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Si è svolta oggi la cerimonia di commemorazione a Palermo, in via De Amicis, in memoria del giudice Cesare Terranova, ucciso dalla mafia il 25 settembre del 1979. Nell’agguato fu ucciso anche il suo agente di scorta, il maresciallo di polizia Lenin Mancuso.
Alla manifestazione hanno preso parte autorità civili e militari.
Terranova fu il primo magistrato ad avere intuito la pericolosità della criminalità organizzata e ad avere istruiti i primi processi contro i boss mafiosi, quando ancora la parola mafia veniva detto con un sussurro. O c’era chi si prendeva gioco e diceva che era “una invenzione dei comunisti”. Fu anche il primo magistrato a mettere per iscritto – nella sentenza istruttoria per la strage di viale Lazio, avvenuta il 10 dicembre 1969 – il rapporto Mafia-Politica: e cioè che gli amministratori comunali di quel tempo rappresentavano il centro organico della nuova mafia. Il suo nome, però, è tra quelli caduti nel dimenticatoio. Adesso il regista Pasquale Scimeca ha deciso di dare voce e volto al giudice Terranova e a Mancuso, raccontando la loro storia in un film. Gli attori protagonisti saranno il palermitano Gaetano Bruno, che interpreterà il magistrato e Giuseppe Mazzotta, noto al grande pubblico per avere interpretato l’ispettore Fazio nel Commissario Montalbano di Camilleri, che farà Mancuso. L’annuncio è stato dato oggi, nell’aula intitolata proprio a Terranova, al palazzo di giustizia di Palermo, alla presenza del regista, dei due attori, ma anche dei nipoti del giudice, Vincenzo, magistrato anche lui, e Francesca, oltre a Carmine Mancuso, figlio di Lenin.
“Io ho già fatto un film 22 anni fa su un’altra vittima di mafia, Placido Rizzotto, che fino ad allora era sconosciuto al grande pubblico. Il giudice Terranova è più conosciuto, ma non è stato abbastanza valorizzato – ha detto il regista in una intervista all’Adnkronos – Eppure, è stato un giudice fondamentale nella storia della lotta alla mafia. È l’anello mancante nella narrazione. Ci sono una serie di film e libri sulla guerra e poi si passa direttamente agli anni Ottanta, dal maxi-processo a Falcone e Borsellino. Ma in mezzo ci sono le figure di Terranova e Mancuso. Sono loro che, in modo solitario, hanno impostato l’idea della lotta alla mafia, non come lotta di bande, ma come organizzazione unitaria. Fu lui a istruire i primi due maxiprocessi, quello di Catanzaro e di Bari. Questo film proverà a colmare questa lacuna”.
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Ma chi era questo magistrato?
Imbastì i primi processi contro il clan dei corleonesi, in particolare contro Luciano Liggio e Totò Riina. Ma Liggio e tutti gli altri furono assolti per “insufficienza di prove”. Liggio venne poi portato nuovamente a processo e condannato all’ergastolo per avere ucciso il boss corleonese, Michele Navarra. E tutto ciò è avvenuto in un momento storico nel quale l’associazione di stampo mafioso e l’art. 416 bis non erano ancora stati introdotti nel codice penale. Quel giorno il magistrato uscì di casa alle 8.30 per recarsi a lavoro alla Corte d’Appello di Palermo. Assieme a Lenin Mancuso entrò in auto e si mise alla guida. Poco dopo, la vettura venne affiancata da alcuni killer che, con armi di grosso calibro, aprirono il fuoco. Terranova morì sul colpo mentre l’agente di scorta dopo poche ore morì in ospedale. Al movente dell’omicidio del giudice Terranova e dell’agente di scorta si arrivò grazie alle prime dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta che, in un interrogatorio davanti a Giovanni Falcone, raccontò che Liggio era il mandante dell’omicidio Terranova per vendicarsi dell’ergastolo che il giudice gli aveva inflitto nel 1975. Tesi confermata anche dal pentito Francesco Di Carlo, secondo cui il boss corleonese è il mandante e Leoluca Bagarella, Giuseppe Madonia, Giuseppe Gambino e Vincenzo Puccio gli esecutori. Dietro l’omicidio del giudice non si nascondeva solo la vendetta di Liggio, ma anche un omicidio preventivo, da parte di Cosa Nostra, per stroncare sul nascere il lavoro che Terranova avrebbe potuto svolgere contro la mafia a Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo.
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Dopo Terranova, Antonino Saetta: primo magistrato giudicante ucciso da Cosa Nostra
25 settembre 1988: Sembrava un giorno qualsiasi, la SS 640 che da Agrigento porta a Palermo era percorribile come sempre. Una BMW scura si affiancò all’auto, si abbassarono i finestrini, ed ecco una raffica di proiettili calibro 9 che irruppero improvvisamente sui conducenti.
C’erano Antonino Saetta ed il figlio Stefano su quella macchina presa d’assalto a colpi di mitra. Erano in viaggio verso casa, di ritorno da una giornata trascorsa a Canicattì.
Non era un semplice regolamento di conti tra bande rivali, Antonino Saetta, classe 1922, era un magistrato che aveva ricoperto la carica di presidente della Corte d’Assise d’Appello tra il 1985 ed il 1986 a Caltanissetta e, successivamente, a Palermo fino alla sua esecuzione.
Si era occupato di processi di primo piano in merito alle organizzazioni criminali: a Caltanissetta aveva curato come presidente della corte d’assise la strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, ed i cui imputati erano i celebri Michele “Il Papa” e Salvatore “Il Senatore” Greco, considerati esponenti all’apice della mafia di allora. Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di primo grado.
A Palermo presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano Basile, che vedeva imputati i capi emergenti Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonia.
Fu in questa occasione che una tradizione assolutoria nei confronti della mafia, sempre presente nei giudizi di secondo grado, venne calpestata: il processo che in primo grado si era concluso in una discussa e sorprendente assoluzione si era tramutato, in appello, in una condanna al massimo della pena per gli imputati.
Un magistrato retto, intransigenze, rigoroso, che non si lasciava facilmente influenzare dalle pressioni della giuria popolare. Un potenziale pericolo incombente per Cosa Nostra, che il 16 dicembre 1987 aveva assistito alla sentenza che concludeva il maxiprocesso di primo grado: 346 condannati, 114 assolti, 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione.
Effettivamente, contrariamente a quanto era avvenuto per il processo di primo grado solo pochi magistrati erano disposti a presiedere il maxiprocesso in appello. Uno di questi era Antonino Saetta.
A seguito della notizia sul suo assassinio, Giovanni Falcone dichiarò apertamente: “È un’esecuzione decretata dai corleonesi, e non averlo ucciso a Palermo è solo il tentativo di sviare l’attenzione, per provare a far pensare a qualcosa di diverso tirando in ballo le cosche locali. Ma la decisione viene da lì, e secondo me ha anche a che fare sia con il processo Basile che con il maxi”.
Sarebbe stato lo stesso Falcone, giunto all’ufficio affari penali nel 1991, a rendere onore al magistrato, introducendo assieme a Martelli la regola della turnazione in Cassazione dei processi di mafia: il ruolo di giudice di Cassazione al maxiprocesso passò dall’“ammazzasentenze” Carnevale ad Arnaldo Valente e tutte le condanne di primo grado furono, per i mafiosi, clamorosamente riconfermate.
Nel 1996 la sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta formulò la condanna dei boss mafiosi Totò Riina e Francesco Madonia, come mandanti dell’omicidio Saetta e Pietro Ribisi, come esecutore materiale.
Oggi ricordiamo il magistrato come esempio di quella coerenza e responsabilità istituzionale che ha aperto la strada alle prime grandi vittorie contro il sistema criminale, tutt’altro che sconfitto ancora oggi: altri maxi-processi sono in corso e altri lo saranno nei prossimi anni, dunque è quanto mai è necessario trarre ispirazione da coloro che non hanno mai piegato la testa alle intimidazioni delle organizzazioni mafiose.