Finalmente, dopo dieci anni s’è riaperto il caso Pantani, frettolosamente archiviato come suicidio anche se il campione quella mattina del 2004 aveva chiesto aiuto per due volte, invocando l’intervento dei carabinieri, prima che fosse ritrovato senza vita, in una stanza distrutta, con accanto un misterioso biglietto con scritto che “le rose sono contente e la rosa rossa è la più contata”. Indagini all’epoca così “distratte” da non registrare le troppe anomalie: tali e tante, che il giornalista francese Philippe Brunel ne ha scritto un libro-denuncia, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani”, edito da Rizzoli-Bur. Il fatto è che nel nostro paese sono davvero parecchi i “casi Pantani”, osserva l’avvocato Solange Manfredi: «Casi da cui risulta evidente che qualcosa non funziona, o forse funziona sin troppo bene». Troppe indagini diffettose, troppi processi che poi a distanza di anni si rivelano completamente da rifare, perché «caratterizzati sempre dagli stessi errori, le stesse carenze e violazioni». Pantani, Gardini, Cagliari. E tutti gli altri suicidi apparenti di cui è lastricata la nostra storia recente.
«Chi come me studia i fascicoli processuali – scrive Solange Manfredi nel blog di Paolo Franceschetti – si ritrova sempre davanti alle stesse situazioni: quasi
come se esistesse un meccanismo che si mette in moto per impedire l’accertamento delle uniche cose che il procedimento penale ha lo scopo di accertare», ovvero «come si sono svolti i fatti e chi ne è responsabile». I suicidi anomali, avverte la Manfredi, sono molto frequenti, anche se sono veramente pochi quelli che balzano agli onori delle cronache. In tutti questi casi, «le indagini presentano sempre le stesse carenze». Delle stranezze sulla fine di Pantani, trovato morto a Rimini il 14 febbraio 2004 in una stanza del residence “Le Rose”, si sa ormai abbastanza. Il “suicida” Pantani aveva ingerito cocaina: nel corpo ne era stata rinvenuta una quantità sei volte superiore alla dose letale. «Eppure ci sono tante cose che non quadrano». Per due volte, poco prima di morire, aveva telefonato alla reception: «Per favore, chiamate i carabinieri, ci sono qui due persone che mi stanno dando fastidio».
Nel cestino della camera vengono ritrovati i resti di del cibo cinese che Marco detestava: quel cibo non l’ha mai ordinato, né tantomeno mangiato. In camera vengono ritrovati indumenti che l’atleta, all’arrivo in albergo, non aveva. Il ciclista viene ritrovato in una pozza di sangue del diametro di un metro, sul suo corpo sono presenti ferite (conseguenza di calci e pugni) e la stanza è a soqquadro, come se ci fosse stata una lotta. Secondo l’ultima perizia, poi, i segni sul corpo del campione rivelano che Pantani è stato trascinato. Tutto molto strano. Come il “suicidio anomalo” del giovane Attilio Manca, avvenuto appena due giorni prima, a Viterbo, la mattina del 12 febbraio 2004. Il corpo viene ritrovato nel suo appartamento, e anche in questo caso per la Procura si è trattato di suicidio. Attilio ha nelle vene un
mix letale di tre sostanze: eroina, sedativi e sostanza alcolica. Ma le modalità di assunzione sono assolutamente incredibili, prende nota Solange Manfredi.
«Attilio viene ritrovato in camera da letto riverso sul letto seminudo, dal naso e dalla bocca è fuoriuscita una ingente quantità di sangue che ha provocato una pozzanghera sul pavimento. I suoi pantaloni sono appoggiati sulla sedia, ma nella casa non si ritrovano né i suoi boxer né la camicia. Il volto presenta una vistosa deviazione del setto nasale e sugli arti sono presenti numerose ecchimosi». Sul corpo di Attilio, poi, sono visibili i segni di due distinte iniezioni: una al polso e una all’avambraccio. In effetti, «nell’appartamento vengono ritrovate due siringhe da insulina usate, una in bagno e una nella pattumiera della cucina». La la cosa strana è che «ad entrambe è stato riapposto il tappo salva-ago». E attenzione: «I segni delle iniezioni letali sono sull’avambraccio sinistro, ma Attilio era un mancino puro: con la destra non sapeva fare praticamente nulla. Eppure, quando decide di suicidarsi, usa proprio la destra».
Dunque, conclude la Manfredi, sia Marco che Attilio si sarebbero suicidati con una overdose: Marco ingerendo cocaina contenuta all’interno di palline fatte di mollica di pane, e Attilio praticandosi due iniezioni – una sull’avambraccio e una sul polso – con la mano destra, lui che era mancino puro. Overdose volontaria? E allora perché entrambi i corpi presentano ferite da colluttazione? «Attilio ha addirittura il setto nasale deviato, mentre Marco risulta essere stato trascinato». Ma per gli inquirenti si è trattato di suicidio, in entrambi i casi. Accadde la stessa cosa con altri tre suicidi eccellenti, maturati in piena Tangentopoli: quelli di Sergio Castellari, Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Castellari, direttore generale degli affari economici del ministero delle Partecipazioni Statali, poi consulente Eni, scompare il 18
febbraio 1993. Il corpo senza vita viene ritrovato il 25. Per la Procura è suicidio. O meglio, il più incredibile dei suicidi.
Castellari si sarebbe sparato alla testa e la morte sarebbe avvenuta il 18 febbraio. «Eppure, il cadavere – rinvenuto 7 giorni dopo – non presenta processi putrefattivi». In più, «entrambe le mani presentano amputazioni di alcune dita». Le dita sono state certamente amputate, non mangiate da qualche animale. Inoltre, «la pistola Smith & Wesson calibro 9 con cui si sarebbe sparato è infilata nella cintura dei pantaloni», addirittura. Dettaglio ulteirore: «Il cane dell’arma è alzato». E poi il proiettile con cui si sarebbe suicidato: sparito, dissoltosi nel nulla. Infine, «sull’arma non vengono ritrovate impronte», men che meno quelle della vittima. «Dunque, secondo la Procura, Castellari prima si amputa qualche dito (che non verrà ritrovato) da entrambe le mani, quindi si suicida sparandosi alla testa con una calibro 9 – che gli porta via mezza calotta cranica – e, dopo, compie queste attività: riarma il cane della pistola, la
pulisce dalle impronte digitali, se la infila nei pantaloni, fa sparire il bossolo del proiettile con cui si è sparato e solo dopo, finalmente, muore».
Il 20 luglio 1993 tocca a Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, arrestato l’8 marzo di quell’anno. Viene ritrovato nel bagno della sua cella con una busta di plastica legata al collo. Altro suicidio, per gli inquirenti. Cagliari si sarebbe suicidato chiudendosi nel bagno: prima di farla finita, avrebbe bloccato la porta della toilette con un paletto inserito nella maniglia. «Eppure il pezzo rotto e mancante del paletto che sarebbe servito a Cagliari per chiudersi dentro il bagno non si trova», ricorda Solange Manfredi. Inoltre, secondo le testimonianze, «nei primi soccorsi a Cagliari sarebbe stato strappato il sacchetto dal viso per permettergli di respirare: eppure quel sacchetto viene ritrovato integro». Al momento dell’autopsia vengono poi riscontrate sul corpo di Cagliari diverse lesioni agli zigomi, al cuoio capelluto, allo sterno e alle costole, con ecchimosi e infiltrazioni emorragiche. «Ma se al momento del ritrovamento Cagliari era morto, come se le è prodotte quelle lesioni? Gli ematomi si possono formare solo se vi è circolazione sanguigna. Questo vuol dire che quelle ecchimosi se l’era prodotte prima della morte. Come?».
Infine, Raul Gardini. Il capo del gruppo Ferruzzi, coinvolto nel caso Enimont, muore il 23 luglio del 1993. Ufficialmente, «sparandosi un colpo di pistola alla tempia nella sua camera da letto». Peccato che «sul letto, sull’orologio, sui cuscini e sul lenzuolo» non siano stati ritrovati residui di polvere da sparo. Inoltre, «nessuno dei collaboratori domestici presenti in casa ha sentito lo sparo», benché l’arma non fosse dotata di silenziatore. Strana pistola: «Viene ritrovata appoggiata sulla scrivania a diversi metri dal letto». E persino il bossolo «viene rinvenuto sul pavimento a tre metri di distanza da dove avrebbe dovuto trovarsi se Gardini si fosse suicidato». Anche in questo caso sull’arma non vengono rilevate impronte, neanche quelle della vittima. Sulle cartucce, invece, «vengono trovate impronte non appartenenti a Raul Gardini». All’esame autoptico, per contro, «il corpo presenta una frattura alla base cranica e una ecchimosi sotto l’occhio». Per l’avvocato Manfredi
sono lesioni compatibili con ben altra dinamica: qualcuno ha afferrato la testa di Gardini e gliel’ha sbattuta contro un corpo solido.
«Anche in questo caso – scrive Solange Manfredi, sarcastica – Gardini si è prima procurato una lesione alla base cranica, quindi si è sparato alla testa sul letto, quindi si è alzato, ha pulito la pistola dalle impronte digitali, l’ha riposta con cura sullo scrittoio, ha spostato il bossolo (forse perché dov’era faceva disordine), quindi è ritornato a letto, e poi è morto». Storie semplicemente incredibili. «Tutti i corpi presentano lesioni immediatamente precedenti il suicidio». Lesioni «difficilmente spiegabili con la dinamica suicidaria». Più verosimilmente, quelle ferite sono «compatibili con una colluttazione». In tutti i luoghi del ritrovamento, poi, alcuni oggetti mancano, insipegabilmente. E, altrettanto misteriosamente, altri oggetti – non collegabili al “suicida” – vengono rinvenuti sulla scena del crimine. «E le attività investigative sono carenti e contraddittorie». Tutti suicidi anomali. Così numerosi e macroscopici da indurre un magistrato come Mario Almerighi, amico di Giovanni Falcone, a indagare a fondo, nel libro “Suicidi? Castellari, Cagliari, Gardini”, editito dall’Università La Sapienza. «Ancora una volta il meccanismo si è messo in moto, e ancora una volta con tragico successo», si è portati a pensare. Perché «anche il sistema uccide». Per la precisione, «uccide chi diventa inaffidabile».
19/10/14