di Gianni Barbacetto
La “pacificazione” chiesta da Giorgia Meloni è impossibile. Anzi: è un’impostura, che ferisce la giustizia e nasconde la verità. Nel cinquantesimo anniversario del rogo di Primavalle, in cui morirono i due fratelli Mattei, figli del segretario locale del Movimento sociale italiano, la presidente del Consiglio ha sostenuto che “abbiamo il dovere di chiudere il Novecento con tutte le sue lacerazioni, dobbiamo arrivare a una pacificazione nazionale”.
La proposta sarà prevedibilmente ripetuta in previsione del 9 maggio, quando sarà celebrata al Quirinale la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Ma quale “pacificazione”? Tra due opposte violenze, quella comunista e quella fascista che fecero in Italia centinaia di vittime negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso: gli “opposti estremismi” di cui allora parlava la Dc.
Naturalmente tutte le vittime di quel periodo meritano indistintamente verità e giustizia. Ma la proposta degli eredi del Msi non vuole e non può arrivare a quel risultato: punta invece nei fatti a parificare fascismo e antifascismo, in nome della constatazione che in entrambi i fronti frange violente provocarono morti e feriti. Con la “pacificazione nazionale” non si vuole però arrivare alla verità, ma a mettere una pietra tombale sopra la possibilità di capire che cosa è successo davvero negli anni della “strategia della tensione”: si vuole fare pari e patta tra “opposti estremismi” e chiudere così la partita.
L’elemento essenziale di quella vicenda drammatica sarebbe dimenticato, occultato, negato: la storia italiana del dopoguerra, almeno fino agli anni Ottanta, non fu una guerra per bande in cui si scontrarono fascisti e comunisti; fu una “guerra non ortodossa”, secondo la definizione coniata negli ambienti militari, in cui alcuni apparati dello Stato, fuori dal perimetro della Costituzione, allevarono, coprirono e protessero gruppi di combattenti irregolari pronti a partecipare a una guerra segreta, teorizzata in convegni “ufficiali” come quello del 1965 all’hotel Parco dei principi di Roma e pianificata negli ambienti atlantici.
Una “guerra a bassa intensità” da combattere in nome dell’Occidente contro il comunismo, nel Paese al confine tra i due blocchi e con all’interno il partito comunista più grande dell’Ovest. Tra le vittime di questa guerra non dichiarata ci sono, certo, i fratelli Mattei, Sergio Ramelli, Alberto Brasili, Claudio Varalli e tanti, tanti altri. Ma ci sono anche decine e decine di cittadini inermi che non avevano dichiarato alcuna guerra, coltivatori diretti che trattavano nel salone della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana, insegnanti che manifestavano pacificamente in piazza della Loggia a Brescia, uomini, donne e bambini che viaggiavano sul treno Italicus o erano in attesa nella sala d’aspetto della stazione di Bologna. Che “pacificazione nazionale” è possibile per loro?
Ci aveva già provato Francesco Cossiga, a proporre una sorta di “pacificazione” basata sul reciproco riconoscimento dei due fronti in lotta e sullo “scambio di prigionieri”: brigatisti rossi e terroristi di sinistra da una parte, terroristi neri e combattenti anticomunisti dall’altra. Ma anche Cossiga sapeva bene che non era stato questo il vero scontro in Italia, non erano questi i contendenti: la low intensity war fu combattuta da gruppi nutriti e protetti da apparati dello Stato, da una parte; e dall’altra, a farne le spese, furono cittadini inermi e inconsapevoli che avevano avuto la sorte di trovarsi nel momento sbagliato nel salone di una banca, nello scompartimento di un treno, in una piazza, nella sala d’aspetto di una stazione; oppure erano fedeli servitori dello Stato, professionisti coraggiosi, eroi borghesi.
Gentile presidente del Consiglio, che “pacificazione” è mai possibile, dunque, in questa asimmetria insanabile?
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