di Mario Agostinelli (*)
PREMESSA
Nel drammatico passaggio d’era in corso è determinante recuperare il lavoro ad una funzione autonoma che, anziché piegarsi alle ancor più irragionevoli pretese del mercato, abbia come obbiettivo di fondo una riconciliazione con la natura. Nonostante la disattenzione dei media e degli attori politici, le attese verso questo soggetto rimangono vive anche al tempo della sua sconfitta. Una parte sempre più apprezzata e indipendente del mondo scientifico e culturale, oltre all’associazionismo più responsabile, i movimenti laici che praticano forme diffuse di solidarietà e cura, i gruppi eco-femministi e molte comunità, liberate ormai da un antropocentrismo di ispirazione religiosa, intrecciano i loro percorsi con il senso del lavoro. Questi molteplici “fili d’erba” stanno convergendo su un’idea del vivente e della natura del tutto nuova e stanno intessendo profonde alleanze nel definire il quadro su cui concentrare aspettative che superino l’ambito politico tradizionale e che, nel tempo che viene a mancare e dopo la pandemia, si rivolgano direttamente alla reale “utilità” del tempo di lavoro, purtroppo alienato, scomposto e posto in contrasto con la salute della biosfera all’interno dell’attuale modo di produzione e consumo. Le tante esperienze, per ora sparse, tendono a convergere, reclamando un rinnovato protagonismo del soggetto che ha fornito la “cifra” alla nostra Costituzione: questa volta su un terreno che ha nella cura e nell’ecologia integrale motori creativi, aggregativi e potenti.
Mentre durante il “lockdown” i dibattiti televisivi ripresentavano sempre gli stessi volti, migliaia di incontri in rete hanno collegato visi e luoghi fisici lontani ed hanno creato un’esperienza del “tempo proprio” a cui non sarà facile rinunciare. A questo larghissimo campo d’azione è venuto a mancare il contatto col lavoro organizzato, in parte perché indisponibile, in parte perché tutt’ora schiacciato assai più su un presente scandito dai suoi avversari, che sulla determinazione e la presa in carico del proprio futuro.
I movimenti che stanno attraversando le donne e gli studenti di tutto il globo devono ritenere indispensabile che un terzo grande movimento, per ora inaspettatamente afasico, venga coinvolto in un momento tanto drammatico, singolare e irripetibile, in cui ci è offerta la possibilità di ripensare il nostro rapporto non solo all’interno della società umana ma nell’interconnessione con tutto quanto vive e può darci o farci perdere il diritto alla salute e la vita stessa.
A ben pensarci, la qualità delle nostre conoscenze, le modalità di accesso all’informazione e la percezione del ruolo della comunità scientifica si sono modificate non poco durante questo inizio 2020, con esiti che verificheremo nel tempo. Sarebbe una sciagura se permanesse il silenzio di una parte così decisiva della società e, di conseguenza, non si verificasse un risveglio ed un protagonismo proprio dove la riconversione ecologica potrebbe conflittualmente materializzarsi.
COMUNITA’ SCIENTIFICA, CURA DEL PIANETA, FUTURO DEL LAVORO
Prima di partire dalle condizioni materiali delle lavoratrici e dei lavoratori, mi preme evidenziare come la comunità scientifica, ormai da oltre sessant’anni, offre un’interpretazione drammatica dell’incompatibilità tra l’assetto politico-economico-sociale – di cui la condizione del lavoro è parte essenziale – e le residue possibilità di resilienza del pianeta in cui viviamo. Il quadro da essa fornito con rigore rivela come la maggior parte dei conflitti locali coincidano con la ribellione di soggetti deboli, maggiormente esposti a danni, soprusi, emarginazioni e violazioni: tra essi le lavoratrici ed i lavoratori occupano sempre posizioni di rilievo. In un certo senso la scienza accredita un legame tra eventi naturali disastrosi, peggioramento delle condizioni di vita, abbandono di territori, ingiustizia sociale.
Purtroppo, si è diffuso un difetto di consapevolezza in merito alla natura e ai poteri della conoscenza scientifica, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra uomo e natura. Difetto che viene ulteriormente aggravato dal tentativo di sovrapporre ad essa calcoli di convenienza politica e sociale, sfruttandone i margini di connaturata incertezza e nella inconfessata convinzione che la specie umana sopravviverà, solo a patto che non ci sia posto per tutti sul pianeta. Pur a fronte di prove scientifiche che irrompono nel contesto sociale e che ammoniscono per gli effetti letali sull’intero vivente della sovrapproduzione e degli sprechi spinti dalla massimizzazione del profitto, una minoranza sempre più feroce scarica sugli emarginati gli effetti delle crisi di ogni ordine. Non si tratta qui di una accettabile diffidenza per soluzioni univocamente accampate, ma dell’oscuramento di prove schiaccianti del degrado in corso, mentre si esibisce lo scudo riparatore di tecnologie serbate solo per i propri “sudditi” (Vale per tutti la ricerca per un vaccino proprietario contro il Covid-19). La sopravvivenza si è, evidentemente, fatta questione di classe a livello globale, ma la sinistra non se ne è fatta ancora pienamente una ragione, anche se condivide che per ragioni antropiche si prospetta una brusca e irreversibile rottura dell’equilibrio per cui la vita si è mantenuta per milioni di anni sulla Terra.
Tornando al lavoro, l’eccesso della sua capacità trasformativa delle risorse naturali va a profitto di pochi, mentre, al contrario, il modello di relazioni, produzioni e consumi che coinvolge miliardi di persone non è a sufficienza destinato a “curare” il pianeta né ad estendere un apparato di diritti civili e sociali universali. In questa constatazione c’è già l’essenza di un programma politico alternativo.
NON BASTA BLOCCARE PER LEGGE I LICENZIAMENTI
Considero un errore aver lasciato ai media il compito di disegnare il conflitto post-pandemia prevalentemente all’interno dei rapporti tra un capitale affamato di aiuti pubblici ed un lavoro vittima designata – seppure compatita – di espulsioni da settori statici, capaci di mille vite grazie alla loro reiterata propensione a competere sui costi. Ad oggi, nel dibattito aperto permane un errore di prospettiva: anziché una discussione su come deve cambiare il mercato del lavoro, sulle politiche passive e su quelle attive, su come si stanno riorganizzando e riconvertendo le imprese e su come il sindacato può integrare il capitale umano in questi processi e su come la contrattazione collettiva può sostenere e condizionare questo cambiamento, quel che appare – comprensibilmente pregiudiziale, ma non per questo esaustivo – è il rinvio dei conti a fine anno. Credo che non basterà rimanere in una spasmodica attesa di un rapido “rimbalzo” e di una ripresa “come prima”, senza che, nel tempo guadagnato, il cambio di paradigma abbia avuto una conferma negli indirizzi di politica industriale contrattati, finanziati e tradotti in legge e, se non addirittura, nella definizione di progetti di prefattibilità che i governi predispongono e discutono per aree o settori interi, che attengono alla transizione ecologica, alla digitalizzazione, alla sanità pubblica. In definitiva: dopo e oltre il blocco dei licenziamenti, come deve il lavoro, in quanto soggetto autonomo, organizzarsi, attrezzarsi, creare alleanze e consenso, farsi rappresentare politicamente, per sovvertire le aspettative più pessimistiche e ribaltare interessi esiziali che lo riguardano?
CAPITALISMO, CRISI AMBIENTALE E CRISI DEL LAVORO
Siamo di fronte all’attraversamento di due crisi che sono le facce di una stessa medaglia: la crisi del capitalismo e la crisi ambientale, unite in un indistricabile groviglio, provocato da effetti concomitanti. Effetti provocati da forze e meccanismi che sono frutto della struttura stessa della nostra vita e del nostro consumo, del modo in cui produciamo e lavoriamo, degli squilibri ambientali prodotti, delle ingiuste distribuzioni della ricchezza accumulata, della logica distorta di uno sviluppo che è arrivato a modificare le linee evolutive della vita con cui il pianeta interviene sui codici genetici dei vivi. Su tale groviglio ha davvero molto da apprendere, ma anche da proporre autonomamente e lottare il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori. La sua percezione delle problematiche che riguardano la natura non gli è infatti pervenuta solo attraverso un’informazione ed una conoscenza spesso non adeguate, ma attraverso anche la constatazione diretta che la riduzione dei costi nelle imprese avveniva non solo agendo sui salari ed i diritti, ma anche al prezzo del disboscamento del bacino amazzonico, l’uso eccessivo di idrocarburi, lo sfruttamento della manodopera a basso costo, l’impiego di lavoro minorile dalle tessiture alle miniere. Così, nella testa di operai, contadini e operatori dei servizi, lavoro e ambiente hanno cominciato a dissociarsi, autonomizzarsi dall’impresa, fino a cominciare a ipotizzare un nuovo modo di organizzare la soddisfazione dei bisogni non esclusivamente umani, per rendere questo requisito compatibile con i cicli della vita sulla Terra e la giustizia sociale.
Nel frattempo, i grandi della Terra e i loro consiglieri cercano di convincere che il tempo proprio, riscoperto, pur a fatica, durante la fermata del Covid-19, come una risorsa “rubata”, rimarrà un lusso per privilegiati, in quanto la cifra del capitalismo globalizzato risiederà sempre nella totale saturazione e alienazione del tempo di lavoro e di consumo. Si tornerà ad abbandonare per strada sia i diritti sociali sia quelli della natura, all’inseguimento del PIL. Senza tener in conto che tra quest’ultimo e il clima c’è lo stesso rapporto che esiste tra predatore e preda e che, senza l’obbiettivo di una piena occupazione ad orario ridotto, finalizzata alla cura dell’intero vivente, la crisi non allontanerà certo nel tempo le tre grandi emergenze di questo secolo; quella climatica, quella dell’innesco di una guerra nucleare, quella di una crescente ingiustizia sociale.
(*) da «Su la testa», agosto 2020