Nel nostro Paese agli stili di vita è attribuibile un rischio complessivo dal 37,9% al 43,8%
Secondo studi internazionali una posizione socioeconomica svantaggiata aumenta di circa il 40% la mortalità per tumore, mentre il 16% delle morti per cancro è attribuibile ad esposizioni ambientali
di Luca Aterini
Il report I numeri del cancro in Italia 2019, presentato al ministero della Salute ed elaborato con il contributo dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e dell’Associazione italiana registri tumori (Airtum), si apre con una buona notizia: i nuovi casi di tumore in Italia tendono a diminuire. Nel 2019 sono stimate 371mila diagnosi (196.000 uomini e 175.000 donne) – le cinque più frequenti sono nell’ordine quelle della mammella, colon-retto, polmone, prostata e vescica –, ovvero 2.000 in meno rispetto al 2018.
In aumento anche la sopravvivenza: il 63% delle donne e il 54% degli uomini sono vivi a 5 anni dalla diagnosi, e quasi 3 milioni e mezzo di italiani (3.460.025, il 5,3% dell’intera popolazione) vivono dopo la diagnosi di cancro. Almeno un paziente su quattro, pari a quasi un milione di persone, è tornato ad avere la stessa aspettativa di vita della popolazione generale e può considerarsi guarito. «I dati relativi ai trend temporali nel periodo 2003-2014, indicano che l’incidenza delle neoplasie è in riduzione in entrambi i generi», conferma la presidente Aiom Stefania Gori.
Anche la mortalità continua a diminuire in maniera significativa in entrambi i sessi, ma ciò naturalmente non elimina il fatto che nel 2016 (ultimo anno disponibile) in Italia siano stati ancora 179.502 i decessi attribuibili al cancro (100.003 uomini e 79.499 donne). La prima causa di morte oncologica in Italia è di gran lunga costituita dal carcinoma del polmone (33.838 decessi), casi che negli uomini sono in calo ma che continuano invece ad aumentare fra le donne «per la preoccupante diffusione dell’abitudine al fumo di sigaretta fra le italiane», come spiega il rapporto.
È uno dei casi che rendono più evidente l’impatto dei fattori di rischio ambientali nello sviluppo del cancro, ma non l’unico purtroppo. Per fattori di rischio ambientali si intendono infatti tutte le potenziali cause non-genetiche di malattia, che per il cancro comprendono i fattori comportamentali, l’esposizione ad inquinanti e radiazioni, l’esposizione a cancerogeni professionali e gli agenti infettivi: lo sviluppo del cancro può essere considerato una sequenza di cambiamenti genetici ed epigenetici sulla spinta di stimoli ambientali, ma generalmente non ha non ha una causa necessaria. La “causa” del cancro è da considerare in un insieme di fattori in cui nessuno è di per sé in grado da solo di causare la malattia, ma dove tutti esercitano un ruolo: in Italia si stima ad esempio che allo stile di vita (considerando solo fumo, alcol, eccesso ponderale, dieta e inattività fisica) è attribuibile un rischio attribuibile complessivo dal 37,9% al 43,8%, con una percentuale più alta negli uomini (46,7%) che nelle donne (26,8%). Proprio per questo «la prevenzione primaria – sottolinea Gori – cioè l’adozione di uno stile di vita sano (no al fumo, dieta corretta e attività fisica costante), è la migliore strategia per ridurre sia l’incidenza che la mortalità». Che da sola non assicura però la certezza di non sviluppare il cancro.
Il contributo delle disuguaglianze socio-economiche e delle cause ambientali più propriamente dette meritano poi una riflessione a parte, dato il contesto nazionale. Per quanto riguarda il primo fattore, a livello internazionale «è stato dimostrato che una posizione socioeconomica svantaggiata aumenta di circa il 40% la mortalità per tumore rispetto alle posizioni più elevate». Un problema non da poco per l’Italia, dove 17 milioni di persone a rischio esclusione sociale, 5 milioni sono in povertà assoluta, e la concentrazione della ricchezza è altissima. Disuguaglianze che si riflettono anche a livello territoriale: «L’incidenza dei tumori maligni conserva differenze geografiche significative: decresce progressivamente dall’Italia del Nord a quella meridionale-insulare – spiega Massimo Rugge, presidente Airtum – È verosimile attribuire tale situazione a fattori che agiscono in senso ‘protettivo’ (abitudini alimentari, vita riproduttiva, minore esposizione a fattori di rischio ambientale). Nel Meridione, tuttavia, la minore adesione agli screening oncologici non ha fatto rilevare quei benefici effetti della diagnosi precoce, che si registrano nel Settentrione. Nell’Italia meridionale-insulare, infatti, non si è osservata quella riduzione di incidenza e mortalità che, nel Nord, è stata documentata per i carcinomi per i quali sono attivi programmi di diagnosi precoce (mammella, colon-retto e cervice uterina)».
Per quanto riguarda invece le esposizioni ambientali (escludendo lo stile di vita), sempre a livello internazionale è stato stimato recentemente che il 16% delle morti per cancro è attribuibile a questa tipologia di fattori, che si presentano con molteplici sfaccettature. Se nell’edizione 2017 del rapporto l’accento è stato posto principalmente sui rischi legati all’inquinamento atmosferico, quest’anno il documento si concentra in particolar modo sulla presenza dei Sin e dei Sir, i Siti d’interesse nazionale e regionale che attendono di essere bonificati.
Rifacendosi ai risultati riportati nel suo ultimo aggiornamento dallo studio Sentieri – un programma di sorveglianza epidemiologica del profilo di salute delle popolazioni residenti nei siti contaminati di interesse per le bonifiche in corso da circa 10 anni –, il rapporto sottolinea che «i risultati dell’ultimo aggiornamento sembrano confermare che l’incidenza neoplastica nei Sin Italiani presenta delle importanti criticità». Nei 45 siti studiati si è stimato per cinque anni un eccesso di incidenza oncologica su tutte le età per tutti i tumori maligni (cute esclusa) pari a 1.220 casi negli uomini, 1.425 nelle donne.
Dati che riportano l’urgenza delle bonifiche. Come già documentato su queste pagine secondo le stime fornite da Confindustria ormai tre anni fa per concludere le bonifiche sarebbero necessari investimenti pari a circa 10 miliardi di euro, mentre finora lo Stato ha stanziato risorse «nell’ordine di milioni di euro». Eppure investendo nelle bonifiche dei Sin questi 10 miliardi di euro Confindustria stima che il livello della produzione aumenterebbe di oltre il doppio, innescando 200.000 posti di lavoro in più e ripagandosi in gran parte da solo: tra imposte dirette, indirette e maggiori contributi sociali allo Stato rientrerebbero 4,7 miliardi di euro, oltre all’inestimabile valore di un ambiente finalmente sano. Eppure in questi tre anni le bonifiche portate effettivamente avanti sono state pochissime.
[26 Settembre 2019]