La conta come era prevedibile ha scosso e creato confusione in diverse assemblee territoriali. Non si può far finta di niente.
La battaglia sullo statuto di Potere al Popolo si è conclusa e ora sono più chiare diverse questioni. Intanto solo a distanza di giorni viene confermato, candidamente, da alcuni dirigenti, che essa era una battaglia innanzitutto politica (basti vedere gli scritti in merito di Prinzi). Peccato che se ne siano accorti in pochi, dato che lo scontro è stato mascherato all’interno della contesa sulle regole del gioco e questo la dice lunga sul rispetto che il Coordinamento nazionale provvisorio (con l’eccezione di qualche singolo) ha dei militanti di base: utili portatori di acqua nella sfera del “fare”, usati come massa di manovra per la conquista del potere, ma da tenere fuori da ogni possibilità di battaglia delle idee. Talvolta la realtà gioca brutti scherzi e si diverte a ribaltare tutti i piani preparati a tavolino, per questo siamo materialisti e dialettici perché sappiamo di dover fare i conti con la prassi oltre che con il suddetto tavolino. Ma qui a ribaltare le cose ci si è provato di proposito, anteponendo la discussione sulle regole a quella sulla linea politica. Adottando una tattica forse utile in una fase pre-rivoluzionaria, possiamo confermare che le cose le stiamo facendo veramente al contrario.
Era però anche una battaglia sullo statuto. E dunque ora c’è uno statuto. Il nostro collettivo si era già espresso, e in tempi non sospetti, contro entrambe le soluzioni: sia quella verticistica (statuto uno) che quella gruppettara (statuto due), chiedendo dapprima un ripensamento, perché partire con una guerra interna non ci pareva il modo migliore di dar vita a una nuova impresa politica e, poi, visto che la proposta non è stata accolta, astenendosi dalla/nella votazione.
Peraltro, le due proposte che si differenziavano per alcuni aspetti, erano però accomunate da un singolare rifiuto: quello di prendere in considerazione un modello organizzativo che fosse espressione diretta anche delle lotte nei luoghi di lavoro, conferendo rappresentanza e autonomia alle organizzazioni di base di Potere al Popolo nelle fabbriche e negli uffici e non solo nei territori. Questa scelta fa trapelare, in controluce, il rifiuto della lotta di classe da parte di entrambi i contendenti e li allontana dalla gran massa dei lavoratori e dalla preoccupazione per loro reali condizioni e bisogni.
Chiedevamo uno statuto unico a tesi emendabili tramite il quale dare mandato alla base di decidere le regole del gioco, stabilendo regole certe a garanzia di un potere decisionale reale. Ritenevamo e riteniamo che, non trattandosi di una partita di calcetto, per la quale basterebbe un doodle, ma della costruzione di un soggetto politico ampio della classe lavoratrice, non si possa fare a meno di rappresentanti, di strutture intermedie funzionali e revocabili che implementino la necessaria dialettica tra base e vertice, e tante altre cosine democratiche basilari utili al funzionamento di tale organizzazione.
Riteniamo totalmente scellerata la scelta dei sottoscrittori del secondo documento di ritirare lo statuto pochi secondi prima del voto, si tratta di un gesto sconsiderato che ha minato la credibilità dell’intero progetto politico.
Ora, visto che la frittata è fatta e come previsto è scoppiata la guerra (anche piuttosto aspra), è necessario capire come salvare il progetto politico, perché per andare avanti non crediamo che basti ripetere a pappagallo un motto (“indietro non si torna”) ma serve più banalmente tenere dentro e non perdere nemmeno un compagno.
Vi sono due strade possibili: o concepiamo Potere al Popolo come un processo, complesso, di riaggregazione della sinistra in un soggetto politico ampio, funzionale, che superi l’intergruppi e che, basandosi sul principio di una testa un voto, punti ad abbracciare a sé i ceti popolari e tenga dentro con il dovuto rispetto tutte le sensibilità del complesso arcipelago della sinistra anticapitalista, oppure pensiamo che PaP debba rimanere gelosamente custodito da una rispettabile ma ristretta cerchia di promotori che a suon di maggioranza decide linea, regole e dirigenti.
Volendo seguire la prima direzione è necessario ripristinare le più basilari regole democratiche per il funzionamento di una qualsiasi comunità che si autodefinisce comunista, ma basterebbero anche le regole che mandano avanti un’assemblea di condominio: garantire la possibilità di critica, essere leali nel confronto e nella ricerca della sintesi, pretendere chiarezza dal gruppo dirigente, pretendere la rotazione e la revocabilità di tutti gli incarichi e garantire la formazione teorica e pratica di tutti gli aderenti. Insomma tutte quelle belle cosine di cui imputiamo la mancanza ai vecchi partiti.
Nella seconda direzione intravediamo il rischio che si pervenga all’ennesimo inutile partitino il quale, al servizio di una ristretta élite, piuttosto che abbracciare gli interessi dei subalterni finirà al massimo per abbracciare i piccoli interessi opportunistici di ristrette cerchie.
Noi, dal primo momento, abbiamo creduto in questo progetto, lo abbiamo sostenuto convintamente in campagna elettorale e il giorno dopo il famoso 4 marzo, lo abbiamo criticato costruttivamente nell’assemblea di Napoli, perché quando si vuole abitare in una casa nuova è bello anche poter scegliere i colori delle pareti, ma non possiamo accettare forme di gestione antidemocratiche.
Il partito (o soggetto chiamatelo come vi pare) che andiamo a costruire deve essere migliore di quelli che intende superare. Finora, però, a parte uno spregiudicato e innovativo uso della comunicazione, vediamo ben poco di nuovo, anzi vediamo molte di quelle vecchie pratiche burocratiche che hanno allontanato i militanti dai “vecchi partiti”.
Se per un verso non v’è dubbio che la spinta giovanile e radicale proveniente dal centro sociale napoletano Je so’ pazzo è un fatto che va registrato con positività, in quanto non se ne poteva più di gruppi dirigenti che discutevano solo di accrocchi elettorali, allo stesso tempo è urgente verificare la democrazia interna e il progetto politico di questo nuovo soggetto.
Il problema democratico non può essere risolto o demandato alla piattaforma, se si sceglie questo ovviamente si sceglie per la seconda direzione: quella minoritaria.
A questo punto crediamo che per salvaguardare PAP in primo luogo bisogna ritornare ad affollare le assemblee territoriali e creare assemblee tematiche; in secondo luogo è necessario porre all’interno di queste assemblee, in maniera chiara e decisa, la questione della democrazia facendo emergere i limiti nelle modalità di condotta degli attuali dirigenti. Per rilanciarne l’entusiasmo delle origini, laddove non è possibile rilanciare le vecchie assemblee locali, crediamo sia necessario un appello per l’autoconvocazione a tutte le realtà territoriali, tematiche e singoli compagni che, seppur estremamente critici rispetto agli ultimi risvolti, non hanno definitivamente perso la voglia di lavorare ancora all’idea originaria di PaP come soggetto ampio e democratico che tenga dentro tutte le sensibilità sulla base del centralismo democratico di contro alla tendenza a divenire un gruppetto plebiscitario e verticistico basato sull’attribuzione di pieni poteri all’elite, tramite i due portavoce, anche se si chiamano Viola e Giorgio.
Questa iniziativa unitaria e dal basso deve essere in grado di ricomporre le fratture che dal vertice si stanno espandendo verso la base e deve rimettere al centro dell’attenzione la questione della sovranità democratica dentro Pap, anche sulla questione dello Statuto, visto che entro un anno bisognerà ridiscuterne. Non è un “Game Over” quindi. La partita è ancora aperta.
20/10/2018