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“… venne aggredito fisicamente dai quattro poliziotti, i quali lo percossero ripetutamente con l’uso di manganelli e con calci. E, una volta schiacciato a terra il ragazzo, i quattro agenti continuarono a infierire su …, che si dibatteva: uno lo colpiva alle gambe con il manganello, altri due lo tenevano schiacciato, mentre un quattro lo continuava a percuotere; quindi i quattro poliziotti immobilizzarono il … tenendolo steso a terra supino, lo girarono quindi a forza in posizione prona e lo ammanettarono”.
La descrizione che abbiamo sopra riportato è contenuta nella sentenza della Cassazione sulla morte di Riccardo Magherini (IV sezione penale, sentenza 29 novembre 2018, n. 2189), ma non si riferisce a Riccardo. E’ relativo alla vicenda fotocopia di Federico Aldovrandi.
Il caso presenta similitudini con alcune differenze: la polizia al posto dei carabinieri, l’assenza di testimoni (per Federico), l’età delle vittime. Le somiglianze sono però impressionanti: ammanettamento da dietro, posizione prona, morte per “meccanismi asfittici”.
Queste vicende non sono assimilabili per la Cassazione. La vicenda che ha portato a morte Riccardo Magherini è nota. Riccardo aveva assunto cocaina ed era in preda a una crisi eccitativa, chiedeva aiuto e ha avuto la sfortuna di incontrare una pattuglia di carabinieri, i quali lo hanno immobilizzato, ammanettato, messo in posizione prona in modo prolungato, con una condotta che ha portato a morte Riccardo.
Questi fatti sono incontestati dalla stessa Corte di cassazione che ha annullato il processo “senza rinvio”.
Cerchiamo di capire meglio. La Corte di cassazione opera un grado di giudizio di “legittimità” e non di “merito”: entra cioè a sindacare non il “fatto”, ma l’applicazione del “diritto”. Secondo la Cassazione “i vizi motivazionali della sentenza” sono relativi all’elemento soggettivo del reato e in particolare quelli relativi alla prevedibilità in concreto dell’evento dannoso”.
Ripercorriamo allora alcuni passaggi. Nella vicenda si è affermata la legittimità dell’intervento da parte dei carabinieri che non avevano altra possibilità se non intervenire immobilizzando Magherini che “era pericoloso per sé e per altri”. La Cassazione utilizza una vecchia e pericolosa espressione contenuta nella legislazione manicomiale dello scorso secolo, proprio nel quarantesimo anniversario della legge “Basaglia” che ha decretato la chiusura dei manicomi. Non potevano quindi non contenerlo.
Per la causa di morte di Riccardo Magherini è stata riconosciuta una “tripartizione causale”:
1- intossicazione acuta da cocaina;
2- immobilizzazione da parte delle forze dell’ordine nel tentativo di contenerlo;
3- la posizione prona in cui era stato tenuto da quando era ammanettato.
Non è stato riconosciuto invece alcun nesso causale tra i “due calci sferrati al Magherini da uno dei carabinieri imputato e l’evento morte”. Non c’è stata una “compressione toracica” bensì una “compressione di posizione”. E’ vero, si legge negli atti, che i testimoni hanno riferito della presenza di un carabiniere “a cavalcioni”, ma era posizionato nella zona lombosacrale e non in quella toracica. Le fratture costali e sternali riscontrate in autopsia sono state causate dalla rianimazione cardiopolmonare e non dai colpi inferti.
Il comportamento dei carabinieri
I carabinieri, lo abbiamo visto, lo hanno ammanettato “da dietro” e posto in posizione prona.
Era la prassi in uso all’Arma. A gennaio di quell’anno, però, erano state emanate, dalla stessa Arma dei Carabinieri, linee guida e istruzioni operative da applicarsi nei confronti di “soggetti in stato di agitazione psicofisica conseguente a patologie o causato dall’abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti” dove si avvertiva del pericolo della compressione toracica in caso di immobilizzazione a terra.
La data di emanazione delle linee guida (30 gennaio 2014), pur precedente alla morte di Riccardo (3 marzo 2014), non era ancora “conosciuta” e non erano stati fatti i relativi corsi di formazione.
Né si poteva pretendere che i carabinieri “dovessero fare appello alla propria eventuale conoscenza personale, perché ciò avrebbe significato consentire che il personale militarmente organizzato potesse disattendere ordini superiori in applicazione di proprie conoscenze, con il conseguente rischio di condotte arbitrarie”.
L’affermazione lascia basiti: essendo il carabiniere un militare applica gli ordini, anche se il suo livello di cultura personale lo potrebbe portare a disattendere tali disposizioni, anche laddove i comportamenti ordinati siano tali da mettere in pericolo di vista le persone che sono sotto la loro “protezione” (tecnicamente obblighi di garanzia e protezione). La “condotta arbitraria”, in questo caso, sarebbe dunque la salvaguardia della vita della persona, da non preferirsi rispetto al rischio di “condotte arbitrarie” che rischiano di destabilizzare l’assetto di un’organizzazione militare. Per l’ordine costituito si può sacrificare una vita umana.
L’elemento psicologico del reato
Il reato contestato ai carabinieri era di omicidio colposo che si ha quando l’evento non è voluto (altrimenti è doloso) “e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
In questi casi bisogna individuare, per affermare la colpevolezza, quale regola cautelare generica (negligenza, imperizia e imprudenza) o specifica (inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) hanno in concreto violato i carabinieri.
Qui c’è il cuore di tutta la sentenza. Ai carabinieri non era stato contestato, nei precedenti gradi di giudizio, il comportamento iniziale (la contenzione a terra in posizione prona), ma di avere proseguito l’immobilizzazione in quella posizione anche dopo “il placarsi delle sue grida e l’affievolimento della voce e l’assenza dei movimenti che potevano significare una grave sofferenza asfittica e non giustificavano il permanere immobilizzato in posizione prona”.
I carabinieri escono fuori da questa vicenda in quanto non erano a conoscenza della nuova circolare (niente inosservanza di regole cautelari specifiche, quindi), né sono stati negligenti in quanto il grado della “prevedibilità dell’evento” deve essere rapportato al livello del “modello di agente” e quindi della cultura media di un carabiniere, il quale è privo di “competenze mediche”. Per la Corte di appello – che aveva confermato la condanna del Tribunale di Firenze – “non occorreva possedere cognizioni mediche per sapere che la posizione prona rende difficile la respirazione”. Ebbene questa affermazione per la Cassazione è “fuorviante” in quanto della gravità del fatto non si era accorta neanche la volontaria della Croce Rossa (attenzione: volontaria! non una operatrice sanitaria) e quindi a maggior ragione non se ne potevano accorgere i carabinieri.
Assolti, dunque, per ignoranza “perché il fatto non costituisce reato”. Fosse accaduto qualche mese dopo – o accadesse oggi- i carabinieri sarebbero condannati in quanto a conoscenza della nuova circolare che avvertiva della pericolosità dell’immobilizzazione in posizione prona. Ecco allora forse la colpa maggiore di Riccardo Magherini: non l’assunzione di cocaina, ma essere morto nel mese sbagliato.
Conclusioni
Le motivazioni della Cassazione lasciano senza parole in una Paese, come il nostro, dove il favor verso le forze dell’ordine che commettono reati – un esempio per tutti il G8 di Genova – è profondamente radicato.
Sui calci in faccia a Riccardo Magherini, immobilizzato e ammanettato a terra in posizione prona, si parla solo per escluderne il nesso di causa con la morte. Su certa cultura che genera i comportamenti violenti si sorvola: ricordiamo che uno degli imputati, nei Social si presentava e si presenta con il soprannome di “pistolero”.
E’ necessario manifestare una non rituale, solidarietà alla famiglia di Riccardo, sostenendo anche la raccolta fondi creata da Giulia Innocenzi (https://www.gofundme.com/magherini) per il ricorso alla CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo).
3 dicembre 2018
*Luca Benci è un giurista esperto di diritto sanitario e biodiritto