di Rinaldo Battaglia*
A metà marzo del 1955, proprio di questi giorni, usciva un libro molto particolare e sin dall’inizio molto criticato. L’autore era nato 46 anni prima (il 16 maggio 1909) a Sosnowiec in terra di Polonia, da famiglia ebraica come Yehiel Feiner. Ma è un nome che dice poco o nulla, perché sarà inizialmente meglio conosciuto come Ka-Tzetnik 135633.
E per facilitare la sua identificazione, quel nome derivava da un luogo e da un numero preciso, ossia K.Z. (Ka-tzet nella pronuncia tedesca) sintesi di Konzentrationslager (campo di concentramento) e dal suo numero personale di matricola tatuato sul braccio sinistro. Era così chiamato ad Auschwitz. Quello era il suo nome nel lager e volle mantenerlo anche dopo la liberazione. Almeno fino quando si trasferì in Israele e si fece ‘ebraicizzare’ il cognome di famiglia in De-Nur.
Divenne quindi alla fine Yehiel De-Nur e sarà appunto un grande, grandissimo scrittore israeliano. E scelse di parlare delle vicende umane più basse, quelle immorali o ‘sporche’, quasi volgari della vita (e della morte) nei lager. Scelse a differenza di altri autori – di cui magari non godeva di analoghe doti di profonda analisi interiore (come Primo Levi) o di carattere poetico (come Elie Wiesel), anche perché queste difficilmente superabili – gli argomenti ‘più ultimi degli ultimi’ e con uno stile molto crudo e violento, coerente a quel mondo così crudo e violento.
Alcuni storici definirono il suo scrivere come ‘pagine di semplicità disarmante, esattamente tanto quanto il terrore che in esse descriveva’. Perché quella era la realtà che aveva vissuto sulla sua pelle e che voleva fedelmente riportare a chi sarebbe venuto dopo, per fare testimonianza e creare memoria. E certamente riuscendovi, tant’è vero che è molto conosciuto soprattutto nelle giovani generazioni di Israele. Ma non solo. Da decenni peraltro è presente un premio letterario biennale, molto prestigioso, intestato al suo nome e consegnato direttamente a Tel Aviv dal Presidente della Repubblica, per mantenere viva la memoria della Shoah, così bene anche dalla sua penna riportata. Forse in maniera unica.
Ma proprio per la ‘crudezza’ dei suoi testi e la violenza degli argomenti, Yehiel De-Nur è stato spesso oggetto di forti e aspre critiche. soprattutto per come toccava i temi sessuali, rasentando quasi la pornografia. Perché fu il primo a parlare della prostituzione ed egli abusi sui bambini all’interno dei lager.
Era il 1955 quando pubblicò quel suo primo libro – ‘La casa delle bambole’ – e a quel tempo era tabù non solo parlare della prostituzione ad Auschwitz, ma parlare di Auschwitz. In Germania sarà solo coi processi di Francoforte sul Meno del grande giudice Fritz Bauer che si conoscerà quella terribile parola, ma il primo processo comincerà solo a Natale del 1963. Ben 8 anni dopo. E dopo ‘La casa delle bambole’ seguirono altri libri, come ‘Piepel’ (1963), ‘La fenice venuta dal lager’ (1975) o ‘Alba sull’inferno’ (1978).
Yehiel De-Nur fu molto provato dalla sua esperienza nel lager, forse più di altri sopravvissuti. Malgrado il successo letterario non comparve quasi mai in pubblico. E quella volta che lo fece – molto coraggiosamente ma anche coerentemente con la sua scelta – svenne per la tensione e per la sofferenza interiore davanti a migliaia di persone, forse milioni in diretta tv, tanto che la sua immagine – stesa per terra sul pavimento come fosse morto – fece molto clamore. Eravamo già sul finire del 1961, al ‘processo del secolo’ contro Adolf Eichmann (svolto a Gerusalemme dall ’11 aprile e il 15 dicembre 1961) dove Yehiel De-Nur rese due testimonianze (passate agli atti come la numero 68 e la numero 69) che fotografarono, perfettamente e involontariamente, agli occhi del mondo quanto costasse solo rivivere a parole quei momenti nei lager.
Della disumanità e delle atrocità commesse nei lager , oramai, per chi vuol conoscere – dopo 80 anni – si è scritto molto. Molto poco invece si conoscono le violenze sessuali sistematiche, organizzate, programmate che avvenivano nei lager.
Yehiel De-Nur (a quel tempo ancora come Ka-Tzetnik 135633) ne fece il tema del suo scrivere proprio per indicare la depravazione e l’abisso a cui era arrivato l’uomo. Sempre ammesso che quello fosse un uomo. In ‘La casa delle bambole’ usando il termine ‘Joy Division’ (nell’edizione inglese) o di ‘Freudenabteilung’ (nell’edizione tedesca) parlava dei bordelli nei lager nazisti.
Peraltro il nome di ‘Joy Division’ nel 1978 venne appositamente scelto dal cantante inglese Ian Curtis per così chiamare la propria band musicale, con chiaro riferimento al tema così dissacrante e provocante del libro di Yehiel De-Nur.
Yehiel De-Nur parlava dei bordelli, sia per i soldati nazisti ma anche per i prigionieri dei nazisti, organizzati in precisi ‘luoghi per la fornitura di servizi’, chiamati tecnicamente Sonderbauten (edifici ‘speciali’) abbreviati in KZ-System. Bordelli che Himmler volle istituire e rendere operativi all’interno dei lager principali sin dal 1942. Il primo apripista fu Mauthausen e subito dopo il suo sottocampo di Gusen. Seguirono nell’ordine Buchenwald, Auschwitz, Birkenau e Monowitz nel 1943, Dachau e Mittelbau-Dora agli inizi del 1944.
Himmler, sempre più sadico criminale, col passare della guerra aveva più obiettivi in merito alla gestione dei lager. Da una parte voleva infatti ‘incentivare’ fortemente la produzione dei deportati, senza incrementarne i costi. E pensò di usare il bastone (assassini quotidiani, violenze gratuite e maggior sfruttamento possibile) e la carota, concedendo piaceri sessuali ad alcuni privilegiati quale premio. Per la loro produttività, o meglio per aver fatto produrre di più i loro ‘sulbalterni’ soprattutto.
Parliamo dei ‘kapo’, dei ‘vorarbeiter’ ma anche semplici ‘hatflinge’ se lo avessero meritato (magari facendo delazioni o spiate ). Da questo ‘beneficio’ erano però tassativamente esclusi gli ebrei ed i prigionieri di guerra russi. Già dal maggio 1943 venne istituito per i Sonderbauten un preciso regolamento per la concessione d’agevolazioni per i prigionieri, onde evitare ‘facilitazioni sbagliate’. Tutto codificato, tutto bene precisato.
Secondo obiettivo: soddisfare sessualmente le truppe naziste. E su questo argomento Himmler non era solo. Soprattutto un ruolo decisivo qui lo ebbe il Feldmaresciallo Wilhelm Bodewin Johann Gustav Keitel, comandante della Wehrmacht , impiccato dopo Norimberga. Nazista fanatico era terrorizzato anche dal fatto che molti soldati del Terzo Reich – soprattutto quelli in servizio nei lager – si diceva fossero omosessuali e, da omofobo convinto, rese obbligatorio il ricorso ai bordelli da parte di ogni militare di truppa. Arrivò pertanto alla ‘frequentazione minimale’ dei bordelli per ogni soldato, (non meno di una volta al mese) con tanto di ‘ticket’ pagato e verificato per l’utilizzo del servizio. E poi ovviamente non mancavano gli ufficiali, quasi sempre drogati ed ubriachi, vogliosi di tutto e di più, anche per la sola soddisfazione di ‘manifestare’ il loro potere e il loro ruolo, senza alcun limite, senza alcun freno.
E se c’era la domanda di sesso si necessitava dell’offerta. E qui entriamo nella parte più crudele, atroce, disumana. E quanto si tocca il tasto della crudeltà, atrocità e disumanità la figura di Himmler ritorna inevitabilmente e di prepotenza in gioco.
Era stata sua l’idea iniziale del Sonderbauten. Durante una visita a Mauthausen, insoddisfatto della scarsa produttività dei prigionieri nelle cave circostanti, al kommandant aveva dato quella risposta. Ora era sua anche l’altra soluzione. Se erano milioni solo i soldati che ‘necessitavano’ del servizio, servivano migliaia e migliaia di donne. E se le prostitute in operatività erano poche ed insufficienti, Himmler dette precisi ordini di rapire e deportare, soprattutto ragazze giovani. Solitamente non oltre i 25 anni ma anche sotto i 14 anni di età. In pochi mesi (dal ’42, ma soprattutto nell’inizio del ‘43) con l’apertura dei ‘Joy Division’ in terra di Polonia, oltre 32.000 ragazze polacche (poche ebree, soprattutto non ebree) vennero rapite, deportate e costrette alla prostituzione, costantemente per ore e ore della giornata dopo le ore 20 e dopo di notte.
Si rastrellavano zone precise, si circondavano interi quartieri, si prendevano le ragazze, le si caricavano sui camion e a casa non tornavano più. La loro vita proseguiva dentro i lager a soddisfare le richieste più sadiche e depravate. Erano schiave, come erano schiavi gli altri deportati, come i nostri IMI , come i nostri prigionieri. Era la fotografia del nazismo: chiacchiere e distintivo. Come qualsiasi altro regime criminale, come qualsiasi dittatura, che basavano e basano il loro potere sulla corruzione (fisica e morale), sulla cancellazione della dignità umana e nella totale incoerenza dei loro principi.
Come il fascismo di Mussolini, quello del ‘Dio, Patria & Famiglia’. Poi, a dire il vero, non si sa bene di quale dio si parlasse, visto che il nostro Dio professava la parità tra gli uomini senza ovviamente razze inferiori.
Meno ancora di quale Patria, visto che – avendone il Duce perso il potere – poi se ne era costruita una in casa a Salò, mandando al macello l’Italia del Centro-Nord, dove ogni paese oggi presenta croci e capitelli a memoria. E peraltro, al momento di pagare il conto, stava fuggendo all’estero, vestito da straniero. Per non parlare di Famiglia: lui, Mussolini, ne era l’esempio massimo dell’incoerenza, con più donne, amanti, famiglie, figli in più angoli dell’Italia.
Chiacchiere e distintivo, morte e criminalità. La faccia del fascismo del Duce e del nazismo del Fuhrer, suo figlio. ‘La casa delle bambole’ di Ka-Tzetnik 135633, alias Yehiel De Nur, parlava della vita di una di queste ragazze – Daniella – rapita a soli 14 anni. Pochi giorni e venne, con altre analoghe, sottoposta a violenze di ogni tipo per prepararle il ruolo futuro, chiusa in una ‘gabbia’, tatuato sul petto la scritta ‘Feld Hure’ (prostituta da campo) e una serie di numeri che le sostituirono il nome. E condannata – dentro baracche dipinte di rosa, pulite e persino adornate di fiori profumati – a regalare “gioia”, ai soldati tedeschi prima di essere, molti, mandati a morire per il Fuhrer sul fronte russo. E talvolta quel destino succedeva anche a ragazzi maschi, poco più che bambini, come le ragazze costretti a cedere il proprio corpo, senza alcuna possibilità nemmeno di reagire o forse neanche fiatare. Soprattutto loro, anche con clientela di grado più elevato, sia sotto il profilo militare che della perversione sessuale.
Daniella venne rapita e deportata durante l’operazione Barbarossa. Il fenomeno, nella sua disumanità, verrà a notizia quando l’Armata Rossa inizierà a liberare i lager nazisti, trovando peraltro poco credito anche tra gli Alleati. Perché i nazisti facevano altrettanto in molti paesi occupati, sia nei Balcani ma anche in Norvegia, dove nel ’44, in alcune operazioni, soldati inglesi ‘liberarono’ molte di queste giovani donne.
In Italia questo crimine non venne sviluppato, probabilmente perché l’invasione dell’Italia fu successiva all’8 settembre 1943 ed eravamo già nella fase di luna calante nelle ‘necessità di bambole’, come ordinato e organizzato dagli uomini (uomini, per modo di dire) di Himmler. Altri storici indicano, invece nell’esclusione delle ragazze italiane dalla prostituzione sistematica nazista, per la ‘colpa’ di essere di un paese ‘traditore’ e quindi non si voleva essere ‘contaminati’. Lo stesso dicasi per le ragazze ebree, in buona parte fuori – ma non escluse – da questo crimine per il loro sangue ‘non ariano’.
Quasi tutte queste donne se non transitavano per Auschwitz, passavano prima tramite il lager ‘formativo’ di Ravensbrück, che fungeva da fulcro centrale e da luogo di smistamento. Si pensa che prima della sua liberazione (30 aprile 1945, da parte dell’Armata Rossa) vi fossero transitate almeno 110 mila donne (su 130 mila deportati complessivi, di cui 92 mila morti).
Secondo alcune stime, il 70% delle donne e giovani ragazze costrette a prostituirsi nei Sonderbauten provenivano soprattutto dalla Polonia e dall’Ucraina ma altre anche erano d’origine tedesca. Secondo il regolamento del maggio ’43, avevano ritmi di lavoro più blandi ed impiegate in occupazioni più leggere, rispetto alle altre deportate, almeno sino alle 20 perchè da quell’ora erano obbligate alla prostituzione. Ricevevano razioni di cibo più sostanziose rispetto alla media e ciò permise loro una maggiore possibilità di sopravvivenza alle terribili condizioni del lager.
Venivano, normalmente, sterilizzate, peraltro senza anestesia, sin dall’arrivo nei lager: le gravidanze erano del tutto assenti, ma nel caso in cui una ragazza fosse rimasta incinta, il personale medico del lager ricorreva immediatamente all’aborto senza nessun problema. Erano ‘macchine’ per il sesso: tutto studiato, programmato, regolamentato. Nulla di più, nulla di meno.
Noi dobbiamo molto alle pagine di Ka-Tzetnik 135633, alias Yehiel De-Nur, perché ha permesso di rendere al mondo una visione ancora più depravata e bestiale del nazismo e permettendo che altri – dopo – ne parlassero, sebbene in modo più esterno o meno vissuto sul campo. Ma ne parlassero.
Erano pagine che non meritavano di esser nascoste dall’ipocrisia del nostro vivere quotidiano, dove a 80 anni di distanza abbiamo cariche dello Stato (la numero 2, come il 5 marzo u.s. in visita al Muro del Pianto) che non riescono a dire che il fascismo (dalla cui costola è nato il nazismo) è stato il ‘male assoluto’. Oppure la Premier che (Roma, 13 dicembre 2022) dichiara ‘infami’ le leggi razziali ma le manca la forza, la coerenza ed il coraggio di dire chi le aveva firmate e le rese criminalmente legali ed operative in Italia.
Credo che gli esperti che, anni addietro, si sono scandalizzati dal tema scelto da Yehiel De Nur e dallo scrivere, in modo così crudo la realtà delle ‘bambole nelle case naziste’, dovrebbero oggi scandalizzarsi della nostra ipocrisia ed ignavia. Totalmente diseducativa verso i nostri figli e la generazione futura.
Noi dobbiamo molto a Ka-Tzetnik 135633, alias Yehiel De-Nur perché altri dopo – come Robert Sommer (nel suo ‘Das KZ bordell’), psicologo di fama internazionale e ‘Distinguished Professor of Psychology Emeritus’ presso l’ Università della California, Davis – arrivassero a studi molto approfonditi sulla bestialità di quei comportamenti.
Sommer, ad esempio, arrivò anche a citare casi particolari, in cui nei lager nacquero persino dei ‘sentimenti’ perché “per i prigionieri la motivazione alla base della visita non era necessariamente quella di fare sesso, bensì quella di sentirsi di nuovo come una persona; alcuni facevano regali alle ragazze e c’è anche un caso in cui un uomo e una donna conosciutisi in un simile bordello si sono poi sposati dopo il 1945”.
Non sempre vittime erano solo le ‘ragazze’ ma spesso anche i ‘giovani soldati’, a cui veniva offerto un ultimo attimo di gioia prima del fronte.
Prima di morire, Alessandra Chiappano, Dottore di ricerca in Storia contemporanea dell’Università di Torino, sviluppò molto la tematica e la falsa ipocrisia che la copriva. Nel suo ‘Essere donne nei lager’ (del 2009) arrivò a dire che, dopo la fine della seconda guerra mondiale ‘si tentò di far passare sotto silenzio la prostituzione nei campi di concentramento, anche per la mancata testimonianza delle vittime che si ritenevano in qualche modo colpevoli di essere sfuggite alla sorte delle altre donne prigioniere.
In questo contesto, entrambi gli stati tedeschi, supponendo la complicità delle ragazze, si trovarono concordi nel negare alle donne sia la condizione di vittime che il risarcimento per gli enormi dolori provati all’interno dei lager’. La beffa dopo l’inganno.
Noi dobbiamo molto a Ka-Tzetnik 135633, alias Yehiel De-Nur e forse l’immagine più corretta e simbolica risulta quella del suo svenire a terra, durante la testimonianza così dolorosa contro Eichmann. In quella scena c’è molto del nostro tempo e della nostra Italia, sebbene apparentemente e superficialmente estranea. Di fronte alla vittima della Shoah sedeva Adolf Eichmann, l’uomo della Conferenza di Wannsee ricercato prima e dopo Norimberga (1945/1946) in tutto il mondo.
Due anni dopo (giugno 1948) tramite la vaticana Rat-line del vescovo di Pio XII, Alois Hudal, ottenne dal vescovo vicario di Bressanone, Alois Pompanin, un passaporto, a nome Ricardo Klement, rilasciato e firmato in quel comune da una ‘non meglio’ precisata “Delegazione in Italia” della Croce Rossa di Ginevra (a firma del dottor Leo Biaggi) in base alla testimonianza del padre francescano Edoardo Domoter. Grazie a quei documenti italiani Adolf Eichmann, alias Ricardo Klement, salpò il 14 giugno 1950 da Genova verso l’Argentina.
Uno dei 30.000 nazisti e fascisti di tutta Europa, uno dei tanti come (fra la fine del 1947 e gli inizi del 1951) il Duce degli ustascia Ante Pavelic, il medico della morte Joseph Mengele, il boia di Lione Klaus Barbie, il capitano delle SS poi condannato all’ergastolo per il massacro delle Fosse Ardeatine Erich Priebke, il responsabile del piano di sterminio dei disabili Aktion 14, Gerhard Bohne.
A quel tempo l’Italia era chiamata in gergo dei fuggitivi e della Rat-line: il ‘colabrodo’. Un colobrodo tecnico, ipocrita ed immorale. Noi dobbiamo molto a Ka-Tzetnik 135633, alias Yehiel De-Nur e meriterebbe da parte nostra una maggiore sua conoscenza, nella lotta contro la criminalità del nazifascismo e l’ipocrisia atavica che da sempre lo protegge, difende e mantiene. Le bambole di Himmler non meritano l’oblio.
Se da qualche parte dell’Italia avete ancora una via senza nome, ricordatevi di Ka-Tzetnik 135633 o se preferite Yehiel De-Nur. So che nelle scorse settimana a Gioia del Colle, in provincia di Bari, hanno deliberato una nuova via a Giorgio Almirante. Mi permetto di ricordare che Giorgio Almirante era razzista, antisemita, promulgava la spedizione dal Binario 21 degli ebrei – anche piccole bambine – verso Auschwitz e che a Gioia del Colle dall’agosto ’40, negli immobili del molino e pastifico Pagano, vi era un campo di concentramento che contenne almeno 240 ebrei.
Era un campo fascista non nazista e non a caso il comando spettava al commissario del fascio E. Santini. Strada facendo è documentato che almeno 12 prigionieri, perché colpevoli solo di essere ebrei, vennero mandati alle camere a gas di Auschwitz e tra questi anche il filosofo ed avvocato Paolo Levi, arrestato nella mia terra veneta (a Chioggia per la precisione) il 5 dicembre 1943 e partito poi da Gioia del Colle a Fossoli e da qui verso la morte il 22 febbraio 1944.
Pochi anni dopo lo ‘svenimento’ in diretta tv di Yehiel De-Nur Francesco Guccini (nel 1965) da noi scriveva:
“…Perchè è venuto ormai il momento di negare
Tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura
Una politica che è solo far carriera
Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto
L’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto
E un dio che è morto
Nei campi di sterminio, dio è morto
Coi miti della razza, dio è morto..”
L’ipocrisia atavica italiana resta sempre forte, viene da dire. Sono passati 60 anni e non so se da noi è cambiato qualcosa. Ci si scandalizza delle cose sbagliate, non ‘del dedicare’ vie a fascisti razzisti, antisemiti, soci di Himmler ed Hitler. Da vergognarsi di essere italiani anche nel 2023. Il colabrodo permane e si rafforza. La ‘Casa delle bambole’ usciva 68 anni e la domanda di fondo resta la medesima: l’uomo ha fatto passi in avanti?
* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell’Osservatorio
12 marzo 2023