento, tanto che nella III Repubblica, sorta nel 1875, si è ritenuto di individuare – aspramente criticandolo – l’affermarsi di un c.d.”governo assembleare”, con una riduzione del classico potere di scioglimento proprio delle monarchie costituzionali e della titolarità del potere di attuare deleghe legislative da parte dell’esecutivo.
Per una serie di considerazioni che coinvolgono il confronto tra la crisi della IV Repubblica e il caso italiano del 1948, nonché l’avvento della V Repubblica e le adombrate opzioni per le riforme istituzionali commisurate al caso francese del cosiddetto “semi-presidenzialismo”, è essenziale registrare i caratteri differenziali, risalenti – contro le apparenze devianti di un raffronto limitato all’attribuzione dei vari organi costituzionali – alla diversa qualità della forma di Stato riscontrabile negli eventi che hanno determinato in Francia l’emanazione di due testi costituzionali.
Il primo fu respinto dal referendum come proiezione dei dissensi tra Mrp, Sfio e Pcf sul valore della dichiarazione dei diritti e con efficacia ridotta del metodo elettorale proporzionale, per la diversa tendenziale convergenza volta a volta tra Sfio e Pcf o tra Sfio e Mrp; mentre nel “caso italiano” vi fu un ampio schieramento unitario dei tre partiti di massa. Con la conseguenza che, mentre il Pcf puntava al monocameralismo, che la cultura dominante confondeva arbitrariamente con il governo assembleare della terza repubblica (peraltro fondata sul “notabilato”, e non sui “partiti”), le altre formazioni politiche si arrovellavano con la solita enfasi a favore dell’esecutivo in senso antiparlamentare, sul rafforzamento di
15
potere del Capo dello Stato, sia verso il Governo, sia verso il Parlamento, nel quadro di un assetto “bicamerale disuguale”.
Premesso quindi che, tra i testi costituzionali francesi, quello approvato dal secondo referendum mancava della cosiddetta “parte sociale” con il riferimento analitico ai diritti economici e sociali relegati al “preambolo” (sostituito nel testo italiano dai Principi Fondamentali), è agevole comprendere quali criteri abbia ispirato il contrasto tra Mrp e Pcf sulla questione del monocameralismo, facendo optare per soluzioni di cosiddetta “razionalizzazione” come l’ipotesi dello scioglimento della Camera “in caso di due crisi intervenute nel corso di 18 mesi”, in un contesto dominato dal ruolo del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio. Sicché nel periodo tra il 1946 e il 1954 il dibattito politico è stato dominato dai temi delle “riforme istituzionali” in uno stato di crisi endemica del sistema.
Un peso determinante ebbe il generale De Gaulle come vero e proprio deus ex machina delle vicende che dalla Resistenza si sono sviluppate sino alla nascita e al consolidarsi della V Repubblica, sotto l’emblema di un potere referendario usato già per la scelta tra la prosecuzione della III Repubblica e l’elezione di un’Assemblea Costituente, nonché per l’approvazione della Costituzione (salva quindi la necessità di ricorrere all’elezione di una seconda Costituente, come poi è avvenuto). Ma soprattutto, dopo il pronunciamento militare e il conferimento nel 1958 di pieni poteri al rientrante generale De Gaulle, fu emanata una legge costituzionale da sottoporre al referendum per l’elezione del presidente della Repubblica da parte di un collegio di “grandi elettori”, legge seguita nel 1962 da un “rottura” costituzionale: anziché alla procedura di revisione costituzionale si ricorse allora all’adozione di una legge “concernente l’organizzazione dei pubblici poteri” da sottoporre al referendum su impulso presidenziale, per il passaggio all’elezione diretta del presidente della Repubblica.
Come si vede, senza questa precisazione non è possibile dare un senso ai tentativi di estendere anche all’Italia quel sistema denominato “semi-presidenziale” per differenze dal presidenzialismo tipico degli USA, che – comportando un ruolo a sua volta dominante del Presidente del Consiglio – esprime piuttosto i caratteri di un “bicefalismo” e di una “diarchia”, come venutasi a consolidare nei decenni successivi nella forma della cosiddetta “coabitazione” tra un Capo dello Stato “gollista” e un Presidente del Consiglio socialista, e poi anche tra un capo dello Stato socialista e un Presidente del Consiglio di destra, dopo che anche a sinistra ci si è assuefatti al primato della “governabilità” su quello della “rappresentatività”: stante, appunto, il carattere liberaldemocratico della forma di Stato francese.
Tanto più che – a conferma dell’organicità della questione elettorale e di quella della forma di governo – per dar vita al bicefalismo di quella che è stata anche definita “monarchia repubblicana”, si è adottato il metodo elettorale uninominale/maggioritario a due turni, completando il processo di separazione dalle istituzioni della società, governata dall’alto, con detrimento degli interessi sociali conculcati da un capitalismo sempre più aggressivo.
Dal confronto tra i casi francese e italiano – che hanno perduto via via i contorni di affinità segnati dalla presenza nei due ordinamenti dei due più importanti partiti comunisti d’Occidente – si può dedurre come mai il presidenzialismo, ripudiato in Francia nei testi costituzionali del 1946 e del 1948, abbia potuto in un dodicennio prendere forte quota, a differenza che in Italia, dove alla Costituente solo il partito d’azione prospettò tale soluzione, insieme all’opzione “federalista” anziché “regionalista”. Mentre a latere dei partiti antifascisti, il solo partito neofascista (Msi, poi Alleanza Nazionale) si riallacciò all’eredità presidenzialista della Repubblica Sociale Italiana, vendicatrice della destituzione del suo capo il 25 luglio del 1943.
Va nel contempo osservato che la destra gollista non è giunta al punto di assimilarsi a vocazioni di tipo fascista, risentendo della miscela dei precedenti storici che vanno dalla monarchia assoluta alla monarchia limitata e al bonapartismo. In Italia, invece, tali vocazioni di tipo fascista si sono fatte sentire in modo palese e occulto: l’impegno per l’attuazione dei principi innovatori della democrazia economico-sociale è stato contrastato sia da scelte politiche ritardatrici promosse dall’area moderata del centrismo prima e dal centro-sinistra poi, ma in modo più subdolo e pericoloso anche da tentativi di forzare la democraticità stessa del sistema introdotto dalla Costituzione mediante piani di tipo eversivo imperniati su obiettivi di verticalizzazione dell’organizzazione dello Stato, perché erano storicamente consolidate le tendenze istituzionali di governo dall’alto a dominare la società e a interdire il dispiegarsi delle lotte necessarie per trasformare i rapporti sociali.
16
6.4. Sì alla repubblica parlamentare delle autonomie. No al presidenzialismo federalista neo/centralista.
Nel quadro dei motivi più complessivi che militano a favore della strenua lotta culturale e politica per la salvaguardia integrale della Costituzione nata dalla Resistenza e fondatrice di una democrazia economico-sociale che si distingue ancora da tutte le Costituzioni dell’Occidente europeo, un posto essenziale è venuto assumendo il ruolo del Presidente della Repubblica. Tanto più nella sequenza dei comportamenti che hanno trascinato il Capo dello Stato nel gorgo di una crisi del sistema politico tale da assoggettarsi ad una rielezione non gradita, e però accettata a condizione di forzare i rapporti tra Governo e Parlamento verso la formazione di una compagine ministeriale composta da partiti riottosi, e concordi solo nell’intento di incidere a carico dei connotati più emblematici della Repubblica parlamentare e delle autonomie.
Infatti, la più viva preoccupazione va sollevata di fronte al fatto che il tralignamento della funzione equilibratrice e di imparzialità subìto negli ultimi anni dal protagonismo del Presidente della Repubblica, anziché indurre le forze politiche e i costituzionalisti a invocare il rientro del ruolo del Capo dello Stato negli ambiti di un corretto funzionamento dei rapporti fra Governo e Parlamento senza interferenze che minano la rappresentatività dell’unità nazionale, fa assistere ad una intensificazione, ai limiti del consentito, della perorazione di un passaggio traumatico da un modello di Repubblica parlamentare ad un modello di Repubblica presidenziale.
Operazione che per la sua qualità incidente sulla forma di Stato, oltre che sulla forma di governo, implica il ricorso a un potere “costituente”, ben oltre i limiti del potere di revisione costituzionale, il cui compito è solo quello di emendare aspetti particolari di un sistema costituzionale da consolidare secondo gli sviluppi dei rapporti sociali e politici.
6.5. Il ruolo del capo dello Stato nel disegno organico della Costituzione democratica
Nel ribadire, quindi, la priorità che incombe in favore di un riequilibrio dei rapporti tra il Presidente della Repubblica e gli organi del governo parlamentare – con gravitazione sul sistema delle autonomie locali e sociali – va conseguentemente rimarcato che il disegno di tali rapporti è inscritto nella Seconda Parte della Costituzione in stretta interdipendenza sia con i Principi Fondamentali, sia con la Prima Parte della Costituzione, per una sequenza tra sovranità popolare, funzione dei partiti politici, natura della rappresentanza parlamentare, e organizzazione dell’esecutivo, tale da consentire, nella varietà delle dinamiche sociali e politiche, l’esplicazione del potere legislativo necessario al conseguimento degli obiettivi della democrazia politica, economica e sociale. In tale contesto, il Capo dello Stato – non più capo dell’esecutivo, come nella monarchia – sopravvive storicamente nel disegno della Costituzione democratica fondata sul lavoro come organo di fluidificazione dei rapporti non solo con il governo e con il Parlamento, ma anche con il Consiglio Superiore della Magistratura e con la Corte Costituzionale, per una variegata sintesi alla quale è estranea ogni autonoma espressione di indirizzo politico, che, come tale e nelle sue articolate forme, si esplica attraverso le tre funzioni – legislativa, esecutiva e giudiziaria – con gli sviluppi richiesti dalla rigidità della Costituzione.
6.6. Le argomentazioni fuorvianti dei fautori del presidenzialismo
Per capire, allora, come mai invece di operare per un “ritorno alla Costituzione”, si stia accanitamente predisponendo una procedura contrastante con le norme sulla revisione costituzionale, pur di condizionare le due Camere sulla base di un “manufatto” predisposto da costituzionalisti di ispirazione “governativa”, occorre tener conto del carattere deviante dei motivi addotti per assegnare al nostro sistema politico-istituzionale quell’attitudine alla “governabilità” che ci si affanna a drammatizzare come carente: e ciò ad onta di quanto da oltre un trentennio è in atto, con una serie di “stop and go” che hanno progressivamente chiuso il Parlamento in una morsa di decreti-legge, di decreti-legislativi, con reiterati ricorsi a voti di fiducia, riguardanti non solo la materia sociale ed economico-finanziaria, ma finanche la struttura del Consiglio dei Ministri e la separazione o la compattazione di ministeri, con ricasco a carico di un’incontenibile inefficienza degli apparati amministrativi.
17
Pertanto, se nettamente fuorviante è il mito della “governabilità”, che è divenuta sempre più l’alibi per uno stravolgimento dei rapporti politico-parlamentari verso un bipolarismo rissoso e nocivo per il soddisfacimento dei bisogni sociali, occorre volgere l’attenzione ai motivi di fondo che caratterizzano le differenze tra le forme di governo.
Esse, specie da fine ‘800 in poi, vanno poste in collegamento con i fondamenti ideologici delle forme di Stato intorno a cui ha ruotato la storia moderna e contemporanea nel contrasto tra liberalismo, fascismo, democrazia, a loro volta inseriti nelle pieghe di rapporti non solo interni alla società nazionale, ma anche all’intersezione tra tali società, come mostra il processo di europeizzazione, a sua volta in crisi per motivi legati a problemi di natura istituzionale.
6.7. Il presidenzialismo: rivendicazione storica della destra reazionaria
Stando quindi al caso italiano, non ci vorrebbe molto, seguendo la storia delle lotte di classe, a reperire un filo conduttore della chiave di lettura presidenzialista sul versante della destra reazionaria già negli anni in cui era in corso la Resistenza, quando negli ultimi conati il fascismo di Salò si appellava al presidenzialismo repubblichino come vindice della monarchia del 25 luglio e dell’8 settembre; mentre gli epigoni di Salò, sotto gli emblemi del Msi, poi Alleanza Nazionale, hanno mantenuto le linee di una scelta di continuità con il mito dello “Stato forte” in netta antitesi con lo “Stato democratico”, per motivi cioè che hanno a che vedere con la gerarchia fra le classi, anziché con quelli più “burocratici” di una funzionalità degli esecutivi.
Né basta, perché a latere di tale scelta estrema, contraria ai principi di fondo dell’antifascismo, si è venuta via via organizzando in forma minoritaria una destra conservatrice più o meno intimamente connessa con la Democrazia Cristiana, quando la lotta contro i social-comunisti e poi contro i soli comunisti ha indotto gruppi palesi ed occulti – si pensi al ruolo della Loggia massonica P2 – a tramare contro le istituzioni repubblicane, antifasciste, democratiche, per impedire l’attuazione dei principi costituzionali come espressione di un progetto di società volto ad eliminare gli ostacoli alla trasformazione dei rapporti economico-sociali.
Tali forze non si accontentano di perseguire obiettivi che privilegiano l’economia sulla politica, il mercato sulla democrazia, secondo principi di un liberismo antisociale di per sé volto ad infierire sul movimento operaio e sugli altri movimenti che le devastazioni del capitalismo pongono ai margini della vivibilità, ma esprimono l’imperativo di un salto di qualità che riporta le lancette della storia ad una fase affine a quella in cui l’autorità dello stato-apparato offuscò le potenzialità dello stato-comunità: non solo, quindi, dando il primato all’esecutivo sul legislativo, ma addirittura “personalizzando” il potere, e quindi dotandolo di poteri di supremazia atti a rendere subalterne le masse, con processi al tempo stesso di populismo e/o di estraniazione.
6.8. I due prototipi di Inghilterra e USA: Stato fondato su una gerarchia sociale conforme agli interessi del capitale
La materia dei cosiddetti “modelli” di forma di Stato è divenuta sfuggente, sia perché a quelli “astratti” non ne corrisponde in modo preciso alcuno in “concreto”, sia perché dal concorso di costituzionalisti, politologi, sociologi e “opinionisti” vengono elaborate ricostruzioni che nella miscela di elementi “formali” e “materiali” finiscono per lasciar aperta ogni fuoriuscita da un modello all’altro, stante l’utilità di un risultato a totale carico della democraticità dei sistemi di governo distribuiti nell’Europa sia orientale che occidentale. Per orientarsi in tale babele incontrollabile anche dai più “competenti”, occorre tener conto dei soli dati di fondo di sicura qualificazione, che sono desumibili dal fatto che i due soli sistemi assunti come paradigmi della proliferazione di sistemi di governo esistenti, e a loro volta come spartiacque di due maxi-classificazioni, sono, da un lato, il sistema britannico – governo di gabinetto, premier capo del partito vincente col metodo uninominale – e, dall’altro lato, il sistema USA – governo presidenziale, di uno Stato federale, con separazione dei poteri, presidente e due camere elettive, con metodo uninominale.
I due paradigmi, che divergono per la diversa disciplina dei rapporti tra esecutivo e legislativo, sono prototipi, perché entrambi con diverse “modalità” esprimono, all’ombra del suffragio universale, una gerarchia sociale, attestata dal basso profilo di partecipazione elettorale dei gruppi subalterni, e dalla diffusa accettazione della forza autoritaria dello Stato, più nettamente nel caso del presidenzialismo, rispetto al caso
18
del “premierato”, con leader del partito vincente, che può promuovere lo scioglimento del Parlamento, al contrario del presidente USA che, però, non può neppure essere sfiduciato, al contrario del premier inglese.
I due paradigmi, come espressione più stretta della conformità dello stato agli interessi del capitale in Inghilterra e in America del Nord, proprio perché “tipici”, non sono risultati però riproducibili in modo plastico. Ciò per ragioni legate generalmente alla mancanza nei vari Stati delle condizioni definite di “omogeneità” sociale, che mettono Premier e Presidente al sicuro da crisi organiche, in coerenza con gli obiettivi assegnati al loro potere.
6.9. Le insoddisfacenti imitazioni dei modelli anglosassoni nell’Europa continentale e il “modello francese”
In ciò stanno le ragioni per cui nell’Europa continentale i tentativi di conformarsi a tali modelli si sono succeduti nel tempo a fasi alterne: sono prevalsi fino alla metà del ‘900 quelli volti, con il governo “parlamentare”, a imitare quello “di gabinetto”, senza esiti soddisfacenti, come dimostra la storia del parlamentarismo della Francia. Qui i passaggi dalla III, alla IV, alla V Repubblica – come si suole caratterizzare le differenze di fase storico-politica – documentano le forme di “instabilità” dei governi per cause risalenti a crisi più meno endemiche nei rapporti tra i notabili, prima, e i partiti politici, poi.
Le forme di ricaduta costituzionale delle crisi del sistema politico francese attengono all’uso del potere di nomina e revoca dei ministri da parte del Presidente del Consiglio, di ricorso alla fiducia verso il solo Presidente del Consiglio o verso l’intera compagine governativa, modi e tempi dello scioglimento delle camere: il tutto, però, valutabile alla luce dei motivi di contrasto nella scelta degli indirizzi di politica internazionale ed interna, soprattutto di carattere economico-sociale.
Risalendo a tali tipi di cause – di cui è intessuta la storia delle due Costituzioni francesi, la prima respinta e la seconda approvata negli anni 1945-46 mediante referendum – è possibile prendere atto del profilarsi di un modello nuovo di presidenzialismo, diverso da quello degli USA, sulla spinta eversiva del generale De Gaulle: modello che non è assimilabile a quello americano per ragioni connesse alla natura e agli obiettivi dei partiti politici, stante il peso che i partiti di massa, usciti dalla resistenza francese come da quella italiana, hanno manifestato in termini tali da sollecitare esiti imprevedibili alla dinamica sociale e politica e al suo trasferimento nel Parlamento.
6.10. Differenze di fondo tra la situazione francese e quella italiana
Ora che in Italia si sta tentando di trasformare la forma di governo insistendo sul cosiddetto “semipresidenzialismo”, occorre mettere in piena luce il fatto che quella sorta di colpo di stato che nel 1958 ha portato la Francia a una riforma costituzionale di rafforzamento del potere esecutivo è stata la traduzione di una crisi nei rapporti fra i tre grandi partiti di massa.
Ben diverso è il caso italiano, dove, al contrario che in Francia, l’azione di lotta del Pci è valsa, specie negli anni ‘60-’80, a imporre iniziative unitarie nonostante la “conventio ad excludendum” dal governo, rendendone vani i tentativi di isolamento nella società e nelle istituzioni, ed anzi concorrendo, nelle fasi più incisive, a dare compiuto ruolo alla centralità del Parlamento.
Tanto più è insostenibile, quindi, il tentativo di applicare meccanicamente la forma cosiddetta “semipresidenziale” francese al caso italiano.
Infatti, in Francia il testo costituzionale entrato in vigore dopo la bocciatura del precedente aveva perduto le caratteristiche della Prima Parte, che qualificano tuttora quella italiana, legittimando una ripulsa dell’alterazione della forma di governo da parte di quelle forze sociali e politiche che si battono per obiettivi di democrazia economico-sociale. In Francia, invece, lo stesso partito socialista, già con Mitterrand, aveva finito per conformarsi alle regole dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, come fondamento di un sistema di governo “bicefalo”, di formale “diarchia”, con cui il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio da lui nominato sono posti in condizioni di governare – anche in forma di “coabitazione”, se di partito diverso – rendendo i partiti politici semplici appendici di un sistema di poteri personalizzati e concentrati.
19
6.11. Pervasività del presidenzialismo in Europa. È in pericolo la democrazia politica, oltre che sociale.
Di fronte a una prospettiva così carica di pericoli per la sopravvivenza della stessa democrazia politica, oltre che di quella sociale, occorre la massima capacità reattiva, tenuto conto della pervasività raggiunta dall’uso più o meno simile di tale modello in altri paesi dell’Europa occidentale (Austria, Finlandia, Irlanda, Islanda, Portogallo), e dell’Europa orientale (Bulgaria, Croazia, Polonia, Romania, Slovenia), tramite la combinazione dell’elezione del Capo dello Stato (con ballottaggio), e l’elezione a doppio turno dei parlamentari, con effetti riduttivi del pluralismo politico, oltre che di concentrazione al vertice del potere, benché suddiviso o accumulato.
6.12. La revisione presidenzialistica di stampo francese stravolgerebbe il modello complessivo di forma di stato e di governo della nostra Costituzione
Se poi si tiene conto della legge elettorale in vigore e sempre in attesa di modifica, è evidente come la revisione presidenzialistica di stampo francese rappresenterebbe un arretramento che stravolge il modello complessivo di forma di stato e di governo, operato con una procedura viziata e sotto l’influsso di una cultura costituzionalistica assunta al servizio di un governo indebitamente protagonista preminente dell’indirizzo delle leggi di revisione ipotizzata dal Presidente della Repubblica e dal governo.
6.13. Il federalismo accentua il centralismo…
Le riserve di fondo contro la verticalizzazione del potere in forma “bicefala” o “diarchica” anzichè “semi-presidenziale” – come si suol dire, credendo così di meglio differenziare il metodo francese dal paradigma degli USA – vanno portate all’estremo se si tiene conto dell’incombere della prospettiva federalista aperta dalla revisione costituzionale del 2001, imposta, per soli 4 voti di maggioranza, da un centro-sinistra illuso di poter blandire il secessionismo leghista. Infatti, contrariamente alla demagogia populista sul decentramento, la forma federalista dello stato accentua, anzichè attenuare, l’impianto centralistico di un sistema di rapporti privilegiati tra gli esecutivi degli stati, o regioni (come si chiamano in Italia e in Germania) convergenti a legittimare le scelte dello stato federale in senso stretto, il cui culmine è appunto rappresentato dal Presidente eletto dal popolo.
6.14. No all’elezione diretta del presidente del consiglio!
Va nel contempo colta l’occasione per sottoporre a netta ripulsa l’idea, affacciata più volte nei dibattiti recenti e ripresa proprio in questi giorni dal leader del centro-destra, sull’elezione da parte del popolo dello stesso Presidente del Consiglio dei Ministri, in una esasperata ricerca di imitazione del paradigma del premier britannico.
Vi sarebbe così il primato assoluto di un organo monocratico legittimato a decidere da solo, persino con il potere di emanare decreti-legge senza il presidio di un controllo sia pure formale del Capo dello Stato, che -per quanto divenuto effimero nella sostanziale complicità dell’ultimo periodo del settennato di Napolitano -poteva comunque dar luogo in linea di principio a un contenimento nell’esercizio di un potere divenuto abnorme proprio per l’abbandono di ogni scrupolo imposto dal rispetto della forma di governo parlamentare. La quale oggi è deprecabilmente rifiutata in nome del conservatorismo ideologico e sociale tradotto in ideologia politico-istituzionale sotto la spinta, altresì, di una deriva europeistica dei sistemi di governo degli stati-nazione, coinvolti in una duplice pulsione antidemocratica e antiparlamentare, dall’interno come dall’esterno.
20
7. Le ambiguità e le insidie della revisione della forma di governo parlamentare, con trasformazione del bicameralismo, riduzione del numero dei parlamentari, introduzione della “sfiducia costruttiva”
Chiarite le ragioni che rendono inaccettabile una dirompente trasformazione della forma di governo parlamentare in una qualsiasi forma di governo presidenziale, occorre rendersi conto dei pretesti che hanno sin qui accompagnato come forme di apparente “minimalismo” – presentate come naturale “manutenzione” efficientisticamente “neutra” – le proposte di intervenire a carico del Parlamento, per meglio assecondare revisioni al di là di quanto deciso con la legge n. 400/88 sul ruolo e sulla struttura del Governo, con particolare riguardo al Presidente del Consiglio e al potere di normazione fondato sulla cosiddetta “delegificazione”.
Infatti, con tali specifiche innovazioni non solo si tenta di sfuggire a quella che rimane comunque una visione necessariamente organica dell’impianto costituzionale, ma, soprattutto, si cerca di occultare dietro questioni apparentemente di “routine” tecnico-giuridica l’intento reale di snaturare e depotenziare il principio di “rappresentatività”, già colpito gravemente dalle inarrestabili tendenze in atto a dare preminenza al Governo, tramite l’uso esorbitante della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia su cosiddetti “maxi-emendamenti”, che mortificano il ruolo del Parlamento, deformandone la composizione sotto i due distinti profili del numero dei membri e della qualità delle funzioni: con l’aggiunta del singolare istituto della cosiddetta “sfiducia costruttiva”, trasferito di peso dalla Costituzione della Germania federale e che sarebbe destinato ad alterare in modo organico la natura della forma di Governo parlamentare complessivamente intesa.
7.1. La riduzione del numero dei parlamentari
Per la riduzione del numero dei parlamentari, in particolare alla Camera dei deputati, viene ripetuta, fra le varie indicazioni, la cifra magica di 400, cui si fece più volte riferimento nel periodo fascista, con una proposta del guardasigilli Alfredo Rocco, accolta nella legge numero 1019/28, e persino nel 1937, nella fase di elaborazione di quella che poi fu la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
La singolare insistenza su tale contenimento del numero dei deputati va stigmatizzata come indice di una versatilità ad accogliere persino la cancellazione della rappresentatività “democratica” operata dal fascismo. Oggi il depotenziamento delle funzioni legislative e di controllo si attuerebbe proprio in una fase della vita della società e delle istituzioni che richiederebbe invece un ampliamento del numero (attualmente di 630) per un impegno capillare a fronte dell’estendersi delle funzioni di governo.
Invece di assecondare quelle campagne di “antipolitica” che dilagano a causa della metamorfosi dei partiti di massa in gruppi di potere “acchiappatutto” – campagna che è favorita da uno snaturamento dei rapporti tra Governo e Parlamento, ritenuto addirittura insufficiente a favore del potere esecutivo già onnivoro incontrollatamente – occorre additare nelle proposte di riduzione del numero dei deputati il punto d’arrivo di una linea strategica di endemico antiparlamentarismo. Tale linea fa del plebiscitarismo elettorale il volano di un sostanziale “commissariamento” dei vertici dello Stato, sia che si punti al presidenzialismo, sia che si punti all’elezione diretta del Presidente del Consiglio a imitazione di un “premierato” eretto su basi politico-istituzionali simili, ma non uguali, a quelle storicamente affermatesi in Gran Bretagna.
7.2. Bicameralismo
Tale questione va affrontata insieme con quella – a sua volta apparentemente insolubile pur nella sua stretta inerenza alla natura del raccordo Governo/Parlamento – che ha preso troppo facile piede in una disputa sulla scelta tra bicameralismo “diseguale” e bicameralismo “eguale”. Tra l’altro, è del tutto singolare che venga acriticamente enfatizzato il valore di per sé negativo, perché antidemocratico, del concetto di “disuguaglianza”, sempre più conclamato a carico del concetto di “eguaglianza”, che è l’asse di riferimento dei “valori” democratici.
Pure qui, e in modo più deleterio, si cerca di accreditare l’idea che la questione del bicameralismo sia una questione “tecnica”, anch’essa isolabile come quella del numero dei deputati. Si pensa così di rendere eludibile una contrapposizione tra disuguaglianza ed eguaglianza per una maggiore accettabilità dei criteri di
21
discussione dei motivi oggi in voga per contrastare il concorso di Camera e Senato a svolgere le funzioni parlamentari unitarie nel loro combinarsi, in quanto “paritarie” nella loro legittimazione.
7.3. L’apparente arcano del “bicameralismo eguale”
Ciò impone, allora, di sciogliere l’apparente arcano del “bicameralismo eguale”, dovuto a una causa scientificamente e politicamente di notevole rilievo, misconosciuta per la tendenza dei costituzionalisti – ma anche dei politologi – a trascurare la valenza “sociale” delle istituzioni, e quindi dei rapporti politici ed istituzionali in cui sono incardinati i rapporti tra gli organi costituzionali.
Sicché, per il Senato assume particolare rilievo la storia della funzione che ha visto nascere – particolarmente in Gran Bretagna – la Camera dei Lord a fianco dei Comuni, organo divenuto via via architrave della forma di governo “di gabinetto”, in quanto rappresentativa dell’intero corpo sociale, al contrario della Camera dei Lord, rappresentativa per diritto naturale dell’interesse della nobiltà, e quindi affine agli interessi dinastici della monarchia.
Benché oggi i manuali tendano a tacere sulla tradizionale contrapposizione tra camera “bassa” e camera “alta”, non si può eludere la ricostruzione storica della composizione dei Parlamenti, senza di che il bicameralismo sarebbe di incerta ricostruzione funzionale, nell’evoluzione che le forme di governo hanno assunto per affrontare le finalità dello Stato.
Il Senato è stato istituito per rappresentare gli interessi di classe “aristocratici”, contrapponendo organicamente la nobiltà fondiaria alla borghesia di commercio, artigianato e poi industria, interpreti di esigenze di innovazione imperniata su valori mercantili ed individualistici a un tempo.
Pertanto, fulcro del bicameralismo è l’istituzionalizzazione in seno al Parlamento, così come è nato in Gran Bretagna, di un dualismo che – prima ancora che articolarsi nei rapporti del Governo con l’organo “monocratico” del Capo dello Stato e il Parlamento – è sostanzialmente attestato dalla destinazione automatica della parte più conservatrice del Parlamento, in quanto organo non elettivo, rispetto a quella parte del Parlamento – la Camera dei Comuni – potenzialmente progressiva e destinata a contrapporsi al sovrano per condizionarne la direzione del governo già a partire dalla legittimazione della nomina del gabinetto mediante l’istituto della “fiducia”.
E infatti lo Statuto Albertino del 1848 ha dato precedenza al Senato rispetto alla Camera dei Deputati, ai Ministri e all’ordine giudiziario, composto di membri “nominati a vita” dal Re, scelti entro ventuno categorie di “notabili” quali espressione delle forme più elevate dell’organizzazione politica e civile, nonché dei meriti o servizi eminenti, e del censo valutabile in ragione “dei beni o della loro industria”. La posizione di diretta dipendenza dal Capo dello Stato è confermata dalla nomina regia del Presidente e dei Vicepresidenti del Senato, del quale facevano parte “di diritto” i Prìncipi della famiglia reale, seguendo in ordine “immediatamente” dopo il Presidente. Nel contempo, il Senato aveva il potere di giudicare i Ministri accusati dalla Camera dei Deputati, essendo costituito in Alta Corte di giustizia per giudicare dei crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato: solo in forza di un ordine del Senato ogni senatore poteva essere arrestato (fuori del caso di flagranza di reato).
Delle sessioni del Senato e della Camera fu fissata una eguale durata, così come il concorso alla discussione e approvazione delle proposte di legge, dando preferenza alla Camera dei Deputati nell’ordine di presentazione delle proposte di legge in materia di imposte e di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato; il che dette motivo alla richiesta dei deputati liberali più progressisti di vedere attribuita alla camera “bassa” non solo una priorità nell’esame dei provvedimenti in questione, ma persino l’attribuzione del diritto di iniziativa di emendamento.
In tal modo le vicende che hanno accompagnato la nascita, gli sv