Oggi la 35° commemorazione del delitto in cui morirono i gemellini Asta e la mamma Barbara Rizzo
di Aaron Pettinari
Quelli che stiamo attraversando sono tempi difficili. L’emergenza sanitaria, accompagnata da una dirompente questione economico-sociale, sta mettendo a durissima prova l’intero Paese. Da giorni, diversi addetti ai lavori (magistrati, avvocati, associazioni, imprenditori) hanno lanciato l’allarme sulla necessità di intervento per evitare che mafia, corruzione e usura possano proliferare. Un invito a non sottovalutare la forza che le nostre organizzazioni criminali hanno, e che possono manifestare, capaci di insinuarsi e diffondersi tanto quanto il virus.
In questi momenti, in cui l’informazione è particolarmente concentrata sul fronte Covid-19, il rischio che ciò accada è alto, così come quello di dimenticare i volti, i sacrifici e le lotte di chi ha sacrificato la propria vita sull’altare di una lotta quotidiana contro quel tipo di “cancro”.
Un’ecatombe lunghissima di persone che ha visto cadere vittime illustri (magistrati, imprenditori, avvocati, forze dell’ordine, medici, politici, preti, giornalisti), ma anche tanti semplici cittadini (bambini, donne e uomini le cui vite sono state spezzate con violenza) dietro le cui morti, molto spesso, si nascondono dei veri e propri misteri di Stato.
Un esempio è quello che è accaduto con la strage di Pizzolungo che oggi vede la sua 35°esima ricorrenza.
Alle 8.35 del 2 aprile 1985, sulla strada statale che da Palermo porta a Trapani, un’auto imbottita di esplosivo, posteggiata sul ciglio della carreggiata e azionata da un telecomando, saltò in aria con l’obiettivo di colpire il sostituto procuratore Carlo Palermo, appena trasferitosi dalla procura di Trento, che si stava recando al palazzo di Giustizia di Trapani a bordo di una 132 blindata. Assieme a lui vi erano due poliziotti, seguita da una Fiat Ritmo di scorta non blindata con altri due agenti.
Al momento dell’esplosione però, la macchina del giudice stava sorpassando un altro veicolo, una Volkswagen Scirocco, dove a bordo c’erano Barbara Rizzo, 30 anni, e due dei suoi figli, gemelli di 6 anni, Giuseppe e Salvatore Asta.
Quell’automobile, di fatto, fece da scudo al mezzo del magistrato che rimase solo ferito. Così come l’autista Rosario Di Maggio e Raffaele Mercurio, mentre gli altri due a bordo della Fiat Ritmo, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta, furono gravemente colpiti dalle schegge: il primo ad un occhio, il secondo alla testa e in diverse parti del corpo. Entrambi verranno dichiarati inabili al servizio. Morirono dilaniati la donna e i due bambini.
Carlo Palermo e, sullo sfondo, il luogo della strage
Quel frangente così drammatico è stato descritto da Carlo Palermo nel suo libro, La Bestia: “Sulla destra nella strada c’è una voragine di metri. Vedo per terra piccoli frammenti di lamiera di altri colori. Un flash nella mente mi fa muovere di scatto la testa. Le altre macchine? Dove sono? Scomparse. Mi giro attorno. Vedo tutto offuscato. Una macchia rossa in alto sulla parete di una casa richiama la mia attenzione. Mi avvicino. C’è un cancello, chiuso. All’interno, per terra, in corrispondenza della macchia in alto, piccoli resti… di un bimbo… di un elastico… fogli svolazzanti di libri di scuola”.
Ogni volta che ripensa a quell’attimo di 35 anni fa il giudice Palermo prova una grande emozione vivendo uno stato d’animo tra il senso di colpa e la consapevolezza di essere un sopravvissuto.
Una strage su cui, nonostante il tempo trascorso e ben tre processi effettuati, ancora non si ha una verità completa, in particolare sui motivi che portarono Cosa nostra a colpire un magistrato che solo da quaranta giorni si era trasferito in Sicilia, a Trapani, dopo essere stato protagonista di delicatissime indagini presso il Tribunale di Trento.
Per la strage furono condannati all’ergastolo quali mandanti i capi mafia di Palermo e Trapani, Totò Riina e Vincenzo Virga, quali soggetti che portarono a Trapani il tritolo usato per l’autobomba, i mafiosi palermitani Nino Madonia e Balduccio Di Maggio.
Un processo che mise in evidenza le “voragini” di verità che si aprirono nel primo procedimento aperto contro i boss Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia.
I tre, individuati già nel 1987, furono condannati in primo grado all’ergastolo per poi essere assolti in appello.
L’ex boss di San Giuseppe, Giovanni Brusca, sentito al processo contro Messina Denaro per le stragi del 1992, ha svelato che Riina diede ordine al capo mafia di Caltanissetta, Piddu Madonia, di “avvicinare” i giudici del processo di Pizzolungo per “aggiustare il processo”.
I pentiti, e le indagini successive, hanno indicato Calabrò, Milazzo e Melodia come gli esecutori. Ma non possono essere riprocessati, per via del “ne bis in idem” per cui non possono tornare imputati per un reato per il quale esiste sentenza definitiva di assoluzione.
Barbara Rizzo insieme ai figli, Giuseppe e Salvatore Asta
Nelle motivazioni della sentenza contro Virga e Riina viene evidenziato “il cortocircuito” e dimostrato come il processo argomentativo sviluppato dai giudici che assolsero i tre boss fu totalmente errato. Ed oggi Margherita Asta, la sorella dei gemellini torna a chiedere con forza verità e giustizia anche alla luce del quarto processo, in corso a Caltanissetta, che vede imputato Vincenzo Galatolo.
Quest’ultimo, già condannato all’ergastolo per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, è accusato di essere stato non solo il mandante del delitto ma anche di aver per primo pensato ed ideato l’attentato al magistrato Carlo Palermo.
Una figura, quella del boss palermitano, che è al vertice di una famiglia, quella dell’Acquasanta, particolarmente vicina ad ambienti “deviati” dei servizi segreti.
Nel 1989, erano stati proprio i Galatolo ad aver organizzato il fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone. Quell’attentato che lo stesso giudice aveva attribuito a “menti raffinatissime”.
E la strage di Pizzolungo, nel suo contorno, presenta le medesime trame oscure.
Il nuovo processo si è aperto grazie alle dichiarazioni della figlia “ribelle” Giovanna Galatolo e del pentito Francesco Onorato.
Lo scorso settembre il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, al termine della sua requisitoria ha chiesto una pena a 30 anni di carcere per il capomafia.
Purtroppo nel processo, che si celebra con il rito abbreviato, non è stato possibile compiere quell’approfondimento che sarebbe stato possibile se si fosse proceduto con il rito ordinario. Comunque si è cercato di mettere in fila una serie di fatti che avvennero prima e dopo l’attentato.
Anche per dare una risposta a quegli interrogativi sui motivi che portarono al delitto, che permangono ancora oggi.
“E’ vero che su Pizzolungo non si è fatta completamente luce, ma nelle ombre se si ha voglia e capacità molte cose si colgono – scrisse un collega attento come Rino Giacalone nel 2017 – Mafia e non solo mafia, sentiamo dire spesso. Noi sosteniamo mafia e basta, perché non è stata meno mafiosa l’azione di chi all’esterno di Cosa nostra ha dato una grande mano per organizzare l’attentato e fare arrivare a Trapani il tritolo più potente che ci fosse, per depistare, per fare assolvere in maniera definitiva gli esecutori della strage, per dare un senso a quella strage, andando a trattare con pezzi dello Stato, come è avvenuto”.
Margherita Asta, sorella dei gemellini vittime dell’attentato
E quindi si torna ai nomi dei tre che furono assolti definitivamente dalla sentenza di Cassazione di Corrado Carnevale e dal consigliere Paolino Dell’Anno. Tutti soggetti che per anni sono comparsi in indagini su mafia, massoneria, processi venduti e comprati.
Giacalone descriveva Pizzolungo come “uno dei momenti che Cosa nostra usò per portare pezzi dello Stato a compiere una delle tante trattative, il botto poi doveva stordire la società, renderla addomesticabile e sottomessa”. E ci ricordava come sul delitto “c’è la firma degli specialisti delle trattative in questa strage, oltre quella di Riina anche quella dei Messina Denaro, il patriarca Francesco, morto nel 1998, e il nuovo boss, Matteo, latitante dal 1993. Lo hanno raccontato i pentiti che l’ordine della strage arrivò anche da loro. Matteo Messina Denaro è l’autore delle stragi del 1993, sotto processo è adesso per le stragi del 1992. Suo fedele alleato fu proprio in questa recente stagione di stragi il carrozziere di Castellammare del Golfo, Gino Calabrò, il meccanico nella cui officina fu imbottita di tritolo la golf usata per la strage. Guarda caso il nome di Calabrò figura tra le carte della loggia massonica segreta Iside 2″.
Anche il giudice Carlo Palermo ha un’idea precisa sui motivi che portarono a quell’attentato. “Io nel 1985 ho avuto la fortuna di sopravvivere alla rivelazione di alcuni segreti di Stato” aveva raccontato ai nostri microfoni così come nel 2015, in un’intervista a L’Avvenire, disse con chiarezza, riferendosi anche alle indagini compiute quando era giudice istruttore di Trento: “Sono stati condannati boss mafiosi. Ma non erano i soli a volermi eliminare. Mi ero avvicinato ad alcuni nomi intoccabili e che infatti non sono mai usciti. Dalla Turchia arrivava la droga, che poi finiva in Sicilia e da qui era smistata in Francia e Stati Uniti. Armi e terrorismo costituivano parti inscindibili di quei patti segreti. La prova, già allora, che la grande criminalità è un fenomeno globale e complesso. I giudici, frenati dal criterio della territorialità, giocano una sfida impari. Servirebbe un reale coordinamento internazionale delle indagini. Altrimenti è impossibile venirne a capo”.
La scorsa settimana, in occasione delle commemorazioni sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, l’ex giudice, oggi avvocato della famiglia Alpi, evidenziava la necessità di una visione sui segreti di Stato presenti sulle stragi e tanti delitti eccellenti. La strage di Pizzolungo, a tutti gli effetti, è uno di questi.
VIDEO Guarda il documentario: Diario Civile – Pizzolungo, memorie di una strage
Per partecipare alla campagna social in coincidenza del 35° anniversario della strage mafiosa di Pizzolungo del 2 Aprile 1985
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02 Aprile 2020