Il pm dopo la querela al fondatore del Foglio: Riina intercettato, ecco cosa accadde
di Giorgio Bongiovanni e Miriam Cuccu
Con l’ok del ministro Orlando alla richiesta del procuratore Lo Voi, Nino Di Matteo non varcherà le porte della Procura nazionale antimafia per altri sei mesi. Come se Palermo, all’improvviso, fosse diventata città sicura per antonomasia per il magistrato più scortato d’Italia, anziché luogo dove Cosa nostra stava minuziosamente predisponendo un attentato nei suoi confronti, con tanto di tritolo che Cosa nostra aveva acquistato in Calabria.
Non è trascorso molto tempo da quando il Csm aveva proposto a Di Matteo un “trasferimento d’urgenza”, proprio per i pericoli da lui corsi nel capoluogo siciliano, eppure secondo il procuratore di Palermo i continui spostamenti del pm dalla capitale alla sede del processo trattativa Stato-mafia sarebbero molto più rischiosi che non risiedervi abitualmente, h 24. Il tutto con il benestare del Ministero della Giustizia.
Solo pochi anni prima, quando Riina intimò a Lorusso “facciamola grossa questa cosa” (eliminare Di Matteo) i pericoli corsi dal pm – che ad oggi restano elevati – portarono il Ministero degli Interni a convocare, in fretta e furia e d’urgenza, un comitato nazionale di ordine e sicurezza pubblica dopo essere stato allertato da due procuratori siciliani, giunti appositamente a Roma in un giorno festivo.
Tre anni dopo è lo stesso Di Matteo a ricordare cosa accadde in quei giorni di tensione ed allerta, dopo che fu scoperchiato il vaso di Pandora contenente le conversazioni tra Totò Riina e Alberto Lorusso. Ad ascoltarlo è il Tribunale di Milano, nel corso del processo a carico di Giuliano Ferrara, esito della querela che all’epoca Di Matteo sporse nei confronti di alcuni giornalisti. “In quell’articolo – spiega il magistrato, davanti al giudice Maria Teresa Guadagnino – si parlava di Lorusso come un agente provocatore mandato da me con degli obiettivi precisi: per monumentalizzare il pm Di Matteo, mostrificare il Presidente della Repubblica oppure la più alta autorità istituzionale e consolidare un processo ormai traballante” con “un’evidente indicazione di un’attività strumentale da parte del pubblico ministero, quindi da parte mia, come se io avessi strumentalizzato a fini personali così gravi la mia attività. Prendo atto del giudizio del dottor Ferrara, ma non lo posso ovviamente accettare”.
Scatta l’allarme
Ma come andò nel dettaglio? Tutto partì da quel filone investigativo, sulla trattativa Stato-mafia, che va oltre i 12 imputati del processo attualmente in corso a Palermo. Proprio per “scoprire se insieme a coloro che già erano stati tratti in giudizio fossero evincibili responsabilità di altri soggetti”, fu richiesto di effettuare delle intercettazioni durante il “passeggio” tra Riina e Lorusso – allora sconosciuto alla Procura di Palermo – a seguito delle misteriose esternazioni che il “capo dei capi” fece a due assistenti del G.O.M. (Gruppo Operativo Mobile della Polizia penitenziaria), poi sentiti al processo trattativa.
Inizialmente, ripercorre il pm, “con il procuratore capo e il procuratore generale scegliemmo di non dire nulla. Ma con l’incalzare” delle minacce (“Se mi riesce, l’ultima che devo organizzare deve essere la più forte di tutti”), “il procuratore mi disse: ‘non posso più pensare all’utilità investigativa, qui è preminente il problema di ordine pubblico’”. “Fu avviata una procedura che nei miei 25 anni di carriera non ho mai visto attivare per nessun’altra situazione. – ricorda Di Matteo, interrogato dal pm Maurizio Ascione – Quando la Dia ci portò il testo e ci fece ascoltare materialmente quelle conversazioni, il Procuratore di Palermo chiamò quello di Caltanissetta, si riunirono immediatamente e decisero” di rivolgersi “al Ministro degli Interni (all’epoca era Alfano, ndr) per un pericolo immanente non relativo soltanto alla mia persona, ma per l’ordine pubblico (“facciamola grossa come l’abbiamo fatta nel ’92”, ndr)”. La procedura fu “talmente urgente che due procuratori capo si recarono in un giorno festivo, l’8 dicembre 2013, dal Ministro dell’Interno assieme ad un ufficiale della Polizia giudiziaria della Dia, il dottor Bonferraro”.
“Il Ministro dell’Interno – prosegue Di Matteo – ritenne di convocare in via straordinaria un comitato di ordine e sicurezza pubblica, eccezionalmente fatto in prefettura a Palermo. Altrettanto eccezionalmente, poichè non ricopro nessuna carica, ritennero di invitarmi essendo l’oggetto principale della discussione. Vi parteciparono il Ministro dell’Interno, il Comandante generale dei Carabinieri, il Comandante generale della Guardia di Finanza, il capo della Polizia, il capo del Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria, ndr), e mi sembra anche il Presidente della commissione antimafia e i direttori dei servizi di sicurezza Aisi e Aise, nonché del Dis, il coordinamento tra il servizio segreto militare e quello civile”.
Quando mi dissero “Riina diede il permesso”
Cosa preoccupò, esattamente, delle parole di Riina? Intanto la genuinità, per il teste comprovata dall’aver, con le sue esternazioni “messo a rischio anche la gestione effettiva di alcuni suoi beni”. E poi il fatto che sembrasse “un invito a far sì che il codetenuto, in qualunque modo fosse stato capace, poteva o doveva fare uscire (quei contenuti, ndr). Era un’intimazione”. D’altronde, riflette Di Matteo, “non è nuovo” il fatto che “un mandato omicidiario possa essere conferito anche da chi è detenuto. È capitato, ed è accertato anche con sentenza definitiva, perfino da chi è detenuto con il 41 bis”.
Parole, quelle del “capo dei capi”, corroborate da misteriose missive anonime: “Ne ricordo uno – afferma il pm di Palermo – che faceva riferimento ad alcune mie abitudini di vita, insieme al dato: ‘Ormai non hai più niente da fare perché il permesso è stato dato anche da Salvatore Riina’. Quando poi si ascoltano” le conversazioni tra Riina e Lorusso, considera il magistrato, “è un po’ il contesto a fare paura, non è l’esternazione dell’ottantenne completamente avulso rispetto a tutto il resto”. Ma anche Lorusso, prosegue Di Matteo, “mi preoccupò molto, perché avevo visto Riina parlare con lui invitandolo a fare uscire fuori qualcosa”, e poi “venni a sapere che in passato aveva persino subito dei procedimenti disciplinari perché era stato sorpreso, anche utilizzando un codice segreto con alcune lettere dell’alfabeto fenicio, a trasmettere all’esterno” dei messaggi.
“Le accuse di Ferrara meritano una risposta penale”
I giorni degli “strali” di Riina erano di fuoco. Già in quel periodo, spiega il pm di Palermo “erano pervenute tantissime altre minacce, e altri soggetti avevano parlato di un attentato nei miei confronti in corso di preparazione”. Era, infatti, l’anno del “protocollo fantasma”, delle lettere anonime che allertavano Di Matteo “quando parli, alle auto su cui viaggi, al telefono cellulare”, degli “amici romani di Matteo” (Messina Denaro) che volevano morto il magistrato, delle confidenze su un esplosivo “già arrivato”. “Sono scaturite delle conseguenze – chiarisce Di Matteo in aula – da un punto di vista personale e familiare molto pesanti”, per non parlare del “dato facilmente smentibile” alla base delle accuse “di aver mandato un agente provocatore” dato che “Lorusso faceva la socialità con Riina già a partire dall’aprile 2013” mentre l’intercettazione ambientale “è di molto successiva”. “Ho deciso – ribadisce il teste – che essere accusato di avere strumentalizzato una vicenda che ha tanto pesato e continuerà a pesare per molta parte della mia vita, sulla mia persona e su quella dei miei familiari, fosse un comportamento che meritasse una risposta con una querela penale”. Quanto al passaggio su Napolitano nell’articolo (“mostrificare il presidente della Repubblica”) “collegare la vicenda, come ha fatto Ferrara, del fatto che Riina auspicasse che si facesse presto l’attentato nei miei confronti al mio ricatto nei confronti del capo dello Stato (era il periodo del conflitto di attribuzione tra Napolitano e la Procura di Palermo, ndr) mi è sembrato non rientrante nei limiti del sacrosanto diritto di critica”. Tanto più che, aggiunge Di Matteo, “ritengo di avere individuato” una “linea di continuità che riguarda la mia attività” e “certi processi in molti editoriali e commenti del Foglio per altre occasioni e per altre circostanze, anche a firma del dottor Ferrara” per le quali però “ho preferito le vie dell’azione civile”. Articoli “a stretto giro temporale”, un vero e proprio fuoco incrociato al quale non partecipò solo Il Foglio. Ma in questo caso, precisa Di Matteo, “la linea di quel giornale, sia pure adesso con altri giornalisti, sta continuando ancora”, tanto che “per altri articoli del dottor Ferrara, sono stati anche altri colleghi ad agire”.
Non si tratta di retorica ma di storia, che ogni volta sembra voler ripetere se stessa. Poiché anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che di Di Matteo furono i maestri, furono costretti a subire calunnie e diffamazioni da certa stampa, da parte della magistratura e dall’ormai “celebre” Stato-mafia. La speranza è che non si ripeta anche il suo tragico esito, ma affinchè questa storia non si concluda con il medesimo finale è necessario che ognuno faccia il proprio dovere, e che non si trinceri dietro l’indifferenza.
13 Aprile 2017