G.C.
Era l’1 maggio del 1947, la festa del lavoro.
Come ogni anno, migliaia di persone si radunarono nelle piazze e nei parchi delle città di tutt’Italia, compreso il pianoro di Portella della Ginestra, un luogo metà strada tra i piccoli comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in Sicilia.
Doveva essere un giorno speciale, un momento di ritrovo, di confronto tra le diverse realtà lavorative. I partecipanti si riunirono sia per manifestare contro il latifondismo e le condizioni in cui versavano, ma anche per festeggiare la vittoria, quasi inaspettata, del Blocco del Popolo, la coalizione di sinistra che appena 10 giorni prima era riuscita a sconfiggere la Democrazia Cristiana nelle elezioni regionali, nonostante la campagna anti-comunista di stampo mafioso che nell’isola si vedeva compiuta.
La celebrazione finì nel sangue: improvvisamente, dalle colline circostanti al pianoro, qualcuno sparò. Numerose raffiche di mitra provocarono undici morti, di cui due bambini, e ventisette feriti, dei quali alcuni morirono successivamente per le gravi ferite riportate. A sparare erano stati, secondo quanto scoperto quattro mesi dopo, gli uomini del bandito Salvatore Giuliano.
I motivi della strage non erano certo un mistero, a fronte di tutto. Basti pensare al quadro politico dell’Italia: il governo di coalizione antifascista di De Gasperi era crollato ed erano andati a formarsi nuovi governi, con le forze di sinistra all’opposizione. Niente di diverso in Sicilia, dove, nonostante la vittoria del Blocco del Popolo, salì ancora la Democrazia Cristiana, fiancheggiata da partiti conservatori.
Vi era poi la lotta al potere sovietico, che in quegli aanni appariva una priorità nello Stivale: il Paese, infatti, era stato inserito all’interno dello schieramento atlantico sotto l’egemonia degli Stati Uniti e dei suoi servizi d’Intelligence, i quali avevano già minacciato dure ripercussioni in caso di vittoria delle sinistre in Italia.
In questa situazione, infin, giocò un ruolo di primo piano anche la Chiesa che, negli stessi anni, trovava nel comunismo il più acerrimo nemico. Tant’è che, riguardo la strage di Portella, ci fu anche chi, tra gli ecclesiastici, parlò di un evento inevitabile di fronte alle idee anticristiane e antinazionali dei “rossi”. Una sorta di punizione per chi si opponeva al cattolicesimo attraverso il voto.
Di fatto, la strage si configurava come un monito per quanti si volessero opporre alle decisioni dei poteri che comandavano l’Italia, i quali furono in grado di trasformare il bandito Giuliano in una mera pedina, il braccio armato di un organismo ben più grande e terrificante.
A fare per primo il suo nome, fu l’ispettore Ettore Messana, noto anticomunista, esattamente come l’allora Ministro degli Interni Mario Scelba, il quale, a sua volta, si adoperò a lungo per smentire come potesse nascondersi un motivo politico dietro l’eccidio.
Di diversa opinione era Girolamo Li Causi, l’uomo che, il 2 maggio ’47, rivelò come, durante la strage, il maresciallo dei carabinieri si intrattenesse con alcuni mafiosi. Come se non bastasse, raccontò anche che, tra coloro che sparavano, vi erano anche monarchici ed esponenti del Fronte dell’Uomo Qualunque.
Nessuno lo ascoltò: Salvatore Giuliano venne incoronato capro espiatorio assoluto e nessuno si adoperò a compiere ulteriori indagini sulla strage: le vittime non vennero visitate e nessuna perizia balistica venne effettuata a Portella della Ginestra. Appena un anno dopo, il 17 ottobre 1948, la banda di Giuliano venne rinviata a giudizio e, successivamente, 12 imputati si videro inflitto l’ergastolo.
Il bandito, a quel punto, si rese presumibilmente conto di essere stato usato: nel ’49 scrisse una lettera ai giornali in cui confermava lo scopo politico della strage e iniziò a minacciare di render pubblici tutti i nomi dei potenti che lo avevano contattato.
Era divenuto pericoloso, scomodo e, per tale motivo, andava eliminato.
Accadde un anno dopo: il 5 luglio del ’50 il bandito venne trovato senza vita e il ministro degli Interni Scelba si affrettò a raccontare alla Sicilia intera che era rimasto ucciso in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine.
Diversa la versione del luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta, morto poi avvelenato nel ’54 in carcere: l’uomo raccontò di essersi accordato con i servizi per eliminare Giuliano in cambio di un salvacondotto e consegnare poi il corpo affinché venisse inscenato il conflitto a fuoco.
Intervenuto al processo sulla strage, Pisciotta sciorinò anche i nomi di coloro che ordinarono il masscro del 1 maggio ’47: uomini politici di spicco, come Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e lo stesso Mario Scelba.
“Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere”, dichiarò in proposito. “Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa”.