In occasione del 30° anniversario dell’uccisione di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo, e della straordinaria vicinanza di questa data al 65° anniversario di Portella, sento il disappunto su ciò che ormai è la lotta antimafia nel nostro Paese.
Mi sono venuti in odio i falsi becchini dell’antimafia. Quelli che per dimostrare che fanno attività contro i criminali, i padrini, i malandrini, raccolgono santini e cronologie di morti. I comizianti, i pittori, i moralisti, i predicatori, i falsi scrittori, i falsi storici e tutti quelli che non rischiano mai niente. Con i morti fanno carriera e snocciolano rosari di corbellerie e talvolta giri d’affari. Scorze vuote della durata di qualche ora, scarabocchi su coreografie che si sciolgono come neve al sole. Questa nuova categoria di ultimi arrivati si sono fatti precedere dalla loro qualifica, dal loro status di antimafiosi. Sono abituati a farsi attendere. Invitati, riveriti e anche pagati. Poi sputano le loro sentenze senza avere mai fatto un sacrificio personale.
Mi indispongono perché ottengono il massimo risultato con il minimo sforzo. Fanno platea, scena, musica e spettacolo.
Con loro odio tutti quegli istituti, associazioni e organizzazioni di varia natura che realizzano tavole rotonde, interventi, e dibattiti. I suggeritori ad orecchio, i prestanome. Che percepiscono denaro pubblico e fanno parte di liste speciali di privilegiati ai quali si devono erogazioni, prebende e quant’altro. In nome dell’Antimafia, delle vittime di stragi e di quanti dallo Stato non hanno mai avuto niente se non menzogne, falsità, depistaggi, ignoramento. Anche loro ignorano ed escludono, fanno consorteria e dimostrano di essere clonazioni dei loro modelli, ormai dilaganti, pervasivi, edonistici. Pur a fronte delle tragedie che stanno colpendo le nostre famiglie.
Amano le ricorrenze e, purtroppo, con l’andar del tempo, svuoteranno le piazze e toglieranno voglia di fare, spinte emotive, ideali, scoperte. Sono i gusci vuoti del domani. Me ne sono capitati parecchi nella vita. Li incontri perché ti stanno accanto e poi, giorno dopo giorno, vedi che ti rodono come le tarme, ti attaccano come le larve, fanno sentire il loro rosicchio che scambiano per musiche d’autore, al cui centro ci sono solo loro, falsi creatori, falsi ricostruttori di menzogne, egoisti ed etnocentrici, abbarbicati a qualcuno che li difende o li manda in avanscoperta. Sono il tarlo del legno buono che corrode a varie latitudini, si infiltra nelle sedi che dovrebbero essere amiche e solidali, e invece scopri che tirano violenti coltellate. Alle spalle. Quando non ci sei. Perché la pensi diversamente. Se questa è sinistra, meglio il nemico che attacca a viso scoperto, perchè sai che è nemico.
Non ho mai capito se sono residui di stalinismo o semplici esempi della miseria umana. A modo loro mancati mafiosi, con il retaggio di alcuni codici che la mafiosità porta inevitabilmente con sé.
Per questo apprezzo, primi tra tutti, quelli che la mafia la lottano a viso aperto, senza chiedere nulla, e spesso nel silenzio della loro solitaria ricerca, della loro consapevole denuncia.
Adesso che arriva il 1° maggio, tremo e temo. Temo la calca, la musica gratis, la stampa dei libri d’occasione, i sindacalisti che dicono questo sì e questo no o, che, peggio, fanno di testa loro, sperperano denaro pubblico, riempiono fiumi di inchiostro e piazze di folle plaudenti. I sindacalisti dello scarto, gli esibizionisti dei palcoscenici con i cervelli vuoti di quattro nozioni che si ripetono annualmente da una ricorrenza all’altra. Dei caduti di Portella, fino a quando un deputato regionale timido e schivo se ne occupò dagli scranni del parlamento siciliano, nel 1999, questi signori non sapevano neanche i nomi e i cognomi; storpiavano quelli dei sindacalisti assassinati. Continuano a ignorarli ancora oggi. Ogni giorno che passa perdono sempre di più la memoria; i morti diventano un elenco freddo da leggere in pubblico su un pezzo di carta. Occasioni passate in contesti in cui, messe le coscienze a posto, questi morti si disperdono per tornare ai loro posti eterni, affidati al ricordo di pochi, alla verità della storia.
Tremo per la tronfietà dei discorsi e dei relatori, per il loro ergersi a pulpiti, a predicatori, difensori degli operai e della gente che lavora, quando essi per primi non hanno mosso un dito per i caduti, i morti, gli innocenti senza voce e senza istruzione. Tremo di rabbia perché mi rendo sempre più conto che c’è una mafia che uccide con le armi e c’è una mafia che uccide senza armi. Una seconda e una infinitesima volta. Ricorrendo all’esclusione, alla delegittimazione, alla diffamazione, al disprezzo. E continua a farlo sperperando denaro pubblico e non investendo un euro per la memoria, perché le nuove generazioni sappiano. Tremo perché certi signori con i fazzoletti rossi al collo per le cerimonie d’occasione, non si sono mai premurati di muovere un passo verso i tribunali, per interrogare i caduti e con essi chiamare lo Stato a fare il suo dovere primario di non dimenticare, di costruire sinergie per scoperchiare la terra e liberare il grido soffocato che viene sempre più forte dalle sue viscere. Ci dobbiamo godere le facce sepolcrali che troneggiano in mezzo a cori di ufficialità. E così non sia.