di Gianni Barbacetto
Il tempo passa, le settimane trascorrono, le elezioni comunali s’avvicinano e ancora Giuseppe Sala non ha sciolto la prognosi: si candiderà o non si candiderà per il secondo mandato a Milano? Certo, la città – diventata epicentro della seconda ondata del Covid – ha altro a cui pensare. Ha abbandonato la boria del “milanese imbruttito” e si mostra più stanca, sfiduciata, impaurita, a tratti perfino incattivita.
Avrebbe bisogno di punti di riferimento, di personalità capaci di parlare allo smarrimento e indicare il cammino per la ripresa. Ma non c’è un Carlo Maria Martini che sappia parlare alla città, un Antonio Greppi, il sindaco della ricostruzione dopo la guerra. Sala sembra il più smarrito di tutti, eternamente incerto tra milanononsiferma e la paura della crisi. I segnali che manda sono contraddittori. Il manager sicuro dei tempi del successo si è trasformato nell’ometto che bisbiglia e balbetta e aspetta tempi migliori.
Forse sarà costretto a ricandidarsi, per mancanza di alternative, sue e della politica. Potrà comunque contare sull’assoluta assenza di competitor, visto che il centrodestra rischia di contrapporgli – questa è l’ideona di quei buontemponi del Foglio – un ragazzino di nome Silvio Berlusconi. Sarebbe la sfida più triste di sempre, povera Milano.
Sala intanto ha già cominciato una specie di campagna elettorale, anche se non se n’è accorto nessuno. Si chiama “Fare Milano”, un’operazione di ingegneria del consenso progettata a tavolino da spin doctor fuori fase che hanno coinvolto le istituzioni culturali della città, messo in campo 700 esperti, indicato sette “temi per progettare il futuro della città”, aperto sette tavoli di lavoro, organizzato una serie di incontri web in streaming poi rilanciati su Youtube. Un flop: hanno avuto meno visualizzazioni di tanti balletti di Tik tok.
Le parole sono reboanti, ma i fatti sono piccini: mentre in città aumentano le disuguaglianze, i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, mentre cresce l’insicurezza, tramonta il mito dell’eccellenza lombarda, la sanità pubblica abbandona i malati a casa e quella privata offre simpatici pacchetti-covid a 450 euro, la squadretta di Sala si balocca con piazze risistemate, muri ridipinti, aiuolette rinverdite, arredo urbano, panchine e cespuglietti. È questa la rivoluzione metropolitana di Milano? Ah, poi ci sono le piste ciclabili, ottenute strozzando la viabilità e facendo parcheggiare le auto quasi in mezzo alle strade.
Intanto non si ferma la vera corrente del golfo che, invisibile, travolgerà Milano, la vera rivoluzione urbana che ridisegnerà la città e ne riscriverà la mappa del potere: la trasformazione immobiliare degli scali ferroviari e delle altre grandi aree metropolitane. Mentre ci mostrano le aiuolette che cambiano Milano, sono in arrivo milioni di metri cubi di cemento che si aggiungeranno alla città che ha già il più grande consumo di suolo e il più alto grado d’inquinamento d’Italia.
Sono commoventi la letizia dell’assessore Pierfrancesco Maran e l’entusiasmo del sindaco Sala nell’annunciare la vendita dello Scalo Romana – dove sarà costruito il villaggio olimpico per le Olimpiadi 2026 – come la più grande trasformazione urbana di Milano: è la più grande svendita di un bene comune della città agli immobiliaristi, i soliti Manfredi Catella di Coima, ormai diventato il Ligresti del nuovo millennio, questa volta alleato con Leonardo Del Vecchio e Prada; e le Ferrovie, che si comportano come un operatore privato, “valorizzando” terreni che avevano avuto per fare trasporto pubblico, non residenza privata.
19 novembre 2020