di: BRUNO DE STEFANO
In esclusiva per i lettori della Voce, un nuovo capitolo della serie
DELITTI & MISTERI / 24 GIALLI CHE HANNO CAMBIATO L’ITALIA
tratto dal libro del giornalista d’inchiesta Bruno De Stefano “I grandi delitti che hanno cambiato la storia d’Italia – Gli eroi civili e gli uomini dello Stato uccisi da mafia, camorra e terrorismo” edito da Newton Compton.
Pochi lo sanno, ma un anno fa a Palermo è stata riaperta l’inchiesta sull’omicidio di Piersanti Mattarella, il fratello del capo dello Stato ammazzato 40 anni fa, il 6 gennaio 1980 mentre stava andando a messa con la moglie e i due figli.
Un crimine voluto da Cosa nostra ma i killer non sono stati mai identificati.
Il procuratore palermitano Giuseppe Lo Voi, in questa sua nuova inchiesta, cerca di dare un nome agli assassini, potendo contare su qualche elemento emerso.
L’Espresso, in un reportage, sottolinea l’importanza di un fresco tassello. Ecco cosa scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani: “C’è una pistola calibro 38 che collega l’omicidio del presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, con l’assassinio del magistrato Mario Amato, ucciso a Roma il 23 giugno 1980. Il primo omicidio fu deciso dalla cupola di Cosa nostra, ma gli esecutori sono rimasti sempre ignoti. Il secondo fu organizzato e portato a termine dai Nuclei armati rivoluzionari (NAR). La connessione fra i due delitti sta in una Colt modello Cobra calibro 38 special. E’ l’arma sicuramente impugnata dal killer neofascista Gilberto Cavallini per sparare un solo colpo alla nuca di Amato. Per l’assassinio del magistrato sono stati già da tempo condannati esecutori e mandanti, tutti terroristi di destra”.
Mentre per l’assassinio del fratello di Sergio Mattarella forse ora siamo ad una importante svolta investigativa.
E’ a questo momento opportuno leggere il capitolo del fresco di stampa scritto dal giornalista d’inchiesta napoletano Bruno De Stefano.
Giorni fa abbiamo pubblicato una delle venti storie raccontate – il delitto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – tanti misteri italiani, delitti più o meno eccellenti che hanno insanguinato la storia del nostro martoriato Paese.
Eccoci al capitolo dedicato all’omicidio di Piersanti Mattarella.
Piersanti Mattarella
presidente della regione Sicilia
«Nel cemento ci finisco io». Sembrava una battuta, in realtà era solo la consapevolezza che non sarebbe uscito vivo dalla guerra dichiarata alla mala politica, al malaffare, ai mafiosi e ai loro amici. Piersanti Mattarella non finirà nel cemento, ma sarà comunque assassinato sotto casa la mattina del 6 gennaio del 1980, a Palermo. Aveva 45 anni, era il presidente della Regione siciliana e, se non lo avessero abbattuto, sarebbe diventato un politico di rilievo nazionale. Capace, coraggioso, coerente, più che mai deciso a rivoltare come un calzino quella dc isolana appesantita dalle clientele e imbrigliata in una rete di compromessi.
I giudici hanno accertato che la decisione di uccidere Mattarella fu presa dai vertici di Cosa Nostra, tutti poi condannati all’ergastolo. Ma è davvero stata solo mafia? La risposta è complessa e, in ogni caso, insoddisfacente. Il dubbio riguarda molti altri delitti, ma nel caso di Mattarella il sospetto che non sia stata solo opera di Cosa Nostra è assai più consistente. Ed è un sospetto nato fin dalle ore successive all’agguato consumato sotto gli occhi della moglie Irma Chiazzese. Il caso Mattarella, dunque, non è un’arena i cui continuano a sbranarsi dietrologi affamati di stravaganti tesi alternative, ma un omicidio sul quale a distanza di quarant’anni pesano ancora troppi interrogativi. Dal punto di vista giudiziario la vicenda, come detto, si è conclusa: l’assassinio del presidente è stato intestato alla mafia siciliana nell’am- bito di quella stagione di sangue dei primi anni Ottanta, quando le cosche dichiararono guerra a chiunque minacciasse di mandare all’aria i loro affari.
Se i mandanti sono stati i soliti componenti della Cupola, restano ancora clamorosamente senza nome gli esecutori: il killer, che la ve- dova del presidente ebbe modo di vedere bene in faccia, non è stato mai individuato. L’unico presunto assassino è stato processato ma poi assolto: si chiama Giuseppe Valerio Fioravanti, detto Giusva, leader dei Nuclei armati rivoluzionari (nar), condannato all’ergastolo per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna; da ragazzino aveva fatto l’attore nella fortunata serie televisiva La famiglia Benvenuti.
Nel gennaio del 2018 la procura di Palermo ha riaperto le indagini puntando ancora sulla pista che conduce ai nar.
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È un figlio d’arte, Piersanti. Il babbo Bernardo è un pezzo grosso della Democrazia cristiana: è stato vicesegretario nazionale, deputato, sottosegretario ai Trasporti, ministro della Marina mercantile, ministro dei Trasporti, ministro dell’Agricoltura, ministro del Commercio con l’estero, presidente della Commissione difesa della Camera. Una autentica potenza politica ed elettorale, un monumento della dc siciliana.
Da giovanotto Piersanti non ha ancora deciso se seguirà le orme paterne, ma intanto frequenta l’Azione cattolica, della quale diventerà un dirigente. Sergio Mattarella, futuro presidente della Repubblica, ricorda così alcune tappe della vita del fratello:
Aveva studiato, a Palermo, le elementari all’Istituto S. Anna e, dalla prima media al quarto ginnasio, presso l’Istituto San Luigi Gonzaga, quindi, a Roma, al San Leone Magno fino alla maturità e alla Sapienza per gli studi universitari. Si era formato nella Gioventù di Azione Cattolica. Anzitutto nell’associazione della giac del San Leone, in cui era molto impegnato e di cui divenne presidente, con assistente monsignor Renato Spallanzani, un sacerdote che va ricordato. L’associazione aveva un ritmo intenso di attività e Piersanti ne era protagonista con grande capacità di aggregare e coinvolgere e con la convinzione che, per dare un senso alla propria vita, occorre metterla a frutto perché questo vuol dire corrispondere al piano di salvezza di Dio. Con le stesse motivazioni si era impegnato nell’ufficio nazionale del Movimento nazionale studenti della GIAC, dove ha operato, durante gli anni universitari, accanto al delegato nazionale di allora, Alvise Cherubini, popolarissimo tra gli studenti del Movimento e all’assistente monsignor Nebiolo. In realtà è da questo patrimonio di valori che nacque il suo impegno politico e il modo in cui si è svolto: senso del bene comune, della responsabilità verso la società in cui si è inseriti, esigenza di mettere a frutto le proprie energie personali.
Nel 1962 Piersanti decide di iniziare a fare politica nella Democra- zia cristiana, una scelta che il padre non condivide: Mattarella senior conosce bene l’ambiente e sa che Palermo è una città che rischia di deludere le aspettative di un ragazzo armato delle migliori intenzioni e cresciuto con l’idea di cambiare il mondo. L’ingresso in politica avviene, tra l’altro, in uno dei periodi meno sfolgoranti della dc isolana, che all’alba degli anni Sessanta è in mano a personaggi non sempre adamantini. Il partito lo gestiscono il sindaco Salvo Lima e l’assessore Vito Ciancimino; quest’ultimo è un nome tutt’altro che nuovo perché per un periodo ha fatto parte della segreteria di Mattarella senior quando questi era sottosegretario ai Trasporti. Sono gli anni del cosiddetto “sacco di Palermo”, quello delle migliaia di licenze edilizie rilasciate a piene mani e destinate a sfregiare il volto della città. Mattarella junior diventa consigliere comunale nel novembre del 1964 ottenendo ben undicimila preferenze.
Tre anni dopo tenta il grande salto candidandosi all’Assemblea regionale siciliana; il risultato, trentaquattromila preferenze, è ec- cellente. Nel 1971 le cose vanno ancora meglio e i voti sono più di quarantamila. L’ottima affermazione elettorale lo proietta nelle stanze dei bottoni, sebbene l’incarico non sia dei più appetibili: il presidente Mario Fasino gli affida l’assessorato alla presidenza con delega al Bilancio, non conta quasi nulla sul piano squisitamente operativo, ma è in ogni caso una buona occasione per arricchire il bagaglio di esperienze: «Il Bilancio fino a quel momento è un centro di spartizione clientelare nei vari comparti senza alcuna visione prospettica. L’unico controllo effettuato è che non si superi il test di spesa previsto per i singoli assessorati, ma di verifiche su come il denaro pubblico viene impiegato non se ne parla nemmeno».
Mattarella resta al suo posto nonostante la giunta cambi tre volte sotto tre presidenti diversi (dopo Fasino toccherà prima a Vincenzo Giummarra e poi ad Angelo Bonfiglio).
Piersanti però non si limita affatto a fare il passacarte e non appena può lascia un’impronta delle sue capacità: «Nel 1971 fa approvare otto bilanci arretrati e fa votare – novità assoluta – i bilanci di previsione, evitando l’umiliante ricorso all’esercizio provvisorio».
Nel frattempo lascia la corrente fanfaniana e aderisce al gruppo che fa capo ad Aldo Moro. Con Moro c’è una forte sintonia, hanno una visione comune della politica ed è identico pure il progetto che pre- vede un coinvolgimento del Partito comunista nel governo a Roma e nel governo regionale a Palermo. La stima è reciproca al punto che Moro ha deciso di coinvolgerlo prima nel consiglio nazionale e poi nella direzione del partito. Intanto Piersanti prosegue il suo percorso di amministratore pubblico e fornisce molto presto una ulteriore conferma che ci sa fare: «Nella primavera del 1975 va in porto la sua proposta di un Piano regionale d’interventi per il periodo 1975-1980, approvato a larghissima maggioranza con i voti favorevoli del Pci. Questo piano, afferma l’assessore al Bilancio, rappresenta “un tentativo serio di una visione poliennale e programmata”».
Mattarella si prepara a un altro balzo in avanti. Alle regionali del 1976 il consenso cresce parecchio, con quasi sessantamila preferenze entra per la terza volta nel Parlamento dell’isola. Oramai non è più “il figlio di Bernardo”: in quei quasi sessantamila voti c’è sicuramente qualche migliaio ereditato dal babbo, ma il resto è arrivato da ambienti nei quali c’è apprezzamento per l’impegno finalizzato a un profondo rinnova- mento del partito. Votano per lui moltissimi iscritti all’Azione cattolica, una buona fetta di aderenti ai sindacati, l’alta borghesia più illuminata. La sua ascesa fa storcere il naso a tanti, c’è chi per scalfirne l’imma- gine avanza delle perplessità su suo padre. Lui mette a tacere i critici: «Ho contribuito soltanto a cancellare le ombre che, strumentalmente, erano state gettate sul suo nome. Per il resto, pur considerando che ci dividono alcuni decenni, cerco di rifarmi al suo esempio, soprattutto a quel suo piacere dell’onestà. Mio padre aveva un modo essenziale di fare politica; la concepiva come servizio. In questa fase di fatto essere il figlio di un ministro mi ha procurato solo svantaggi».
Sembrerebbe destinato all’assessorato all’Agricoltura, ma – almeno questa è la voce che circola – per un veto degli esattori Nino e Ignazio Salvo viene di nuovo dirottato al Bilancio nella nuova giunta presieduta da Angelo Bonfiglio. Intanto cambiano gli equilibri pure all’interno della dc siciliana e si afferma una maggioranza più disponibile all’a- pertura verso i comunisti. Agli inizi del 1978 si crea all’improvviso un varco inaspettato: Bonfiglio si dimette e Mattarella viene indicato, con il benestare dei vertici romani, come nuovo presidente: è il 9 febbraio quando lo eleggono al vertice della Regione siciliana con 77 voti su 90: «Piersanti non è solo l’erede di Bernardo Mattarella. È un politico maturo e indipendente. Forma un giunta che gode dell’appoggio esterno del Pci, sulla scia di quella politica di “solidarietà nazionale” che è il pallino di Aldo Moro».
Poco più di un mese dopo la trionfale elezione a presidente, c’è un evento che segna la storia del Paese: il 16 marzo le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro dopo aver ucciso i cinque uomini della scorta. Il 9 maggio il corpo dello statista democristiano viene ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 lasciata in via Caetani a Roma. Un anno dopo c’è un altro lutto per la Democrazia cristiana siciliana: a Paler- mo viene assassinato Michele Reina, segretario provinciale, pure lui impegnato in un’opera di rinnovamento del partito e deciso a fare piazza pulita della vecchia nomenklatura, a partire dal discusso ma ancora potentissimo Vito Ciancimino.
Seppur angosciato dalla fine di Moro e dall’uccisione di Reina, Mattarella va dritto per la sua strada, fortemente intenzionato a rendere la vita difficile a quanti, e non sono pochi, irrobustiscono il potere della mafia attraverso una discutibile gestione del denaro pubblico. Quando il neo presidente prende in mano il timone della Regione, cambiano molte cose. In cima all’elenco del suo program- ma c’è la necessità di dare una sterzata alle cattive abitudini che per anni hanno avuto l’effetto di gonfiare i costi per assecondare l’esercito delle clientele. Mette fine, ad esempio, a una malsana discrezionalità in virtù della quale gli assessori non avevano mai badato a spese, come se non ci fosse un domani. Mattarella restringe il margine di movimento dei singoli componenti della giunta, prima di aprire i cordoni della borsa occorre confrontarsi con gli altri e prendere decisioni in maniera collegiale. Moltiplicare l’efficienza della politica riducendo i costi è un mantra. Com’è nel suo stile, ci tiene a dare l’esempio. Ricorre all’auto di servizio solo quando è impegnato per conto della Regione, in tutte le altre circostanze usa la sua macchina. In tanti sono convinti che l’opera di moralizzazione prima o poi si arresterà perché è un capriccio destinato a schiantarsi contro la complessa realtà siciliana. Invece non va proprio così, anzi. Uno dei provvedimenti più rivoluzionari è l’approvazione della legge urbanistica regionale (la numero 71 del 1978): sembra fatta apposta per mandare all’aria un meccanismo malato che per anni ha accontentato e arricchito un po’ tutti. Mattarella, invece, pone un freno alla bulimia da cemento che per un lungo periodo ha sfigurato molte aree dell’isola. La Sicilia ne ha guadagnato parecchio, ma in tanti hanno perso un bel po’ di denari. Nella sentenza-ordinanza sui delitti politici, i giudici di Palermo sosterranno che con quella legge urbanistica il presidente ha iniziato a farsi dei nemici potenti: «Si è pure rilevato che i proprietari videro diminuire, anche ad 1/3 o addirittura di 1/7, il valore commerciale dei loro fondi (ed è ben noto quanto sia estesa la presenza di proprietà facenti capo ad esponenti di Cosa Nostra proprio nelle borgate di Palermo)».
Il presidente infila poi i piedi in un altro pantano: vuole vederci chiaro su quel che succede nell’assessorato ai Lavori pubblici, dopo che il titolare della delega, il repubblicano Rosario Cardillo, è finito nel mirino della magistratura. Assume ad interim la responsabilità dei Lavori pubblici e avvia una ispezione sugli atti prodotti sotto la gestione Cardillo, affidando l’incarico di indagare a una commissione di funzionari ed esperti della materia. Dall’ispezione emergono al- cune irregolarità, e a questo proposito il presidente dell’Assemblea, Michelangelo Russo, riferirà agli inquirenti:
Il presidente non mi parlò mai di minacce, però qualche volta parlando con me dopo aver compiuto degli atti amministrativi di un certo rilievo, tutto preoccu- pato ebbe a dirmi: «Forse me la faranno pagare». Queste espressioni uscirono dalla sua bocca quando, di ritorno da Catania dopo la visita del presidente della Repubblica, ebbe ad accennare ai suoi interventi presso il Comune di Palermo per la questione degli appalti per la costruzione degli edifici scolastici e presso l’amministrazione regionale per la questione relativa ai funzionari collaudatori. […] Altra volta che io notai il presidente preoccupato fu quando si discusse il caso Cardillo.
Un’altra iniziativa che certo non gli procura simpatie, è una indagine sui funzionari collaudatori: avvia un’ispezione perché vuole capire come mai a essere coinvolti sono sempre gli stessi, mentre moltissimi altri dipendenti della Regione vengono sistematicamente ignorati.
Con ogni probabilità le fila dell’esercito dei nemici – già piuttosto numerose – si affollano rapidamente per un’altra vicenda particolar- mente delicata: l’ispezione sull’appalto per sei edifici scolastici che il comune di Palermo avrebbe dovuto realizzare con i fondi dell’asses- sorato regionale alla Pubblica istruzione. L’ispettore incaricato di fare chiarezza, Raimondo Mignosi, presenta una relazione che conferma le perplessità di Mattarella e gli impone di intervenire per bloccare le procedure e rifare le gare. Gli effetti collaterali di quella ispezione sono impetuosi perché mettono in discussione troppi interessi, e molto probabilmente anche interessi inconfessabili. Il presidente ha perfet- tamente compreso di aver guastato i piani di qualcuno “importante”, tant’è che a un suo amico, il professor Francesco Giuliana, confessa – come riferirà ai giudici Sergio Mattarella – che teme che gliela faranno pagare «non politicamente, ma sul piano fisico, personale». Un timore probabilmente generato dalla consapevolezza che alcune delle imprese che avrebbero dovuto realizzare le scuole erano riconducibili ad ambienti poco rassicuranti. A questo proposito si legge nella sentenza-ordinanza:
Pur senza volere affermare che le sei imprese costituivano dei semplici pre- stanomi, attraverso i quali l’aggregato mafioso si apprestava a monopolizzare tutti gli appalti-concorso, tuttavia l’essere riusciti a dimostrare che gli interessi delle imprese ammesse alla fase finale si identificano o collimano con quelli delle maggiori famiglie mafiose italo-americane, serve per evidenziare che la presa di posizione dell’onorevole Mattarella non danneggiava ciascuna delle sei imprese, impedendo a ciascuna l’aggiudicazione dell’appalto ammontante a circa un miliardo di lire, ma inibiva ad un gruppo di mafia di assicurarsi una serie di appalti per un valore globale di sei miliardi.
La legge urbanistica, le ispezioni sull’assessorato ai Lavori pubblici, sui funzionari collaudatori e sugli appalti, un’opera di moralizzazio- ne concreta e inarrestabile: facendo la somma, si arriva a un totale che non può – in un contesto di prassi degenerate – non produrre del risentimento nei confronti di un politico che s’è messo in testa di fare pulizia dentro la politica, nella fila della burocrazia e pure nel suo partito. Scriveranno i giudici nella sentenza-ordinanza: «Nella propria azione amministrativa, il presidente Mattarella stava dimostrando di voler usare fino all’estremo limite consentito i suoi poteri istituzio- nali e di non volerne, certo, dare una “lettura” riduttiva meramente burocratica».
Intanto deve aver fiutato nell’aria qualche cosa di decisamente spiacevole se nell’ottobre del 1979, quindi meno di tre mesi prima dell’omicidio, vola a Roma per incontrare in gran segreto il ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Di quell’appuntamento al Viminale non sa niente nessuno, neppure suo fratello Sergio. Da Rognoni però non riceve le reazioni che s’aspettava, anzi; il faccia a faccia lo delude parecchio. Al ritorno da Roma è talmente turbato che non solo non si reca a casa, come ha sempre fatto dopo una trasferta, ma si ferma in ufficio per confidarsi con il suo capo di Gabinetto, la dottoressa Maria Grazia Trizzino. Le sue parole sono quelle di un uomo che ha paura e che teme per la propria vita e quel che dice alla sua principale collaboratrice mette i brividi. Ai magistrati la Trizzino riferirà:
Verso la fine di ottobre del 1979, il presidente Mattarella di rientro da Roma con l’aereo del primo pomeriggio, venne direttamente alla presidenza, contrariamente alle sue abitudini, non era passato da casa sua. Appena in ufficio, mi chiamò personalmente senza ricorrere all’usciere, e con aria molto grave, mi disse testualmente: «Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni ed ho avuto con lui un colloquio riservato su problemi siciliani. Se dovesse succedermi qualcosa di molto grave per la mia persona, si ricordi di questo incontro con il ministro Rognoni, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà acca- dere». Io non azzardai alcuna domanda perché conoscevo bene la riservatezza del presidente, tuttavia rimasi alquanto perplessa e quasi incredula perché mai il presidente si era lasciato andare ad affermazioni tanto gravi e preoccupanti. Il presidente notò la mia espressione e mi disse testualmente: «Signora, io le parlo molto seriamente». Conoscevo molto bene il presidente e sapevo che non avrebbe azzardato alcun giudizio se non avesse avuto elementi fondati e concreti. E pertanto quanto mi disse il presidente non poteva che essere il frutto di una sua maturata riflessione su quanto aveva detto al ministro Rognoni. Il presidente Mattarella mi diceva sempre che «bisognava fare pulizia nel partito e bisognava eliminare alcuni uomini che non facevano onore al partito stesso».
Il politico democristiano è quindi seriamente preoccupato per la sua sorte. Quel che ha detto a Rognoni non lo sa nessuno, ma evidente- mente deve aver fatto anche nomi e cognomi e indicato circostanze precise sulle quali intervenire. Nello scorcio finale del 1979 Mattarella è angosciato come non mai. A preoccuparlo è anche la crisi politica che si è aperta alla regione e che lo vede dimissionario. I rapporti con il suo partito si sono incrinati, come confermerà padre Ennio Pintacuda:
Posso dire per testimonianza diretta che il presidente Mattarella dopo il fallimento del suo primo governo avvertì sempre più un senso di isolamento all’interno del suo stesso partito, soprattutto per la presa di distanza da lui di un uomo come l’onorevole Nicoletti che fino a quel momento gli era stato vicino ed aveva appoggiato la sua opera volta a tentare di rinnovare, anche nella prassi, la vita politica regionale. […] Ho avuto nettissima questa sensa- zione dell’onorevole Mattarella il quale, però, non mi sembrò temere qualcosa nell’immediato. Temeva, però, qualcosa di estremamente grave in quanto aveva visto interrompersi quell’area di crescente consenso – anche all’interno della Dc – che vi era stato fino alla costituzione del suo primo Gabinetto.
Probabilmente a turbarlo non è solo la sua condizione di presidente in bilico, c’è qualcosa che intimamente lo disturba al punto da non riuscire neppure a dissimulare:
Riguardando le foto della festa dei diciotto anni di Maria del 15 dicembre, i familiari hanno notato delle espressioni inquiete nel volto di Piersanti, parti- colarmente stridenti con il contesto allegro e festoso del momento. Certo, la sua giunta era dimissionaria e il quadro politico siciliano presentava difficoltà notevoli, ma Piersanti era abituato alla lotta politica, agli scontri di potere, ai trabocchetti e alle insidie della vita di partito. E in un giorno come quello non avrebbe mai permesso alla politica di rovinargli la festa. No, c’era qualcos’altro che lo turbava. Qualcosa di molto più grave.200
Che l’umore non sia più lo stesso, lo si capisce in maniera inequivocabile alla vigilia dell’agguato mortale: «Irma e Bernardo raccontano che Piersanti, in genere sempre allegro e gioviale, nei giorni immediatamente precedenti al 6 gennaio non era del suo solito umore. Il 5 sera, di ritor- no dalla consegna di un premio – il “Cardillo d’oro” – a Trabia, aveva perfino disertato la consueta serata con amici e parenti, organizzata da Sergio, preferendo recarsi direttamente a casa tra la meraviglia di tutti».
Il presidente nonostante la crisi politica non smette di pensare che la bonifica della pubblica amministrazione deve continuare a essere uno degli strumenti essenziali per indebolire la potenza della mafia. Il caso vuole che proprio il 6 gennaio del 1980 sul «Giornale di Sicilia» venga pubblicata una lunga intervista nella quale spiega come liberarsi dal cappio di Cosa Nostra:
Il problema esiste perché nella società a diversi livelli, nella classe dirigente non solo politica ma pure economica e finanziaria, si affermano comportamenti individuali e collettivi che favoriscono la mafia. […] Bisogna intervenire per eliminare quanto a livello pubblico, attraverso intermediazioni e parassitismi, ha fatto e fa proliferare la mafia. Pure è necessario risvegliare doveri indivi- duali e comportamenti dei singoli che finiscono con il consentire il formarsi di un’area dove il fenomeno ha potuto, dico storicamente, allignare e prosperare.
Con quell’intervista Mattarella spera di innescare un dibattito; a ogni modo – in attesa delle reazioni di amici e nemici – ha voluto spedire un altro chiarissimo messaggio a chi pensa di potersi mettere di traverso sul percorso del rinnovamento.
Normalmente il presidente della regione ha la scorta, ma ci sono occasioni in cui ne fa volentieri a meno. Una di quelle occasioni cade domenica 6 gennaio del 1980: è festa e lui ha detto ai poliziotti di godersi la giornata con le famiglie. Quando mancano pochi minuti alle 13:00, i Mattarella scendono da casa, in via della Libertà 135: il presidente e il figlio Bernardo vanno a prendere la macchina in garage; la moglie Irma, la figlia Maria e la suocera aspettano sul marciapiede. Mattarella sale la rampa del garage al volante della sua Fiat 132 di colore blu, il figlio si attarda a chiudere il box.
Poco distante c’è una Fiat 127 bianca con due persone a bordo. Mattarella è alla guida, la moglie si sistema accanto a lui; Maria e la nonna restano a parlottare sul marciapiede per qualche secondo. In quegli istanti un giovanotto dall’andatura ciondolante e con addosso un giubbotto azzurro, scende dalla 127 e si avvicina a Mattarella, estrae la pistola e spara più volte. L’arma s’inceppa. L’assassino torna alla 127 e si fa dare un’altra pistola dal complice: «Il sicario fa un rapido dietrofront. Si accosta di nuovo alla macchina, stavolta dal lato dove siede Irma. Ha come un attimo di esitazione quando vede la moglie che cerca disperatamente di fare scudo con le mani al marito, ma l’ordine ricevuto è tassativo: Mattarella deve morire. Il killer si sposta, prende la mira dal finestrino posteriore e spara ancora»202.
Mattarella è gravemente ferito, la moglie è stata solo colpita di striscio a una mano. Il figlio Bernardo si precipita nel bar Astoria, situato proprio accanto al garage, e chiama prima un’ambulanza e poi lo zio Sergio, al quale dice una bugia: «Papà ha avuto un incidente». Sergio, che abita poco distante, si precipita sul posto. Il presidente è ancora vivo. L’ambulanza non arriva, arriva invece una volante della polizia. Sergio e gli agenti caricano il corpo di Piersanti sulla volante che corre a tutto gas verso l’ospedale Villa Sofia. Ma c’è poco da fare: è stato colpito alla tempia, alle spalle, al petto e al fianco destro. Spira una manciata di minuti dopo l’ingresso in ospedale.
L’omicidio di Piersanti Mattarella è l’ennesimo in una città che ha già dovuto fare i conti con l’assassinio di altri rappresentanti delle istituzioni: l’anno prima erano stati trucidati il segretario provinciale della dc Michele Reina, il capo della Squadra mobile Boris Giuliano e il giudice Cesare Terranova.
L’indagine la conduce Pietro Grasso, futuro presidente del Senato, che quella domenica mattina è di turno. Poi arriva la rivendicazione dell’omicidio. Anzi, le rivendicazioni, perché saranno tante, troppe, al punto da rendere sottile – se non invisibile – il confine tra depistaggi e mitomania. La prima telefonata arriva intorno alle 14:45 alla sede di Palermo dell’agenzia Ansa. Chi chiama dà l’impressione di essere agitato e pronuncia poche parole: «Qui Nuclei Fascisti Rivoluziona- ri. Rivendichiamo l’attentato dell’onorevole Mattarella in onore dei caduti di via Acca Larentia a Roma». Il riferimento è all’uccisione di due esponenti del Fronte della gioventù (Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta) avvenuta il 7 gennaio del 1978 a opera di estremisti di sinistra. Una seconda telefonata la riceve alle 18:48 il «Corriere della Sera»: «Qui Prima Linea. Rivendichiamo l’esecuzione Mattarella che si è arricchito alle spalle dei terremotati del Belice».
Alle 19:10 squilla il telefono del centralino della «Gazzetta del Sud» di Messina: «Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato Mattarella. Segue comunicato». Il comunicato non arriverà mai. La quarta rivendica- zione arriva alle 21:40 al «Giornale di Sicilia»: «Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato l’onorevole Mattarella. Mandate subito tutta la gente nelle cabine telefoniche di Mondello. Troverete il ciclostilato delle br». Quel ciclostilato non è mai esistito.
Ma perché i terroristi – siano essi di sinistra o di destra – avrebbero dovuto uccidere un politico che con il terrorismo non ha mai avuto nulla a che fare? Non è, invece, molto più probabile che l’agguato sia riconducibile a quell’impasto di interessi che la vittima aveva messo in crisi con la sua opera di bonifica della regione? Evidentemente no, se ad avanzare dei dubbi sulla matrice dell’omicidio è persino il cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo che durante i funerali dice dal pulpito:
Perché è stato ucciso Piersanti Mattarella? È un interrogativo angoscioso al quale cercano di dare una risposta le febbrili indagini in corso, le valutazioni dei politici, i commenti della stampa e la stessa opinione pubblica scossa, in tutti i suoi strati, dal tremendo delitto. Una cosa sembra emergere sicura ed è l’impossibilità che il delitto sia attribuibile a sola matrice mafiosa; ci devono essere anche altre forze occulte, esterne agli ambienti, pur tanto agitati, della nostra isola. Palermo e la Sicilia non possono accettare o subire l’onta di essere l’ambiente in cui è maturato l’atroce assassinio.203
Domanda: come mai il cardinale parla di “forze occulte esterne agli ambienti” siciliani? Cosa sa, o cosa immagina, per disegnare uno scenario così inedito e complesso?
Ma, parole di Pappalardo a parte, viene spontaneo chiedersi chi oltre a Cosa Nostra poteva avere l’interesse di eliminare il presidente della regione. Le indagini dovrebbero fare chiarezza su mandanti, killer e movente ma per circa un anno si gira completamente a vuoto. A disposizione degli inquirenti c’è l’identikit dell’assassino ricostruito grazie alla testimonianza della moglie della vittima. Il questore di Palermo Giuseppe Nicolicchia nota una somiglianza tra l’identikit e tale Salvatore Inzerillo, già sospettato (ma sarà poi assolto in tutti i gradi di giudizio) di aver assassinato il procuratore capo Gaetano Costa (6 agosto 1980). Alla fine dell’estate del 1980 il dirigente della Criminalpol Bruno Contrada si reca a Londra – dove si è temporane- amente trasferita la vedova – per mostrarle la foto del presunto killer: contrariamente a Nicolicchia, la Chiazzese non riconosce in Inzerillo il killer del marito.
Polizia e carabinieri lasciano sulla scrivania dei magistrati cinque rapporti (due a febbraio, due a marzo e uno a dicembre) nei quali c’è poco da leggere; in quei carteggi si sostiene che Mattarella è stato assassinato «per bloccare la sua azione di rinnovamento e moralizzazione della vita pubblica, si formulava la conclusione che non era stato possibile identificare né gli autori materiali né i mandanti del delitto»204. Si segue, dunque, una generica pista mafiosa.
A dare l’idea di come si proceda nel buio più assoluto è l’amara con- statazione che non sono riuscite a cavare un ragno dal buco neppure due strutture specializzate: né l’Alto commissariato per la lotta alla mafia né i Servizi segreti civili (il Sisde) hanno fornito un contributo utile a comprendere lo scenario nel quale è maturato l’omicidio e nem- meno a individuare chi ha sparato la mattina del 6 gennaio del 1980.
Intanto salta fuori, dopo che la Trizzino lo ha rivelato a Sergio Mattarella, l’episodio relativo all’incontro con Rognoni. Il primo a parlarne è Mario D’Acquisto, presidente della regione, che ascoltato dai magistrati il 16 febbraio del 1981, dichiara:
Mi risulta che sul tema della criminalità organizzata il presidente ucciso ebbe colloqui con il ministro dell’Interno. Fu lo stesso presidente a parlarmene in modo molto riservato e conciso, senza scendere in particolari. Posso però dire che egli era particolarmente preoccupato anche perché temeva che il terrorismo potesse cercare nuove aree di espansione nel sud aggiungendosi al fenomeno della mafia. Il presidente ucciso paventava che la mafia siciliana potesse offrire al terrorismo killers e aiuti di altro genere ove il terrorismo politico avesse deciso l’alleanza con la mafia.
Dunque, D’Acquisto è il primo a rivelare che Mattarella temesse un’alleanza tra i mafiosi e i terroristi. Chiamato in causa dalle di- chiarazioni di D’Acquisto e della Trizzino, i magistrati decidono di ascoltare il ministro Rognoni; ecco cosa dichiara a verbale il titolare del Viminale:
Nel corso del colloquio si parlò della situazione dell’ordine pubblico e della sicurezza della città di Palermo e anche della Sicilia, in relazione al problema della mafia, anche in dipendenza degli ultimi atti criminosi come quello del commissario Boris Giuliano e del giudice Terranova. […] Ricordo che il pre- sidente Mattarella mi parlò delle nuove forme criminose della mafia e di un aspetto molto importante del fenomeno relativo ai legami tra mafia e politica. Mi ricordo che la sua politica era volta a combattere il fenomeno mafioso e a rendere via via credibile la classe politica adottando comportamenti che rendessero, giusto nei fatti, credibile l’azione di governo e l’azione politica in genere. Come esempio di questa politica, il presidente Mattarella mi ricordò il suo intervento volto a fermare la procedura di alcuni appalti e concorsi e di altri interventi nell’ambito dell’amministrazione regionale. Non mi nascose che questa politica poteva creare forti ostilità negli interessi colpiti. Nel corso della discussione il presidente Mattarella, quasi per semplificare il clima di paura e di intimidazione esistente e sul quale egli operava, mi ebbe espressamente a rappresentare la situazione, in quel momento veramente depressa, del segreta- rio regionale della dc Rosario Nicoletti; mi accennò finanche alla intenzione, qualche volta espressa giusto in quel periodo da Nicoletti, di troncare l’attività politica. […] Ricordo che il presidente Mattarella, in relazione ad alcune notizie secondo le quali l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino avrebbe premuto per ottenere un reinserimento ad un livello di piena utilizzazione politica all’interno del partito della Democrazia cristiana, ebbe a manifestarmi grande preoccupazione per un evento del genere ed il suo vivo dissenso al riguardo. A giustificazione di questo dissenso, il presidente Mattarella mi disse quanto fosse discussa, ambigua e dubbia la personalità del Ciancimino.
C’è qualcosa che non torna: pur riconoscendo l’importanza del colloquio e la delicatezza degli argomenti trattati, Rognoni sembra voler attribuire a quell’incontro un significato sostanzialmente non così importante; anzi, stando alle parole del ministro non si capisce bene perché al ritorno Mattarella fosse così deluso e preoccupato al punto da temere per la sua vita.
In merito all’incontro al Viminale, Irma Chiazzese, vedova del presidente, riferirà agli inquirenti: «La Trizzino mi disse che mio marito era particolarmente dispiaciuto perché aveva avuto l’impressione, anzi dico meglio, era particolarmente dispiaciuto; secondo lei Rognoni non aveva dato troppo peso a quanto da lui esposto. La signora mi disse che mio marito era così amareggiato, che lei provò un sentimento di angoscia»207.
Il colloquio col ministro era considerato dagli inquirenti un elemento fondamentale per meglio inquadrare lo scenario complessivo, ma la versione di Rognoni lo ha depotenziato non poco. In sostanza a distanza di dodici mesi dall’omicidio, lo Stato sventola la bandiera bianca. Il vuoto investigativo si trascina a lungo, l’inchiesta resta ferma nella palude per quasi tre anni. Soltanto nel dicembre del 1982 una fiammata sembra destinata a squarciare il buio. A riaprire i giochi è una dichiarazione di Cristiano Fioravanti, fratello dell’assai più noto Valerio. Cristiano riferisce agli inquirenti che nell’osservare gli identikit degli assassini di Mattarella pubblicati dai giornali, ha notato una notevolissima somiglianza con il fratello Giusva e il suo sodale Gilberto Cavallini. Dunque Giusva Fioravanti potrebbe essere il ragazzo dall’andatura ciondolante che ha fatto fuoco sul politico democristiano. Sulla base delle dichiarazioni di Cristiano, la magistra- tura palermitana mette sotto inchiesta diciotto persone, tra cui alcuni affiliati a Cosa Nostra e diversi esponenti dei nar. Un contributo all’indagine lo fornisce pure Angelo Izzo, appartenente all’estrema destra e tra gli autori del massacro del Circeo (insieme a due complici violentò due ragazze, una delle quali fu poi uccisa). Secondo Izzo è stato proprio Giusva a confessargli di aver ucciso il presidente della Regione Sicilia: «Valerio mi disse che Cavallini era rimasto di coper- tura nei pressi del luogo del delitto Mattarella, e che era armato fino ai denti. Egli invece aveva commesso l’omicidio con una rivoltella calibro 38 ma aveva addosso anche una Browning bifilare».
La saldatura di interessi tra mafia e terrorismo di destra non è un tema nuovissimo, ma nel caso specifico qualcosa non quadra. I giudici palermitani però non mollano la presa e sono convinti che almeno gli esecutori siano uomini dei nar. Il 16 maggio del 1986 il giudice istruttore Giovanni Falcone emette delle comunicazioni giudiziarie a carico di esponenti del terrorismo di destra, tra cui Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini. L’ipotesi di Falcone, basata sulla confessione di Cristiano Fioravanti, è che Mattarella sia stato ucciso dai due neofascisti nell’ambito di uno scambio di favori con Cosa Nostra: avrebbero ammazzato il presidente per ottenere come contropartita il sostegno logistico e operativo per far evadere dal carcere dell’Ucciardone Pierluigi Concutelli, il neofascista condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio. A reclutare Fioravanti e il suo complice sarebbe stato Pippo Calò, uno dei componenti della Cupola di Cosa Nostra e ritenuto il cassiere della mafia. Il “pentito” Izzo, intanto, aggiunge altra carne al fuoco: a suo dire a voler Mattarella morto era una combriccola composta da boss, imprenditori legati alla massoneria ed esponenti della dc romana. La versione di Izzo sarà ritenuta completamente falsa.
La pista seguita dai magistrati di Palermo non convince affatto Sergio Mattarella. A suo dire l’assassinio di Piersanti ha una matrice ben precisa, come riferirà ai magistrati in una deposizione del 14 luglio 1986:
In questi anni ho maturato il convincimento che peraltro mi si era fatto strada già nell’immediatezza dell’omicidio di mio fratello – che quest’ultimo è stato ucciso per tutta una serie di fattori fra lori concatenati che hanno ispirato la decisione di eliminarlo. Già dalla istruttoria ritengo che sia emerso che mio fratello, quando era presidente della Regione Siciliana, ha compiuto dei gesti molto significativi che di per sé, in un ambiente intriso di mafiosità avrebbero potuto provocarne l’uccisione: mi riferisco, in particolare, alla nota vicenda concernente gli appalti per le scuole concessi dal Comune di Palermo e alle conseguenti ispezioni da lui disposte e, soprattutto, ad un fatto apparente- mente poco significativo ma che, in realtà, era gravido di conseguenze. Egli, infatti, insistette a lungo e senza successo per avere l’elenco dei funzionari regionali nominati collaudatori di opere pubbliche. E la ragione è intuitiva: attraverso gli elenchi dei collaudatori, fornitigli soltanto da alcuni assesso- rati, egli si sarebbe potuto rendere conto di quali gruppi controllassero la materia dei pubblici appalti per poter intervenire più efficacemente. E in proposito mi sembra sintomatica l’inchiesta da lui disposta sull’assessorato regionale ai Lavori pubblici, e l’impegno da lui profuso per l’approvazione della legge urbanistica regionale. Ma a parte questi fatti specifici, di per sé gravi e denotanti l’impegno politico di mio fratello, mi sembra ancora più interessante rilevare che questa sua ansia di rinnovamento e l’abilità politica di cui era dotato stavano, e nemmeno tanto lentamente, creando un’atmosfera diversa e migliore e, soprattutto, una classe di dirigenti, che riconoscevano la sua guida e che erano più alieni di tanti altri da compromissioni con ben individuabili ambienti di potere. E mi sembra ancora più evidente che questa mutata atmosfera certamente non era gradita a chi potesse pensare di utilizzare collaudati equilibri di potere per fini extra istituzionali. Non ritengo, infatti, possibile alcuna altra causale di questo omicidio.
L’attenzione, intanto, è tutta concentrata su Valerio Fioravanti. Gli indizi sembrano condurre alla sua faccia e alle sue movenze, lui però nega su tutta la linea senza alcuna esitazione e in un interrogatorio reso il 23 ottobre del 1989 dichiara:
Sono ben cosciente che gran parte delle accuse a mio carico provengono da mio fratello Cristiano; su di lui posso dire che, così come è stato rilevato, è influenzabile da me, lo stesso potrebbe essere influenzabile da altri […] Faccio inoltre presente che, essendo già gravato da due condanne definitive all’ergastolo, non avrei particolari motivi per negare le mie responsabilità anche in ordine all’omicidio dell’onorevole Mattarella. Se ciò faccio è per una questione di principio e non per coprire la responsabilità di eventuali mandanti.
Nel frattempo all’inchiesta contribuisce pure l’Alto commissariato per la lotta alla mafia, guidato dall’ex sostituto procuratore di Roma Domenico Sica.
Loris D’Ambrosio, uno dei principali collaboratori di Sica, l’8 settembre 1989 invia al giudice Giovanni Falcone una relazione sul delitto Mattarella nella quale si legge:
Dell’omicidio può darsi una sola credibile lettura: quella dell’omicidio ma- turato in quel composito ambiente umano e politico che al fine di accrescere il proprio potere economico, affaristico e istituzionale, o nel timore di perderlo a favore di altri, si presta a gestire gli interessi pubblici secondo schemi e principi tipicamente delinquenziali: facendo della corruzione e del ricatto l’arma delle battaglie affaristiche quotidiane, espellendo dal proprio corpo chi a tali sistemi si ribella, accettando i metodi intimidatori di associazioni criminali dedite a ogni tipo di traffici illeciti e disponibili a favorire l’ascesa di chi le protegge e a eliminare i nemici di queste. In una fitta ragnatela di interesse e collusione nella quale è difficile distinguere chi fornisce e chi riceve i servizi, e dove, in ogni momento, finiscono per sfaldarsi anche pezzi dello Stato. Non si tratta, allora di un omicidio di mafia, ma di un omicidio di politica-mafiosa: nel quale cioè la riferibilità alla mafia come organizzazione deve necessariamente stemperarsi attraverso una serie di passaggi mediati di confluenze operative e ideative, apparentemente disomogenee, ma in grado di dare nel loro complesso il senso compiuto dell’antistato. Qui non si tratta di eliminare un nemico dell’organiz- zazione mafiosa, ma un potenziale nemico dell’antisistema. Ed è questo uno dei motivi, forse il principale, per il quale l’esecuzione dell’omicidio Mattarella non viene affidata ai killer delle organizzazioni mafiose.
Per D’Ambrosio, che in passato ha indagato sul terrorismo di destra, la pista che conduce al patto nar-Cosa Nostra è credibile. Innanzitutto la descrizione della vedova Mattarella è compatibile con gli atteggiamenti e le fattezze di Fioravanti; poi perché le armi utilizzate il 6 gennaio dell’80 sono le stesse adoperate dai nar in altre occasioni; e anche le modalità dell’agguato al politico demo- cristiano sono compatibili con il modus operandi dei Nuclei armati rivoluzionari.
L’indagine si chiude nel giugno del 1991 e riunisce tutti i delitti politi- ci: quelli di Michele Reina (ucciso a marzo 1979), Piersanti Mattarella (gennaio 1980) e Pio La Torre (aprile 1982). Sul banco degli imputati tutti i componenti del “governo” di Cosa Nostra (Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò e Antonino Geraci), accusati di essere i mandanti; Fioravanti e Cavallini sono imputati in qualità di esecutori materiali dell’omicidio del presidente della regione.
Una settimana dopo, in una intervista a Giovanni Bianconi, Fiora- vanti ribadisce la sua estraneità all’assassinio avvenuto il 6 gennaio del 1980: «Se l’avessi fatto non me ne vergognerei, sarebbe solo uno dei tanti errori commessi. Un terrorista è sempre pronto a scagliarsi contro il potere, e la sua strada può anche essere lastricata di un de- putato morto. Solo che per noi il nemico non era la dc, e uccidere un democristiano non era un obiettivo pagante».
Il presunto killer di Mattarella sostiene, inoltre, che nel gennaio del 1980 era da tutta un’altra parte, sicuramente non a Palermo, dove si era recato solo due mesi dopo insieme alla compagna Francesca Mambro: «Dov’ero non saprei dirlo con precisione, probabilmente tra Roma e Treviso, visto che il Capodanno lo passammo a Treviso. A Palermo ci sono andato la prima volta nel marzo dell’80: dovevamo preparare l’evasione di Pierluigi Concutelli. Me lo ricordo perché Palermo è una città particolare: Francesca guardava in faccia la gente per cercare chi era mafioso e chi no»213.
La versione offerta dal terrorista non persuade la vedova Mattarella che al processo sostiene, con “quasi certezza”, che l’assassino del suo Piersanti è proprio l’ex attore:
Sono passati molti anni e ora ho ricordi più nitidi. Penso di poter dire che è quasi certo che Giusva Fioravanti possa essere il killer di Piersanti Mattarella. Ho riordinato i miei ricordi, ho visto spesso Fioravanti in tv mentre diceva che i rimorsi a lui non lo toccano. Ho presente il volto del killer gli elementi che lo contraddistinguono, la carnagione chiara, i capelli castani e soprattutto quegli occhi… Quando ridiscese dalla 127 capii che stava venendo a sparare il colpo di grazia. Gridai basta, mentre cercavo di coprire con il mio corpo quello di mio marito. Il killer cercava di non colpire me, che venni comunque colpita di striscio da alcuni colpi… Mostrò una glacialità assoluta, non trapelava alcuna emozione dal suo sguardo, era proprio un robot che sparava come a una pietra, a una sedia… Nella mia mente quel volto non mi lascia mai. Posso dire con quasi certezza che è Giusva Fioravanti.
Mentre si cerca faticosamente di capire chi e perché ha assassinato Mattarella, a Palermo ci sono state le stragi nelle quali hanno perso la vita i giudici Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, e otto agenti delle loro scorte. Una mattanza che ha convinto il pentito Tommaso Buscetta a dire ciò che sa sui rapporti tra mafia e politica. Con Falcone non aveva voluto mai affrontare l’argo- mento, ma la morte del magistrato lo ha turbato profondamente e ha deciso di vuotare il sacco anche su un tema storicamente complesso. L’ex boss non dispone di informazioni di prima mano, ma conosce bene le logiche di Cosa Nostra e sulla base della sua esperienza ritiene inverosimile che i suoi compari abbiano affidato a terzi, quindi ai nar, un omicidio strategicamente importante come quello di un politico. Nel corso di un’audizione alla Commissione parlamentare antimafia, Buscetta avanza le sue perplessità:
A me dispiace che non potrò vedere la fine di questo processo negli anni, perché sono già abbastanza vecchio, ma le garantisco che i fascisti in questo omicidio non c’entrano. Quei due sono innocenti. Glielo garantisco. E chi vivrà, vedrà. Credo che Mattarella in special modo volesse fare della pulizia in questi appalti. Se andate a vedere a chi sono andati gli appalti in tutti questi anni, con facilità voi andrete a scoprire cose inaudite. Non avevano bisogno di due fascisti. La Cosa Nostra non fa agire, per ammazzare un presidente della Regione, due fascisti. È un controsenso. Non esiste questa possibilità. E quei due accusati sono innocenti.
Buscetta ribadisce lo stesso concetto quando viene interrogato, negli Stati Uniti, dal procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli e dal pm Guido Lo Forte nell’ambito delle indagini sull’assassinio del giornalista Mino Pecorelli. Secondo i pentiti sarebbe stato proprio Fioravanti a uccidere Pecorelli. Ai due magistrati Buscetta dichiara: «Apprendo oggi dalle signorie loro che per l’omicidio Pecorelli è stato imputato Valerio Fioravanti. Sapevo già, invece, che lo stesso Fioravanti è tutt’ora tra gli imputati dell’omicidio Mattarella. Ebbene devo dirvi che almeno per quanto riguarda l’omicidio Mattarella dovete dimenticarvi Fioravanti, che con questo fatto non c’entra assolutamente nulla».
I giudici della corte di Assise di Palermo daranno indirettamente ragione a Buscetta qualche anno dopo: il 12 aprile del 1995 Fioravanti e Cavallini vengono assolti, mentre ai componenti della Cupola viene dato l’ergastolo perché riconosciuti mandanti degli omicidi Reina, Mattarella e La Torre. Il verdetto non appaga la sete di giustizia della famiglia di Mattarella che attraverso il suo legale, l’avvocato Fran- cesco Criscimanno, annuncia che chiederà alla procura generale di impugnare la sentenza di assoluzione per i due presunti killer:
Restiamo convinti che il loro ruolo nel delitto è uno dei nodi centrali del processo. Un’assoluzione definitiva precluderebbe quindi ogni possibilità di approfondimento su intrecci oscuri tra ambienti diversi. Le scoperte di questi giorni su alcune vicende della storia nera del paese dovrebbero suggerirci attenzione e cautela. Aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza per un giudizio più completo, ma intanto è possibile condividere quella parte che riguarda uno dei livelli dei mandanti.
La vedova Mattarella si dice invece delusa dal fatto che Fioravanti non sia stato condannato nonostante lei lo abbia riconosciuto come il killer dagli occhi di ghiaccio:
Sono convinta della volontà di giustizia della Corte d’Assise, in cui ho sempre riposto fiducia, ma, pur apprezzando la condanna dei capi mafiosi, non posso tacere la mia profonda amarezza per l’assoluzione di Fioravanti, che costituisce un grave errore. A nulla è valso il riconoscimento da me fatto, come testimone oculare, in assoluta obiettività e in piena collaborazione con la giustizia, a nulla sono valse le accuse del fratello Cristiano e di altri terroristi neri. Nonostante tali elementi, sembrano diventate decisive dichiarazioni, talvolta generiche, talvolta confuse, tal’altra palesemente erronee, di alcuni mafiosi collaboranti, cui non è necessario dare sempre e comunque credito. In questo modo l’im- pianto accusatorio delineato con pazienza e lungo lavoro, nonostante i ripetuti tentativi di depistaggio, dal giudice Falcone sembra accantonato e disatteso, mentre in tutta Italia si susseguono provvedimenti che confermano l’esistenza di inquietanti intrecci tra mafia, eversione nera e poteri occulti. Un secondo grado del giudizio è necessario la parte civile non può proporre appello; può farlo soltanto la Procura generale, cui ci si rivolgerà e nella cui sensibilità confido.218
Secondo i giudici, Riina Mattarella e La Torre «sono caduti sulla strada di un nuovo corso della politica regionale, della quale, in ma- niera diversa e su posizioni diverse, tutti e tre per la loro stessa qua- lificazione sono stati una espressione significativa»219. L’assoluzione di Fioravanti – si sostiene nella motivazione – è dovuto al fatto che la vedova del presidente della Regione si è convinta della somiglianza con il killer quando la faccia del terrorista era oramai diventata nota, per cui ci potrebbe essere stata una sovrapposizione tra l’immaginazione e realtà.
In secondo grado, però, l’accusa ritiene di poter dimostrare che a sparare contro Mattarella furono proprio i terroristi dei nar. Il so- stituto procuratore generale Leonardo Agueci è convinto perché la testimone oculare del delitto ha compiuto un «chiaro e convincente riconoscimento, senza esitazioni, in sede di ricognizione formale» e «la descrizione dei lineamenti del killer, della sua fisionomia, della sua particolarissima andatura, risultano straordinariamente corrispondenti a quelli dell’imputato». Secondo Agueci Mattarella era un uomo politico impegnato e esposto, anche sul piano nazio- nale, in una difficile azione di rinnovamento cui certamente si opponevano quei famigerati poteri occulti puntualmente comparsi sullo sfondo dei più gravi fatti delittuosi della recente storia nazionale. Pertanto l’accertamento delle respon- sabilità dei due imputati non può prescindere dalla valutazione delle più recenti emergenze investigative agli illeciti rapporti tra criminalità organizzata, potere politico ed ambienti eversivi previa acquisizione delle utili risultanze raccolte in altri procedimenti.
Agueci chiede la condanna all’ergastolo per Fioravanti e l’assoluzione per Cavallini, e la conferma del carcere a vita per tutti i componenti della Cupola mafiosa. La corte di Assise di Appello accoglie le richieste del sostituto procuratore generale solo per quel che riguarda i boss di Cosa Nostra, tutti condannati all’ergastolo. Fioravanti, invece, viene assolto; così come Cavallini. Dunque, i nar non c’entrano nulla, Mattarella non è stato assassinato da due terroristi neri, ma dalla mafia. Il killer resta, però, senza un nome e un volto. Il 5 maggio del 1999 la corte di Cassazione chiude per sempre la partita: conferma per il carcere a vita per i sette componenti della Cupola, assoluzione per Fioravanti e Cavallini. L’ipotesi di uno scambio di favori tra terroristi di destra e Cosa Nostra non è stata provata. Non aver mai individuato il sicario che sparò a Piersanti Mattarella e il suo complice a bordo della 127 bianca non è solo una sconfitta sul piano giudiziario perché due assassini sono rimasti impuniti; rappresenta, più che altro, l’impossibilità di comprendere appieno i motivi per cui è morto Mattarella: l’identità dei killer, mafiosi o terroristi che fossero, avrebbe condotto ai mandanti e quindi al movente.
Pietro Grasso, il primo magistrato che indagò sul delitto, ritiene che il politico democristiano sia stato eliminato per più di un motivo:
Nei fatti di mafia o in un omicidio politico come quello di Piersanti Mattarel- la non si può ritenere esclusiva una sola causale, ma secondo me coincidono tante causali che hanno un aspetto mafioso, perché certamente si era messo a contrastare Cosa Nostra in maniera concreta, con ispezioni sugli appalti comu- nali, con tutta una serie di stravolgimenti, la legge urbanistica che combatteva la speculazione edilizia, la programmazione economica che levava i soldi agli assessori, tutta una serie di innovazioni che certamente mettevano in crisi l’af- farismo mafioso collegato con la politica regionale. E questo è un dato di fatto. Ma oltre a questo c’era il problema politico della svolta verso la sinistra, con l’appoggio del Partito comunista che seguiva quello che era avvenuto e poi era stato bloccato con il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.221
Per Grasso c’è un solo modo per conoscere la verità: «Avremmo bisogno di un pentito di Stato, cioè di qualcuno che facendo parte delle istituzioni possa rivelarci questi collegamenti, queste connessioni di cui è, appunto, a conoscenza».
Il che vuol dire che la verità (forse) non la sapremo mai. Non resta che aggrapparsi all’inchiesta riaperta nel 2018 dalla procura di Pa- lermo: la pista seguita è sempre quella che conduce ai Nuclei armati rivoluzionari.
24 Dicembre 2019