di Franco Astengo
Mi permetto di ritornare sull’episodio accaduto ieri, 5 Ottobre, riguardante la rivolta dei dipendenti di Air France, colpiti da 2.900 licenziamenti e capaci di irrompere nella sede del consiglio d’amministrazione dell’azienda costringendo alla fuga precipitosa i presunti manager della stessa con gli abiti strappati.
Immagini che hanno fatto il giro del mondo e che hanno potuto essere commentate, appunto, con il vecchio motto maoista “Ribellarsi è giusto”.
“Ribellarsi è giusto” soprattutto rispetto all’ostentazione della ricchezza, all’esaltazione dello sfruttamento, all’evidenza di diseguaglianze insopportabili, alla diffusione della filosofia dell’austerità imposta agli altri, mentre manager, politici e altri privilegiati gozzovigliano nei ristoranti di lusso con le carte di credito aziendali.
Salgono alla mente i disegni di Grosz nella Berlino del primo dopoguerra che rimangono la migliore rappresentazione iconografica della diseguaglianza tracotante.
Il ritorno sull’argomento è però oggi giustificato da alcune notizie che arrivano dal nostro fronte interno.
Si riprende dalla pagina 4 di Repubblica: in testa alla pagina un titolo “Sciopero solo se il 30% è d’accordo” con catenaccio che recita: “ Il governo pensa a un piano per evitare il caos delle micro-sigle (che cosa s’intende: l’USB assolutamente egemone nei trasporti a Roma e capace di organizzare scioperi riusciti al 90%? N.d.R.) Previsto un consistente consenso”.
Al centro pagina si colloca invece questo titolo “Renzi pronto alla riforma dei contratti, i “collettivi” sostituiti dal salario minimo”. Al centro dell’articolo due richiami: “La mossa di Squinzi. Il presidente di Confindustria convoca per oggi le categorie per decretare il flop della trattativa” e l’altro “Livello aziendale. Il baricentro sarà spostato tutto sul livello aziendale e territoriale per favorire l’aumento della produttività”.
Nella sostanza gli obiettivi appaiono chiari e del tutto complementari alle restrizioni delle possibilità di esercizio democratico che si stanno portando avanti in campo politico – istituzionale.
Sul terreno sociale e del rapporto con il mondo del lavoro il modello è quello, già più volte richiamato, dell’estensione del cosiddetto “sistema – Marchionne” a tutte le categorie dell’industria e dei servizi.
Ottundimento definitivo delle possibilità di esercizio del conflitto sul territorio, intensificazione dello sfruttamento, ricatto occupazionale costante in assenza di riferimenti contrattuali nazionali e in presenza di una legislazione del lavoro imperniata sui criteri del job-act: così può essere riassunta, ritengo con una sintesi efficace, la politica del lavoro di questo governo.
Poi si fa finta, anche da parte degli analisti più raffinati, di interrogarsi sulla collocazione politica di questo governo e del PD come partito di riferimento in alleanza con NCD e verdiniani e Bersani esclama “così si tradisce la sinistra”.
Naturalmente frase esclamata senza che ne segua alcuna conseguenza pratica: d’altro canto nessuno si attende conseguenze pratiche da parte degli ignavi.
Il sindacato confederale a questo punto tanto per ritornare all’argomento centrale, care compagne e cari compagni, chiude bottega definitivamente dopo l’agonia seguita alla lunga fase della concertazione.
Il sindacato privo della possibilità di stipulare contratti nazionali è un sindacato che non ha ragione di esistere come soggetto politico, costretto a rintanarsi nel corporativismo.
Toccherebbe ai sindacati di base ragionare su di una nuova, adeguata, ipotesi di confederalità di classe: ma il ritardo, da questo punto di vista, appare essersi accumulato in maniera irrimediabile, così come avvenuto anche rispetto alla necessità di una nuova soggettività politica comunista, d’alternativa per l’opposizione.
Nelle difficoltà del momento l’unica ipotesi plausibile dovrebbe essere quella dell’apertura di una dura stagione di conflittualità sindacale, del tipo di quella che accompagnò la stagione della riconversione dell’industria bellica aprendo la prospettiva della crescita sindacale degli anni’60.
Ricordi lontani, ma sempre validi da rammentare anche per le giovani generazioni.
Uno stato di cose in atto che davvero, dopo i fatti francesi, dovrebbe far ritornare d’attualità il “Ribellarsi è Giusto” anche se sembra difficile che ci sia chi possa dimostrarsi in grado di raccogliere il messaggio.