Una persona di tutta stima istituzionale e di grande moralità che avrebbe i requisiti per fare il Presidente della Repubblica di questo Paese e che sarebbe diviso solo per chi ha fatto del malaffare un paradigma.
Lo staff di iskrae
Luca Grossi
L’ex magistrato palermitano: “Tocca a chi resta proseguire il compito di accertare la verità”
Roberto Scarpinato è stato collocato a riposo per il raggiungimento del limite di età venerdì’ scorso. Se ne va a testa alta un magistrato che, come detto dal consigliere togato Nino Di Matteo, ha “rappresentato la meglio magistratura”. Il suo curriculum parla da solo: in 42 anni sul fronte Siciliano come procuratore generale di Palermo si è occupato delle indagini su Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto dalla Chiesa e del processo per associazione mafiosa a carico di Giulio Andreotti. Già nel 1989 era nel pool antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e dopo via D’Amelio era stato il promotore quella rivolta contro il contestatissimo capo della Procura di Palermo Pietro Giammanco e da procuratore generale di Caltanissetta ha promosso la revisione del processo per gli innocenti condannati per l’omicidio di Paolo Borsellino. Sempre capace di fare un’ampia analisi sociale delle relazioni che caratterizzano la mafia ed il sistema criminale, Roberto Scarpinato ha più volte puntato il focus sui “segreti inconfessabili” i quali rappresentano “l’anima stessa del potere, come diceva Giovanni Falcone“ e che “alcuni di questi segreti sono certamente a conoscenza di alcuni dei capi di Cosa Nostra condannati all’ergastolo per le stragi“. Attraverso le indagini, l’ex procuratore di Palermo, ha avuto modo di comprendere che le stragi del 1992 e del 1993 “non appartengono al passato, ma sono ancora tra noi in tanti modi”. “È stato fatto di tutto e di più per impedire che venissero alla luce verità indicibili – ha scritto Scarpinato sul Fatto Quotidiano – Il fatto che i tentativi di depistaggio si siano ripetuti sino a tempi recenti e siano ancora in corso, dimostra la pericolosa e attuale operatività di chi ha timore che quei segreti possano ancora venire alla luce. Prima di andare via, ho trasmesso una relazione sulle ultime indagini che ho svolto in questo campo. Chiudendo la porta alle mie spalle, sentivo di avere compiuto il mio dovere sino all’ultimo giorno della mia carriera. Ora tocca a chi resta proseguire il difficile compito di accertare la parte di verità rimasta sino a oggi celata, e di rendere piena giustizia a chi ha sacrificato la propria vita per difendere la nostra democrazia”. Scarpinato, insieme ai sui colleghi Nino Di Matteo, Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo altri come loro ha subito nel corso degli anni minacce pesantissime, anche di morte, ed è sempre stato oggetto di un “colpevole silenzio” da parte sia dalla politica e sia da alcuni colleghi magistrati. Ricordiamo che nel 2012, quando aveva l’intenzione di presentare domanda per il posto di Procuratore Nazionale Antimafia, Scarpinato si era sentito dire che non aveva alcuna speranza perché era un magistrato “troppo caratterizzato”. Inoltre un componente del Csm gli aveva detto che “non possiamo nominare una sorta di Che Guevara in un posto simile!”. Nonostante questo l’ex magistrato palermitano non ha mai smesso di “proseguire le indagini sul complesso progetto di destabilizzazione politica sotteso alle stragi del 1992/1993 e sui mandanti occulti, che avevamo iniziato alla Procura di Palermo nel 1996 con il processo “Sistemi Criminali”. Resta attualissimo il suo discorso tenuto al convegno intitolato “Quale mafia ha ucciso Paolo Borsellino?” in cui aveva affrontato l’argomento dell’inevitabile connubio tra il potere e i “sistemi criminali” addentrandosi nei rapporti tra il “cervello borghese e lupara proletaria”, come attuali sono i risultati delle sue indagini che ancora oggi sono in grado di dissipare il puzzo della menzogna in merito al connubio tra mafia e potere politico.
Sul fronte palermitano
Roberto Scaripinato aveva deciso di trasferirsi a Palermo nel 1988. Era l’anno degli omicidi del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, del magistrato Antonino Saetta, del giornalista Mauro Rostagno, nonché della maxi operazione antidroga Iron Tower condotta da Giovanni Falcone e da Rudolph Giuliani. Un vero “corpo a corpo” tra una esigua “avanguardia di uomini dello Stato che si stavano spingendo laddove nessuno aveva mai osato, e poteri criminali – di cui la mafia militare era solo la componente più visibile e appariscente – che reagivano con furia omicida e con sotterranee manovre di Palazzo per fermarli”. Lavorando con Falcone e Borsellino, Scarpinato aveva avuto modo di essere testimone diretto del loro progressivo isolamento e a mano a mano che le indagini entravano sempre più nel profondo di quel “gioco grande” orchestrato dalle “menti raffinatissime”.Dopo che Falcone aveva fatto domanda per l’Ufficio degli Affari Penali al Ministero della giustizia, Scarpinato fece domanda di trasferimento per un altro ufficio, per poi tornare a rivederlo poco prima della strage di Capaci. In quell’occasione Falcone aveva confidato a Scarpinato di “vere buone probabilità di essere nominato Procuratore nazionale antimafia e mi invitò a presentare domanda per la Procura nazionale, dicendomi che avremmo potuto finalmente svolgere le indagini che sino ad allora gli erano state impedite”. Tuttavia le cose andarono come si sa. “Dopo la strage di via D’Amelio – scrive Scarpinato – decisi di revocare la domanda di trasferimento e redassi un documento che fu sottoscritto da altri sette sostituti procuratori, con il quale minacciavamo di dare le dimissioni se non veniva trasferito il Procuratore capo che aveva emarginato prima Falcone e poi Borsellino. Il Csm aprì una inchiesta convocando tutti i magistrati dell’ufficio. Nel corso della mia audizione del 29 luglio 1992, raccontai con dettagli come e perché Falcone e Borsellino erano stati ridotti all’impotenza. Ho appreso anni dopo che, ciononostante, si stava formando una maggioranza favorevole a mantenere al suo posto il Procuratore Capo, con conseguenze negative per i “ribelli”, come venimmo definiti. La situazione si sbloccò a nostro favore perché quel Procuratore decise all’improvviso di fare domanda di trasferimento. Credo che abbia svolto un ruolo importante l’imponente mobilitazione della società civile”. Dopo questi avvenimenti i magistrati avevano iniziato una vera e propria corsa contro il tempo per togliere della strada gli stragisti più pericolosi anche grazie alla collaborazione di molti collaboratori di giustizia. Le indagini tuttavia si stavano avvicinando troppo ai “nomi indicibili” e la reazione non si fece attendere. “A poco a poco, in modi e in tempi diversi, i principali protagonisti di quella stagione furono progressivamente esclusi dalle indagini più scottanti e dalla possibilità di accedere a incarichi direttivi operativi ritenuti strategici. Per Caselli fu addirittura varato nel 2005 un emendamento ad hoc alla legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario (dichiarato poi incostituzionale) per impedirgli di fare domanda per il posto di Procuratore nazionale antimafia”. Infine da Procuratore Generale di Caltanissetta Scarpinato si era occupato della revisione del processo per la strage di via D’Amelio, approfondendo la conoscenza di tutti gli atti di quella complessa indagine e poi ancora da Procuratore Generale di Palermo aveva partecipato dal maggio 2019 a riunioni di coordinamento con tutte le Procure distrettuali competenti per i processi sulle stragi, a seguito di indagini svolte dal suo ufficio per l’omicidio di un agente della Polizia di Stato che aveva scoperto collusioni tra mafiosi e settori dei Servizi segreti. Recentemente il consigliere togato Nino Di Matteo ha scritto il libro “I Nemici della Giustizia”. Si potrebbe dire, alla luce di quanto si è visto, che la strategia stragista di Cosa Nostra e i successivi depistaggi “realizzati mediante la sottrazione di documenti essenziali, la creazione di false piste, l’eliminazione di mafiosi depositari di segreti scottanti poco prima che iniziassero a collaborare con la magistratura e altro ancora” sono parte integrante di una guerra contro il bene pubblico più prezioso, quello della giustizia. Un bene che magistrati come Roberto Scarpinato hanno sempre difeso.