(testo originario, salva integrazioni)
Dedicato alla moglie Gabriella ai figli Isabella ed Ernesto, ai nipoti di Salvatore d’Albergo, e a tutti i suoi amici e compagni e conoscenti che l’hanno conosciuto e stimato ma anche a coloro che hanno avuto la sfortuna di non conoscerlo.
Il ruolo culturale e politico di un uomo sociale di straordinaria umanità, grande dirigente politico-intellettuale in lotta contro l’agnosticismo ideale e militante del movimento operaio e comunista, per l’emancipazione dei lavoratori e una nuova teoria del potere e del diritto, per la Costituzione di “democrazia formale” e “democrazia sostanziale”, quindi per il potere sociale “dal basso” della democrazia sociale-economica-politica organizzata e di base.
Temo che proprio per la stima e l’ammirazione per la sua immensa produzione ed opera critica, per il suo irrefutabile apporto teorico nei più svariati campi del sapere e non solo del suo campo professionale, si possa correre il rischio di trascurare involontariamente la sua specifica ed eccelsa personalità, del tutto opposta a quella con cui oggi si intende per “intellettuale“, ed in primis la sua umana pienezza, scevra e del tutto opposta ad ogni tipo di ipocrisia e di mediocrità, “stupefacente per la probità generosità, disponibilità, sensibilità…” come hanno scritto non solo quelli a lui più vicini e consueti, ma tutti (e che invieremo).
d’Albergo era costantemente immerso nella realtà di coloro che vivono, studiano e lavorano sul territorio, perché condivideva l’opinione di Togliatti secondo cui :
“Non vi è nessuna ‘formula’ del marxismo anche dei più grandi tra i nostri maestri, che conservi tutto il suo senso se lo si separa dallo sviluppo delle situazioni reali” , perché “solo per questa via si può giungere a dare carattere di massa alla stessa diffusione della nostra dottrina, parallelamente alla creazione di un vasto fronte di movimenti di lotta delle giovani generazioni “
Togliatti si chiedeva in particolare “ Dove sono su tutta la superficie della nazione i dirigenti e gli uomini di prestigio che frequentino questi luoghi? e non per comizi e feste ma per arricchire l’attività di continua comprensione reciproca, di chiarimento e di guida…? Mai come ora è stata grande tale necessità…specie per i giovani costretti per lo più a subire le dure restrizioni che tendono ad annientare la loro personalità, che pongono interrogativi e vuoti paurosi alla mente di chi cerca di rendersi ragione di ciò che vede … che cercano un orientamento ideale e pratico per il quale non basta dirgli di leggere la pagina di un classico nostro…”
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Nell’immenso dolore dei suoi familiari, estimatori, colleghi, compagni e di ognuno di coloro che lo hanno conosciuto, tutti i ricordi, collettivamente ed in interscambio tra loro (ad es., quelli contenuti negli Original Messages che trasmetteremo al più presto ), aiutano, credo, a testimoniare quel che era ed è stato davvero Salvatore d’Albergo, fino all’ultimo giorno ed ultime ore, con le sue analisi tempestive e anticipatorie che gli sviluppi e i fatti successivi hanno regolarmente confermato, coi suoi ininterrotti e assidui interventi che nemmeno la malattia ha potuto limitare, impedendogli però purtroppo quella mobilità e libertà di movimento che gli permetteva di essere ovunque e con chiunque chiedesse il suo contributo: dal più sperduto luogo di montagna, del Molise o della Garfagnana, ai centri delle grandi città, ai circoli di studiosi o di lavoratori che, per lui, non facevano differenza.
Nel solco della storia, dalla parte dell’antifascismo sociale e politico
Come ha scritto Arianna che appartiene alla categoria di quei giovani strumentalizzati dall’attuale governo e che appositamente citiamo: “Un grande uomo con la mente più grande che si possa conoscere, con la sua cultura, con la sua straordinaria capacità di analisi,la sua tenacia, la sua memoria, la sua umiltà coi deboli, la sua forza contro i potenti…”. Al canto suo e come anche Azzariti e Stella della rivista Fenomenologia e Società di Pirola, Lidia Menapace ha scritto che Salvatore “mi era caro” e lo “ammiravo per la serietà delle riflessioni, mai abborracciate o imprecise, e nello stesso tempo la profonda e generosa capacità di ascoltare chi avesse opinioni diverse dalle sue: per farla breve tutte le migliori qualità di chi pensa, senza alcuna boria accademica, una vera rarità…”, ovvero, aggiungiamo noi, il contrario del solipsismo verboso e ideologico, sprezzante e diciannovista, proprio del nuovo “regime del capo di governo”.
Raul Mordenti, evidenzia come la scomparsa di Salvatore costituisca “una perdita grave per la cultura giuridica italiana, per la democrazia, per i comunisti”.
Queste sono solo alcune delle numerose testimonianze che ci sono pervenute di stimati e non consuetudinari frequentatori di Salvatore non con, ma occorre sottolineare come tutti abbiano unanimemente riconosciuto che Salvatore era, per utilizzare le parole di Cremaschi: “uno dei compagni più grandi e preparati una delle figure intellettuali più oneste e rigorose sul piano morale e civile, un militante della democrazia e del socialismo che avrebbe potuto ottenere ben altri onori solo che si fosse accodato al corteo dei servi del potere…”.
Tra questo suo “poter esser’”, “ se si fosse accodato…” e viceversa il suo consapevolissimo ”voler essere” tutt’altro e l’essere riuscito in questo, si colloca la personalità eccelsa e il ruolo culturale e politico svolto sia nella storia sia nella teoria che nella prassi del Paese. E’ difficile, per tanto, cercare di rappresentare al meglio – senza riduzionismi o involontarie distorsioni – una personalità che costituiva un tipo di “uomo nuovo” e nel contempo un “politico di tipo nuovo”, comunque una personalità diversa ed opposta sia dai c.d. “politici” che dagli “intellettuali” e/o “giuristi” attuali. Non solo, quindi, un gramsciano “intellettuale di tipo nuovo”, ma una personalità in cui tali aspetti convivevano indissolubilmente, stante l’unitarietà del persona e del pensiero. Come abbiamo sempre pensato sia da giovane che ancor oggi, non basta dire di essere “questo” o “quello” ma bisogna vivere secondo quello che si dice di essere, nel caso essere e vivere da marxisti. Questo faceva d’Albergo.
Potente è pertanto il riconoscimento a d’Albergo fatto da padre Pirola: uomo di scienza cattolica e teologo del cattolicesimo conciliare e di liberazione, che lo colloca tra quei “marxiani, con cui ho lavorato una vita…Figure esemplari di uomini tanto onesti quanto poveri per sobrietà di vita…”.
Non basta quindi dichiararsi comunisti o marxisti, ma occorre vivere da marxisti (come quelli richiamati da Pirola) , perché il marxismo non è ne una filosofia ne una scienza, oltretutto distorsivamente bistrattato in senso economicista , ma è marxismo tout court, ossia una “scienza” dell’unità della vita e di tutte le scienze
Ma come si fa a definire la persona e la personalità di Salvatore d’Albergo? E come far comprendere la rettitudine, la sua statura di Uomo e di politico-intellettuale – quale una volta erano quasi tutti ed ora quasi nessuno – rimasto tra i pochi se non l’unico ancora attivo? E quella capacità di anticipare le tendenze e quel che la storia e i fatti successivi si incaricavano regolarmente di confermare, analizzando i processi reali in corso con la “lente di ingrandimento” della teoria e della storia (che non è acqua).
Nel solco della storia. Dall’analisi dell’autoritarismo liberale e del totalitarismo fascista alle radici della democrazia, del pluralismo e della teoria della prassi marxista
Urge celebrare la Sua eccelsa personalità e per ciò andare anche al di là del suo essere un eccelso dirigente politico-intellettuale. A partire da Gramsci “grande dirigente politico e grande intellettuale” come Salvatore lo definisce nel suo studio su Gramsci e lo stato, davvero unico, inarrivabile, pieno di nuove “scoperte” del pensiero del “dirigente comunista carcerato”, sin li trascurate, rimaste sconosciute a tutti , lavoratori e studiosi.
Certo, Salvatore si è avvalso anche degli studi, di storia ma anche dell’economia, delle forme sociali e delle istituzioni: una conoscenza non comune e pluridisciplinare del fascismo e del liberalismo, di che cosa sono realmente con i necessari riferimenti storici e quindi con l’analisi della realtà effettuale, senza tralasciare gli aspetti teorici relativi alle “forme” sociali , economiche e dello stato. E’ questa approfondita conoscenza che gli ha permesso di scegliere in modo consapevole di porsi dalla parte del movimento operaio democratico e comunista. All’opposto dei tanti “comunisti” che solo successivamente, venuti a conoscenza delle teorie e della cultura liberale (come a dire, sorpresi e tra sé e sé: “ma tu guarda, è interessante e io non lo sapevo”) scoprirono di essere “liberali” anziché comunisti.
La sua scelta non stata né casuale, né dovuta alla non conoscenza delle altre dottrine e della loro storia. Da questa scelta consapevole e dall’approfondita conoscenza dell’autoritarismo liberale e del totalitarismo fascista derivava il suo rigore e la sua coerenza, il suo essere intellettualmente inflessibile e incorruttibile. “Sapendo”, in tale piena consapevolezza, capiva – stupendo tanti – chi era “di destra” già quando ancora si manifestava e si dichiarava “di sinistra” o “comunista”, cogliendo la contraddizione tra ciò che diceva di essere e la radice culturale di quel che affermava e proponeva. Gli permetteva di smascherare l’ideologia nascosta e di capire al volo che idee, elaborazioni e proposte presentate come “nuove” o “moderne” erano e sono le stesse, a volte solo riadattate di poco, della storica cultura conservatrice borghese e autoritaria-liberale (già dagli anni 60 e 70 ad es. Salvatore ha identificato le “idee” e gli scritti di Luigi Berlinguer “ripresi di sana pianta dalla ottocentesca cultura conservatrice borghese”; o la c.d. “nuova teoria” di Miglio, null’altro che la teoria liberale d’impresa della Società per Azioni applicata allo stato), e soprattutto, in questo secondo ventennio, come “idee elaborazioni e proposte”, affini o persino, direttamente, le stesse della cultura reazionaria e fascista.
Cultura militante e pseudo-intellettuali.
Esatte analisi tempestive ed illuminanti a priori su quel che accade oggi
D’Albergo non tralasciava di rilevare che se da diversi anni è incorsa l’abitudine a presentare idee e forme del vetero liberalismo e persino del fascismo come “nuove” e “moderne”, lo si deve al fatto che non si è più studiato in tutti i suoi aspetti interdisciplinari cos’era il “fascismo storico”, e cos’è e può essere “fascismo” pur in vesti ovviamente diverse da quello storico. Basti richiamare a questo proposito il fatto che Salvatore aveva precisamente individuato le radici culturali della cosiddetta “sussidiarietà orizzontale” nelle previsioni della Carta del Lavoro fascista.
Alla luce della storia e della approfondita conoscenza di tutte le teorie politiche, Salvatore, con le sue analisi, è riuscito a demistificare tempestivamente il senso e la direzione del processo di controriforme in corso. Egli ha richiamato a questo proposito la polemica di Gramsci contro le posizioni di Pannunzio giurista di Mussolini, evidenziando come il grande dirigente e intellettuale carcerato, quasi non riuscisse a credere che si potesse giungere a motivare (come non teme di fare oggi l’attuale “governo del capo”) un’inversione di ruolo tra l’esecutivo e il Parlamento e considerando, altresì, “curioso” e inconcepibile, che “l’indirizzo politico” (dell’esecutivo di governo, n.d.r.) potesse essere considerato come ”una funzionerispetto alla quale la stessa legislazione si comporta come fosse un esecutivo”.
E qui non si può non ricordare che – pur immobilizzato e afflitto da dolori lancinanti – d’Albergo sia stato il solo a scoprire (come se il consigliere di Mussolini fosse anche consigliere di Renzi; e varrebbe la pena di indagare chi gli sta dietro e chi sono i suoi suggeritori) che il progetto di revisione proposto dal governo Renzi non costituisce un superamento del bicameralismo bensì una sua “obliqua” restaurazione, aggravata dal fraudolento inserimento di una previsione (art. 12 del ddlc Renzi) che sancisce “il dominio del governo sul Parlamento”, ovvero – per usare le parole di Gramsci contro Mussolini – la trasformazione del “ legislativo in esecutivo”. D’Albergo, evidenziava, con cognizione di causa, che la proposta di “revisione” avanzata dal governo, giunge “addirittura a rievocare il principio introdotto dal fascismo in nome del primato del capo del governo”. Sembra insomma che Renzi si sia avvalso di consiglieri che continuano a nutrirsi della stessa cultura autoritaria del consigliere di Mussolini, Pannuzio.
Dunque il merito della “scoperta” è di d’Albergo, non certamente dei “giuristi di chiara fama” (cosi chiamati e utilizzati dal fascismo), né dei “giornalisti”- alla Ainis – che hanno affrontato l’argomento solo dopo la diffusione da parte nostra – ad ogni giornale e giornalista – della “scoperta” stessa. Tale importante scoperta è stata però ripresa in termini non scientifici ma banalmente giornalistici . Si e parlato infatti di “Parlamento reso cameriere del governo” senza però richiamare i precedenti storici e senza effettuare una dovuta autocritica, ma anzi ribadendo – come Ainis – il sostegno all’obliquo “monocameralismo” che trasforma anch’esso “il Parlamento in cameriere del governo”
Dal passato al presente, l’ineluttabile scivolamento nella cultura e nella pratica “di destra”: dal diciannovismo al partito della nazione nel nome degli interessi corporativi legittimati dalla categoria dell’ interesse “nazionale” avverso a quello “sociale” .
Tralasciando, qui, la specifica analisi d’Albergo sul fascismo, come esempio della riacquisita egemonia culturale di stato e statalismo liberale e del corporativo-fascista, mi tona alla mente quella volta in cui , insieme a Salvatore, scoprimmo che Occhetto ripeteva inconsapevolmente le stesse parole di Mussolini contente in un editoriale del Popolo d’Italia, dell’aprile 1921. Nel rivendicare i “diritti dell’individuo” contro l’interventismo dello “stato economico’ da “smobilitare” in funzione “della borghesia produttiva” (concettoche, ci pare, riecheggi nei provvedimenti del governo e nelle feste “private” in quel di Firenze, nel sito titolato al Granduca Leopoldo), Mussolini scrisse infatti la celebra frase: “lo stato non devegestire ma solo controllare”.
Sottoposi tale frase ai dirigenti sindacali e del Pds, domandando “Chi l’ha detto? .
La maggior parte risposero Trentin ed Occhetto, altri Reichlin e cosi via.
Questo, solo per sottolineare come il nuovo tipo di trasformismo che si stava instaurando, si concretizzava in un “revirement” teorico segnato dalla mancanza di consapevolezza e di conoscenza della vera storia dell’Italia, al punto da non sapere e quindi usare le stesse parole mussoliniane.
Non potendosi dire che gli ex -PCI fossero già allora “fascisti”, consideravamo però, che fossero tendenzialmente destinati – dicevamo con Salvatore, già allora, a cavallo degli anni 80-90 – a scivolare sempre più a destra: sia verso una nuova DC, cioè un nuovo grande “centro”, ma non più “popolare” bensì classico partito conservatore europeo (contro il quale la DC vantava di esistere per impedire che nascesse anche in Italia); sia verso forme politico-istituzionali e idee “reazionarie”, con un passaggio simile a quello definito “prefascismo” econtipicirichiami nazionalistie corporativi agli interessi della nazione, da contrapporre agli interessi e al conflitto di classee, in funzione di questo, aspirando ad divenire organizzazione e forza nazionale totalizzante, comefu rivendicato nella seconda delle tre fasi del fascismo: quella del passaggio da movimento a partito. Questa aspirazione a presentarsi come partito della nazione,richiama l’impostazione politico-culturale nell’elaborazioni della Repubblica sociale di Salò, nel corso della quale Mussolini coadiuvato da autorevoli giuristi e filosofi della politica, sottopose a revisione critica il modello di partito unico adottato in precedenza, proponendo per l’Italia del futuro, un sistema presidenzalistico imperniato sul bipartitismo. Un’indicazione che i suoi eredi capeggiati da Almirante, perseguirono in seguito puntualmente.
Il fatto di ricorrere all’uso di concetti e norme come quella inserita nella “revisione” costituzionale, e persino a parole uguali a quelle in voga sia nel prefascismo che nelle tre fasi del fascismo, “movimento”, prima, poi “partito” e infine “regime” nella sua “terza fase”, è sfuggita praticamente a tutti ma non a Salvatore.
Non che ciò significasse una’ immediata assimilazione dei politici degli anni 90 e di oggi, al “fascismo storico” che in tali sue forme non si ripeterà mai, ma significando l’inintelligenza degli attuali gruppi politici di vertice, non solo il ripudio della storia ma l’ignoranza di quella che è stata la vera storia dell’Italia nell’ultimo secolo, che già visse sia una “fase” chiamata, appunto, del “trasformismo” sia di abolizione del suffragio popolare proporzionale.
Si che, di fase in fase, in un processo similare al diciannovismo e a quelle tre fasi, sono andati instaurando un nuovo tipo di trasformismo misurabile negli effetti di leggi elettorali sostanzialmente equivalenti al suffragio “censita rio” degli albori dello stato moderno.
Ovvero, all’ombra di un “europeismo restauratore” e ignorando la specifica analisi del “fascismo storico” e della storia d’Italia, nonché facendo base sul revisionismo storiografico in cui si annida anche quello teorico, si è giunti a legittimare il revanscismo teorico e politico della cultura di una destra variegata, che unita dalla ideologia della borghesia d’impresa , punta a riproporre i pre-moderni valori gerarchici e il potere assoluto della proprietà nell’impresa e quindi il primato del privato e dell’economia.
Nell’intento – disvelato da tempo e poi anche dagli ultimi interventi di d’Albergo – di coniugare autoritarismo sociale dell’impresa e autoritarismo politico delle istituzioni. Tangibile e ben visibile in questi giorni in cui non casualmente è stata avviata in contemporanea la “revisione”costituzionale e dello Statuto dei lavoratori con l’abrogazione dell’art. 18, per andare – diciamolo con le parole di Salvatore di 10 anni fa – “verso una seconda Carta del lavoro”, tipo quella del 1927.
Crisi e denuncia della contraffazione ideologica
Nell’ incoscienza o meno, storica, storiografica e teorica della politica, rispetto a ciò che è già accaduto nel nostro Paese, nonché del fatto che l’autoritario dominio del potere dall’alto del governo sul Parlamento e quindi sulla società e le forme liberali di “democrazia” solo “formale”, giù una volta si sono storicamente dimostrate inidonee a contenere i conflitti connaturati alla complessità sociale e quindi a prevenire un nuovo debordo verso il totalitarismo capace di sfruttare e di presentarsi come soluzione delle contraddizioni connaturate all’antisociale dominio privato dell’economia d’impresa.
Fase dopo fase, fino alle revisioni a abrogazioni di cui sopra, si perviene finanche a proporre leggi elettorali che dimenticano la storia reale del nostro Paese, le quali rivelano come si voglia artatamente dimenticare che, nel 1923, fu abolito il suffragio popolare proporzionale, e che grazie al premio di maggioranza assegnato alla lista(che pur essendo minoranza nel paese risultava prima tra le altre di minoranza) si instaurò in Parlamento la maggioranza assoluta di un solo partito, da cui prese avvio un regime di domino del governo sul Parlamento, detto appunto “regime di governo del capo”.
Anche alla luce di questo, si comprende la gravità della ” perditairreparabile” di cui parla Cremaschi, di quel tipo di impegno critico “sommamente antiaccademico”, come ha giustamente scritto Catone, lucido proprio perché non specialistico, organico e “libero”, che Salvatore dì’Albergo ha testimoniato fino all’ultimo giorno.
Non solo era addentro alla tematizzazione di tali questioni, ma era sempre il più lucido e pronto ad intervenire tempestivamente, illuminando anche in anticipo, con analisi uniche e organiche di tipo marxista, le caratteristiche stesse di una crisi.
Andando alla radice, Una la crisi che, come Lui ha denunciato , non riguarda tanto il contrasto tra “razionalizzazione” e “democrazia”, ma investe direttamente la cultura democratica in generale e quella giuridico istituzionale (con tutti i valori e principi che dopo la caduta di regimi nazi-fascisti ha portato ad edificare una nuovo democrazia, “sostanziale” e non più solo politica-formale, quale quella economica-sociale-politica della Repubblica), dominate da un processo di vera e propria contraffazione di tutto il bagaglio teorico che il marxismo ha ampiamente dimostrato essere “mistificatorio”, con riferimento alle questioni che vengono celate dietro la formula del c.d. “stato di diritto”, come apodittica e presunta forma dello “stato moderno”, che nega i diritti dei molti col potere gerarchico di stato e imprese finalizzato a sostenere e favorire il potere dei pochi sui “tutti”.
D’Albergo faceva notare come “Le conseguenze traumatiche dell’abbandono della teoria marxista” si vadano “ stratificando, senza prospettive di recupero, essendo le posizioni rubricate come “di sinistra” assimilabili a quelle della “sinistra borghese” della fase precedente il passaggio alla società di massa”.
Questi pensiero furono espressi da d’albergo, nell’Aprile 2003, per il Centro Il lavoratore, in rapporto diretto con la prassi in corso, durante il contrasto in seno alla CGIL e ai DS, quando fu avanzata e avanzammo la proposta noi stessi “per un forte contrattacco alla strategia antisociale”(vedi il critico Dossiereferendum del Centro Il Lavoratore) , di estendere l’estensione del diritto al reintegro di lavoratori licenziati illegittimamente anche nelle piccole imprese.
Questa mancata estensione offre al verboso estremismo ideologico renziano , la strumentale possibilità di dire che l’art 18 “riguarda pochi” e “non copre tutti”, quindi “tanto vale abolirlo”.
Cultura militante e pseudo-intellettuali
Sicché, specie per chi non lo ha conosciuto se non per suoi scritti, si deve anzitutto precisare e capire quanto Salvatore fosse “altro” da intellettuali, giuristi, ecc., dei quali anzi, denunciava l’ideologia giuridica dominante a cui si ispirano, la quale impedisce di cogliere i connotati del processo del passaggio dallo stato assoluto, allo stato liberale, allo stato fascista, occultando le antinomie fra questi rispetto e lo stato democratico. D’Albergo osservava infatti come “l’ideologia giuridica dominante…appanna sino ad annullare le specifiche forme di evoluzione del diritto positivo e dello stato entro una concettuologìa che dà una valenza astorica agli istituti giuridici”.
Ossia, come volgarmente usiamo dire noi, un’ideologia dogmatica, che intende per giuridico solo quanto concepito all’alba della fondazione dello stato, rifiutando ogni evoluzione e sviluppo apportato dal processo storico. Al punto da arretrare, in tale astoricità e dogmatismo giuridico, quella che è la democrazia economico-sociale della nostra Costituzione, definendola “democrazia costituzionale”, ovvero come fosse quella vetero-storica e tradizionale.
D’Albergo non temeva l’ostracismo causato da questo suo essere “altro” dai soliti “tellettuali” e “giuristi”, perché non si considerava tale.
Si riteneva organico e al servizio dei soggetti reali che costituiscono “una linea di divisone tra quanti usano la politica e il possesso dei mezzi di produzione culturale, come strumenti di gestione degli interessi dei gruppi sociali più ristretti, da quanti, come rivoluzionari e anzitutto ma fortunatamente non solo comunisti, concepiscono la politica come movimento e organizzazione di forze sociali miranti a trasformare i rapporti di diseguaglianza che distruggono identità, soggettività, ed energie di classi sociali, razze e sessi. Creando contraddizioni anche tra i deboli e gli emarginati, a causa della rinunzia, prima ancora che all’ideologia intesa come sistema di valori, alla teoria intesa come criterio d’identificazione dei valori e di demistificazione delle ideologie come falsa coscienza”. Perciò Salvatore non solo agiva, ma pensava da militante, capace di discorrere alla pari con lavoratori e militanti di base, disponibile con chiunque a dare un suo contributo (non solo in campo politico e sociale, ma anche personale), e impegnato anche a dare, diffondere e socializzare una preparazione culturale e teorica, donde il suo impegno negli organismi di studio e formazione del partito e del sindacato. E riteneva la chiusura di queste scuole e luoghi di formazione l’inizio del declino e infine della perdita dell’autonomia culturale.
“Gli hanno messo in testa, a partire dal ‘76, nei partiti di sinistra e nel sindacato di classe, che bisogna “saper gestire” lo stato e l’impresa: nei partiti si è detto ai militanti di imparare a fare le delibere, ovvero trasformando i consiglieri di enti locali e assemblee pubbliche in burocrati; cosi che non c’è più un amministratore pubblico con il quale oggi si possa parlare di politica. Ai sindacalisti si è detto di imparare a leggere i bilanci d’impresa, affidandosi a studiosi impregnati di cultura d’impresa e di chissà quale connotato, lasciando alle spalle tutto il discorso fatto dal 68sulla non neutralità della scienza e della cultura come strumento di sostegno del potere”.
Questo d’albergo lo disse nel ‘78, in “Quale riforma?” pubblicato nell’82, contente il suo contributo intitolato “Governabilità o trasformazione? Stato delle autonomie e programmazione economica, cap. “classe operaia e ‘cultura di governo”, pag. 83), uno dei libri che ci disse “basta che gli mandi le copertine” (che allegheremo aggiungendo il testo del suo intervento), riferendosi al gruppo di compagni più vicini e comunque a tutti coloro che non avevano vissuto quelle esperienze o che ne hanno smarrito la memoria.
Da “braccio e mente” di Ingrao a sostenitore di Berlinguer
Tre lustri più tardi, quando iniziarono le pubblicazioni dei Quaderni del Centro “Il Lavoratore” (col contributo della Cgil Lombarda diretta da Mario Agostinelli) ebbi modo di documentare che ormai da tempo, i corsi sindacali erano tenuti da manager delle imprese private, e non gratuitamente, ma con pagamento di parcella da parte del sindacato.
Persino alla Fiat, nonostante fosse l’azienda che non tenne fede nemmeno agli impegni dell’intesa che “tradì” i 35 giorni di lotta operaia, Fiom-Fim-Uilm accettarono che l’azienda coi suoi “tecnici”, gli intellettuali organici d’impresa (cioè soggetti elaboratori e mediatori delle ideologie e quindi autori principali e fondamentali per la conquista e l’esercizio dell’egemonia culturale da parte di ogni classe sociale, nel caso dell’egemonia della borghesia padronale) tenesse un corso di formazione per i delegati sindacali: “L’impresa nel contesto competitivo” (“la parabola del sindacato”, in Lega leghismo cultura d’impresa e l’antitesi al potere dal basso, Quaderno 2 de “il Lavoratore”, Milano 1995, pubblicato nel 1997 e 2010).
Dagli anni 80 invalse la “normale” abitudine del pagamento di parcelle a chi teneva conferenzeo seminari: ma quando in CGIL dissero a d’Albergo, “professore” – e già questo era per lui offensivo – prima di andarsene dovrebbe passare dall’ufficio di amministrazione”, appena seppe che era “per essere pagato”, dovettero accorrere in tanti perché nessuno riusciva più a tenerlo.
Per lui era solo una prova in più, il guanto di paraffina, di quanto andava sostenendo da tempo denunciando il compromesso di classe, il vero compromesso storico , quale non era quello che la destra PCI assunse come compromesso di governo, attribuendolo a Berlinguer che invece era contrario ma veniva regolarmente messo in minoranza nella direzione e nella segreteria (autorevole conferma di questo, anche rispetto al comportamento della destra PCI rispetto alla mafia, ci è venuto anche da Nicola Cipolla sostenitore di La Torre) come sapevamo e sapeva d’Albergo. Che riteneva Berlinguer prosecutore della strategia togliattiana e della Costituzione, che attuasse nella prassi quel che solo a parole, in “masse e potere”, aveva sostenuto Ingrao che d’Albergo non peritò di criticare in un articolo su l‘Unità , per la sua proposta di costituire un “governo costituente”, prima ancora di Cossiga che lo lancio successivamente. “Lo hanno ucciso”, furono le parole di Salvatore, affranto, mentre andavamo avanti e indietro per i corridoi della CGIL Lombardia, con il suo orecchio attaccato alla radiolina che aveva sempre con se e che ascoltava, da mane a sera e di notte, seguendo i fatti in tempo reale (chi dice che questo è possibile solo oggi con le nuove tecnologie?). A prova di questo portava l’aver visto personalmente e più volte Berlinguer uscire dalla sala della direzione col volto congestionato, violaceo, col “sangue alla testa”.
I nessi tra l’uomo e la comunità sociale
Quindi è da capire anzitutto la rettitudine e la statura d’uomo, di “uomo uovo”, per spiegare i nessi tra l’uomo Salvatore e la comunità umana sia generale che del movimento operaio e del partito “moderno principe”, la sua necessità di interpretare, per servire e “viverlo” assieme agli altri quel rinnovamento della società e della vita di ciascuno segnato dall’esperienza sia storica che sincrona delle lotte per l’emancipazione e per la strategia di progressivatrasformazione socialista dei rapporti sociali e di produzione del capitalismo che costituisce l’irrefutabile discrimine storico tra conservatori e progressisti, tra chi è “di destra”, cioè per il capitalismo e chi è “di sinistra”,cioè per ilsocialismo: termine che però la c.d. “sinistra” attuale nemmeno nomina .
Per tutta la vita dalla parte dall’antifascismo anticapitalista ed in tale inscindibile nesso tra l’uomo e la comunità sociale, per anche così intendere la natura e la specificità di quel/ colui che era in primo luogo un uomo eccelso e, conseguentemente, per questo, un eccelsopolitico ed eccelso intellettuale, consapevole e critico del fatto che “lo studio individuale scisso dalle azioni collettive è solo un attestato per se stessi, non un contributo di lotta che, infatti, anche per questo è del tutto latitante” (D’Albergo, MS del 20-12-2013)
Al termine di una di quelle lectio magistralis di d’Albergo (come quelle di Togliatti che Fortebraccio richiamava per spiegare perché non attaccava Andreotti, il quale diceva ai democristiani di non seguire la cattiva abitudine di uscire dall’aula quando parlava Togliatti: “restate e avrete la possibilità di apprendere una grande lezione di politica e di vera storia dell’Italia”), uno di quei cattolici democristiani, conosciuto per le sue doti di cultura sia generale che politica e di spiccata onestà politica e intellettuale, tale e raro esempio di cattolico-democristiano ci avvicinò, turbato da un interrogativo che aveva valenza riguardo la formazione della dirigenza di tutti i partiti, chiedendo a se stesso e a noi: “ma come è possibile che uno cosi non sia lui il segretario del partito? (che in quel momento era Occhetto)
In particolare, ma non soltanto, lo aveva colpito la straordinaria capacità di inquadrare ogni singolo fatto raccontato da testimoni nel contesto politico e nella prospettiva storica, supportando il tutto non con le parole ma con i fatti concreti, accertatati e, lì, irrefutabilmente testimoniati da uomini in carne ed ossa, mostrando il rapporto tra analisi storica e uomini, e tra teoria e prassi anche delle e nell’esperienza concreta e personale della base operaia e comunista.
Oltre degli studi interdisciplinari del liberalismo e del fascismo, poté avvalersi anche della grande scuola del partito di massa gramsciano, la scuola dove l’operaio e il militante di base diventavano ed erano intellettuali organici, cioè dotati di una preparazione teorica e culturale e quindi in grado di svolgere un’opera di elaborazione, di formazione culturale e di direzione politica: non si fatica a sapere e a credere che erano sopratutto questi “intellettuali”, operai armati di teoria e capacità di direzione, che interessavano e a cui guardava Salvatore d’Albergo, il quale non si peritava di sottoporre alla loro valutazione critica i testi – anche quelli di apporto teorico – che scriveva, prima di pubblicarli.
L’ intellettuale gramsciano: d’Albergo ispiratore di basi organizzative e militante organico al sociale-autonomomotore della storia
Ma tutto ciò non è sufficiente se non si considera e non si sa che era politicamente e culturalmente del tutto e assolutamente autonomo, in un fase in cui gli intellettuali, per malsane ambizioni, sono preferibilmente subalterni persino a quella che oggi è una politica culturalmente insignificante. Così che ogni loro azione o comportamento, anche nell’esprimere una critica, si mantiene sempre all’interno dell’opportunità politica, persino quando è necessario quanto meno specificare l’antinomia tra la corretta e coerente analisi culturale, e la prassi politica. Abdicano alla loro funzione pur di non superare mai i paletti prefissati dalla politica della classe dominante, a cui vogliono appartenere o apparire come parte di essa, anche a costo di mediare sui principi o persino subordinandoli alle necessità del politico del momento. E per quale motivo, poi, se non per restare nell’establishmentpolitico giornalistico, per la carriera e per quell’immarcescibile soggettivismo e narcisismo, che non ha mai nemmeno sfiorato Salvatore – alimentato dallo stesso giornalismo che è sempre e tutto di regime anche quando si qualifica come “alternativo” o millanta essere di “opposizione”?
Salvatore si stupiva del fatto che persino alcuni di coloro che considerava prestigiosi e degni di stima, si mettessero in gara solo per ottenere un “seggiolino” in un consiglio comunale. Non riusciva a spiegare una rinuncia alla propria funzione. Cosa comprensibile se si pensa che quando lo inserirono come Giudice del Tribunale dei ministri, ricordo l’affanno con cui si precipitò a trasmettere che non accettava, col timore che in pieno agosto il suo telegramma non arrivasse entro i tre giorni concessi per disdire.
Al di là dei suoi inarrivabili apporti teorici, che verranno messi in luce in altre occasioni, quel che urge maggiormente è celebrare quegli aspetti della sua personalità e autorevolezza, manifestatesi con la rara capacità di garantire unitarietà complessiva sia ad una tematizzazione politica-culturale che ad una realtà sociale-politica-economica assai articolate. Dagli anni in cui si elaborava e si organizzavano movimenti di base e di difesa della riforma sanitaria (Salvatore per altro venne consultato dalla senatoriale Commissione d’inchiesta sulla sanità), del diritto di sciopero, degli autoconvocati comunisti, ecc., agli anni di ricerche e pubblicazioni socio-culturali del Centro “Il lavoratore”, del Movimento di Rilancio dei valori sociali della Costituzione.
Insomma, per quel cinquantennio e oltre di contributi critici e pluridisciplinari in cui ha saputo non solo mettere a fuoco i temi tra loro collegati e collegabili alla irrisolta ed ora ulteriormente aggravata questione sociale e della socializzazione e democratizzazione dei poteri, ma agire in coerente rapporto tra teoria e prassi, intervenendo direttamente nell’attività politico culturale e partecipando personalmente all’attività di ogni movimento di lotta, nessuno escluso, soprattutto a quelli di base e dal basso e del movimento operaio politico e sindacale.
Agire e intervenire con teoria della prassi, per lo sviluppo di una democrazia reale, mantenendo sempre e costantemente – diversamente da tanti e troppi altri – una coerenza tra principi di liberazione ed emancipazione di masse di cittadini e di lavoratori, e strategie di lotta sociale e politica : per riaprire gli spazi di democrazia sociale, chiusi dai gruppi di potere oligopolistici che senza trovare più alcuna vera opposizione, tendono ad approfondire i solchi storici che emarginano e separano i gruppi sociali più sfruttati in una società ogni giorno più invivibile, dove, per dirla con una sua frase, “la tecnologia copre una nuova barbarie”.
E cosi, Lui, che si scherniva dicendo di essere incapace di dare valenza organizzativa a quanto riteneva indispensabile organizzare per una lotta pratica, in realtà ispirava elementi di coordinamento e di ordine intellettuale e morale tali da farli diventare basi organizzative concrete di azione vitali.
Nel solco del movimento operaio, del partito di massa e del marxismo politico-sociale
In tutto ciò, quindi, avverto il rischio che si dia di Salvatore un’immagine parziale, in parte distorta, quella da cui lui fuggiva sempre. Temo che anche noi (io intendo) abbiamo contribuito al rischio di ridurre l’opera e la personalità di Salvatore definendolo,acaldo e di getto appena ricevuta la notizia della sua morte, col dolore nel cuore più che con la mente, un “intellettuale organico gramsciano”.
Che certo è vero, ma che, nell’attuale e diffusa insignificanza della storia e della cultura anche più recente dell’Italia e ancor più della obliterata storia e cultura del movimento democratico e operaio di massa, che segna irreversibilmente anche il futuro, dice poco a chi non sa cosa significa intellettuale organico e ancor meno di tipo gramsciano.
Per individuare le caratteristiche di questa figura, occorre considerare come essa corrisponda ad un tipo di soggetto che non è pacificato con la realtà dominante, ma usa il pensiero e la scrittura non come rifugio e balsamo ma come un’arma che utilizza con rabbia e indignazione verso gli inganni e le ingiustizie di ogni specie, compresa quelle “naturali” che negli ultimi anni hanno colpito Salvatore.
Per questo scrivendo l’annuncio della scomparsa di Salvatore, abbiamo gridato come Tersite contro i “belli, ricchi, forti e sanguinari” saccheggiatori di città e comunità, che invece gli sopravvivono continuando a saccheggiare il residuo potere dei molti a favore dello sconfinato molto potere di pochi, continuando a lordarsi le mani del “sangue” dei più deboli, dei lavoratori, dei ceti popolari e dei più deboli, a cui Salvatore si sentiva ed era assolutamente “organico”. Ecco cosa significa la locuzione “intellettuale organico gramsciano”.
La visione processuale della storia e della teoria della prassi
Difficile da comprendere in una fase di rifiuto delle nozioni classiche di verità, oggettività, progresso e ragione, nonché di estremo relativismo culturaleparte integrante di una specie di senso comune e/o falsa coscienza, che danno l’ ILLUSIONE DI VIVERE IN UN’EPOCA SCEVRA DA OGNI ILLUSIONE. Una situazione diffusa che coinvolge in prima persona la crisi” dell’intellettuale”, epiteto ormai sgradito a loro stessi, perché considerato “sinonimo di astratto” dal sociale, dalla storia, dal mondo “reale”, in quanto, all’opposto di d’Albergo, hanno smarrito la nozione gramsciana dell’intellettuale . Cioè un soggetto che non pretende di fare la storia con la sua sola cultura, che non si distingue per il “parlare bene” o per la mera eloquenza, né tanto meno costituisce – come è nella tradizione borghese sino ad oggi ininterrotta – un ceto privilegiato ma un soggetto che lungi dal costituire una classe a parte, pone il suo sapere e le sue competenze al servizio del proletariato, legandosi organicamente ad esso e alla sua lotta.
Dato che i più hanno perso tale nozione, si è arrivati al punto che anche alcuni dei più bravi non riescono neppure a distinguere tra un intellettuale organico al proletariato, vale a dire al “terzo” tra il partito e sindacato, da un intellettuale borghese, ai pure considerato persona “rispettabile” e “amico” della “sinistra”.
Temo quindi il rischio che, malgrado o proprio per la stima e l’ammirazione per la sua immensa produzione ed opera intellettuale, per il suo irrefutabile apporto teorico nei più svariati campi del sapere e non solo del suo campo professionale, si trascuri involontariamente la sua specificità e in primis la sua umana pienezza, scevra e del tutto opposta ad ogni tipo di ipocrisia e di mediocrità, stupefacente per generosità, disponibilità, sensibilità e attenzione per ogni singola e qualsiasi persona (basti il solo esempio di quell’incredibile modo di fare con i bambini che da grandi li porta a ricordarsi di lui con un affetto tale e quale a quel che si porterebbe per il più caro dei genitori), per la perspicacia che gli permetteva di aiutare gli altri, capendo subito il bisogno e lo stato d’animo altrui persino prima e meglio di chi viveva quello stato.
Non sono certo che queste parole possano rendere l’immagine di un “uomo sociale a tutto tondo” qual’era Salvatore.
Il territorio come base della socialità e della democrazia
Non solo nel senso in cui ognuno è uomo sociale, forse più facile da spiegare con esempi anche se parziali… “Un grande Uomo, con la mente forse più grande che io abbia mai conosciuto, con la sua cultura, con la sua straordinaria capacità di analisi,la sua tenacia, la sua memoria, la sua umiltà coi deboli, la sua forza contro i potenti” (come scrive Arianna).
Un uomo sociale non solo nel senso dell’“io” individuale e sociale, tra loro inseparabili, ma nel senso di un “io” unitario, “soggettivamente” espresso e testimoniato con forza e coerenza specifica dal vissuto sociale in cui Salvatore era costantemente immerso: espressione, testimonianza nel solco della storia sociale del movimento operaio e democratico, che danno il senso di una sua intramontabile presenza. Intramontabile.
Non si può definire l’eccelsa personalità di Salvatore d’Albergo né apprendere il vero significato e contenuto di tutti i suoi apporti teorici se non lo si celebra come uomo della base sociale e uomo sociale a tutto tondo.
Per questo lo vediamo impegnato in molti più luoghi di quanto normalmente nelle sue biografie ci si ricorda di dire, sia in “alto”, sia nel territorio-sociale, luogo di “elezione” e unico luogo vero e possibile di inveramento e attuazione della democrazia: donde i suoi permanenti interventi sulla rivista della Lega dei Comuni e quella dell’ANCI (dove finalmente una volta, da consigliere comunale e provinciale, cominciai a trovare degli interventi che mi colpivano, a firma di uno per me sconosciuto Salvatore d’Albergo), analiticamente riferiti alla programmazione democratica dell’economia e quindi al ruolo e alle lotte delle forze sociali e di classe del territorio sia con i Piani d’impresa che in rapporto all’ente locale “soggetto della programmazione economica nazionale”. Storica questione su cui le forse conservatrici hanno “bloccato” l’attuazione della costituzione e impedito la riforma delle autonomie locali per tutti gli anni 60-70, sino a quando, il Pds che aveva “sostituito” il PCI, ha “mollato” tale principio costituzionale ed abbiamo avuto la famigerata “riforma” titolato al “Bassanini”.
In tale lotta per un stato delle autonomie e dell’ente locale come anello di base di una ascendente programmazione democratica dell’economia, nesso e prolungamento del controllo sociale dei piani d’impresa, lo troviamo impegnato sia in “alto”, anche nell’IRES nazionale CGIL, sia in “basso”. Ovunque lo chiamassero i consigli di zona, di fabbrica, o di quartiere d’Albergo c’era. Ovunque e in qualunque luogo del territorio-sociale della nazione, che assumeva, quasi come “una categoria teorica”, come luogo di elezione ed elaborazione della teoria e della forma di stato, della prassi di lotta politica e dell’elaborazione teorica e politica sia generale sia della teoria marxista dello stato.
Da grande conoscitore di Gramsci, forse il più approfondito conoscitore dell’interezza del pensiero di Gramsci – che altri conoscono prevalentemente per le categorie più conosciute e spesso più ripetute che applicate – e convinto assertore della validità della togliattiana strategia delle riforme di struttura – donde le lotte e gli scioperi per le riforme di struttura negli anni 70 – e di transizione democratica al socialismo: quella tanto temuta dai poteri capitalistici “forti”, al punto che dalla Trilateral capitalistica, tra cui Kissinger, all’ambasciatore USA in Italia, a Licio Gelli, denunciarono allarmati che “in Italia i comunisti stanno vincendo con la democrazia”.
Impegnato ad approfondire i temi economici e del potere privato e pubblico, del capitalismo di stato del diritto pubblico economico – ecco un’altra specificità/diversità di Salvatore – come nessun altro degli specialisti delle varie discipline e dei tanti “costituzionalisti e o giuristi, Salvatore ha saputo contribuire, sempre in rapporto ai lavoratori, al pluralismo e alla dialettica lotta tra le classi, finanche legittimata dalla Costituzione, a una visione in cui lo stato è una forma espressiva e storica della questione sociale.
Il rischio di darne un’immagine riduttiva
Chi si ricorda di tutto quello che è stato l’essenza dell’opera di d’Albergo e della sua personalità eccelsa? Temo gli si faccia torto se lo si fa passare e lo si riduce a costituzionalista, docente, giurista o anche solo “intellettuale”.
Allora lo diciamo brutalmente, cosi che nessuno si sogni di fare di D’Albergo uno da ricordare solo sulle riviste giuridiche, solo perché era anche docente ed aveva studiato e insegnato diritto pubblico e costituzionale, né che gli intellettualucoli lo riducano ad intellettualucolo come loro, perché D’Albergo era oltre che un gigante del pensiero rispetto a loro e superiore a tanti altri, viveva e interpretava la sua funzione e tutta la sua vita in modo esattamente opposto ai c.d. “intellettuali” e di come sono intesi e percepiti, specie da lavoratori e popolo.
D’Albergo non osservava la realtà da dietro una scrivania e non saliva sugli spalti ad osservare una realtà distorta a causa del punto di vista dall’alto. Lui stava in basso, nel sociale-territoriale (termine che non si stancava di ripetere da quando l’ho conosciuto e in tutti i 36 anni in cui abbiamo lavorato e lottato), che era il suo luogo di vita, di lotta e di studio, così come lo è per il soggetto sociale generale, la classe operaia e i lavoratori del movimento operaio in cui era immerso fino al collo ogni ora e ogni giorno.
Si che il sociale-territoriale era anche il luogo da cui prendeva il via la sua analisi e la sua riflessione teorica, mai una riflessione astratta e fine a se stessa e mai finalizzata alla conquista di una qualche notorietà, che se avesse voluto seguire le strade solite dell’intellettuale, del giurista l’avrebbe e con facilità ottenuta sovrastando tutti.
Proprio dei giuristi, negli ultimi giorni di lotta contro la malattia condotta sempre nella più piena lucidità, lo straordinario acumee produttività intellettuali, propri della sua immensa cultura ed immensa esperienza sociale e di massa, mi diceva: “sono degli analfabeti, perché rincorrono il principio del ricorso e di attendere le sentenze, credono che il diritto sia sanzione, e invece è potere, e senza sapere che anche la Corte, diversamente dalla Cassazione (e guarda caso il giorno dopo il nostro articolo sul Manifesto, c’era un intervento di un cassazionista che riprendeva persino nel titolo “Il vero significato dell’art. 18”)è politica anch’essa e annulla in realtà l’autonomia della giurisdizione, tanto che non riescono a trovare la soluzione politica per i giudici da eleggere in Parlamento, “col rischio che ancora peggio di Violante passi un Barbera o un Ceccanti”.
Contro la separatezza della cultura giuridica, ancella del fascismo. Il diritto come strumento di lotta di classe
Salvatore la realtà preferiva viverla, immergendosi nel sociale fianco a fianco dei lavoratori e del movimento democratico e sociale, nel territorio-sociale, l’unico luogo della gente, l’unico dove si può fare e può esistere la democrazia.
Così polemizzò duramente contro l’elezione diretta dei sindaci, anche con Novelli che in conferenza, a Varese, venne a dirci di essere “favorevole perché il Comune è come una azienda”, similmente ad un Renzi che oggi definisce il Partito “una Ditta”. L’Ente locale territoriale è l’unico luogo esclusivamente sociale, essendo ogni altro luogo solo un’astrazione puramente terminologica come’è il c.d. “nazionale”. Perché la gente non vive e lavora per aria nel “nazionale”, ma in terra, nel territorio-sociale, centro di lotta e termine continuamente citato e onnipresente degli anni 69 e 70, come ripeteva sempre D’Albergo. Da li risalendo poi e sempre alla questione generale e del potere.
Quindi è un’ideologica astrazione un “interesse nazionale” separato o persino contrapposto a quello territoriale-sociale. “Interesse nazionale” appellato e contenuto nella Carta del lavoro fascista del 1927 (che d’Albergo conosceva a menadito) , che si rivaluta oggi con l’attacco al 18, con terminologia “nazionale” di stato e di partito, che mutatis mutandis è la stessa a cui si appellava il mussolinismo per sostenere la superiorità di tale interesse rispetto alla differenze e contrasti di classe. Quindi strumento dell’interclassismo base e forma dell’autoritarismo, del “governar decretando”; e in più nell’”interesse nazionale”, c’è una legge delega, che d’Albergo considerava peggio di un decreto, in quanto con essa, si induce il Parlamento ad auto-espropriarsi delle propria funzione e del proprio potere legislativo, delegandoli ai decreti di quel che è un esecutivo: cioè ai decreti del governo che, non contento dell’auto espropriazione del Parlamento, mette la “fiducia” per ottenere un’incostituzionale delega in bianco. Motivando anche questo, appunto, con “l’interesse nazionale” di dimostrare alla riunione della burocrazia sovranazionale europea che il governo sta davvero facendo “i compiti a casa” assegnati dal luogo centrale della burocrazia capitalistica, sovrastata e dominata dall’interesse nazionale di altri paesi.
In tal modo, con un “interesse nazionale” prono al nazionale-sovranazionale di altri, si vuole e ci si prepara a veleggiare verso “La seconda Carta del lavoro” fascista l 1927 , che viene rivalutata con l’intento di riscrivere lo Statuto dei lavoratori, come enunciato col solito estremismo ideologico del “capo” di governo, che prepara il “secondo regime del capo di governo” della storia d’Italia.
“Saccheggiando” la democrazia, anche nella sua forma minima dell’eleggibilità delle Assemblee, il sistema sociale e non solo quello politico, nato dalla Resistenza:
“abolendo strumenti vincolanti – virgoletto parole e concetti espressi da Salvatore – volti a fronteggiare il dispotismo delle imprese, ansiose di decidere in via esclusiva sulla vita dei lavoratori nonostante l’art. 1 e l’art 4 della Costituzione, che qualificano la Repubblica in nome del lavoro.
Intendendo casi dare – oltre che con la pubblicizzazione del privato – nuovo rilievo al Codice civile, che ha preceduto la Costituzione, sottolineando l’ordinamento corporativo fascista, in cui e in base al quale il lavoro dipendente deve collaborare col padronato – in nome del superiore “interesse nazionale”. E questo il senso della parole della bozza completata con d’Albergo, e che ora è nelle mani di Cremaschi e di Agostinelli, dopo aver concordato col primo, l’idea di un testo da rivolgere a magistrati, senatori e a tutti quanti, in cui vari “sottoscritti” avrebbero insistito nel “sostenere il vero significato dell’art 18”.
Quando. di tale intento, informai D’Albergo, erano le 7 di sera e sapendo la fatica che gli costava stare e parlare al telefono, gli proposi di risentirci il mattino successivo. Lui mi rispose: “no, no, facciamolo subito; e come sempre la sua macchina culturale e politica, di ogni scienza e onniscienza, il suo straordinario e ineguagliabile cervello – dono ma anche frutto di applicazione, di lunga e sviluppata militanza ed esperienza nel movimento operaio – cominciò a sfornare, tramite la bocca e seppure a fatica, parole e concetti a getto continuo…
Ma cosi era con tutti e da sempre. Come se avesse in testa una biblioteca di tutte le scienze umane e tecniche; non la biblioteca di un solo scaffale come è quella di tutti gli attuali intellettuali, filosofi, sociologici, economisti, storici, costituzionalisti, giuristi e docenti. Ad es. quelli che separano la proprietà dall’impresa e dal profitto, come Rodotà, in forza della parcellizzazione delle cattedre e della separazione tra diritto civile e diritto commerciale, dividendo la proprietà fondiaria dall’impresa, in omissione del fatto che il capitale non è più solo quello “immobile” ma ormai e soprattutto “capitale mobile” – e questo viene ignorato proprio da coloro che in tutti questi 30 anni hanno enfatizzato la globalizzazione e la c.d. “mobilità dei capitali”. Non sanno che già Gramsci ne parlava a iosa nei Quaderni: senza che questo invalidasse – agli occhi di Gramsci – la marxiana teoria dello stato e teoria della prassi come hanno invece ritenuto tali suddetti intellettuali di ogni specie.
Salvatore era capace di unire l’unitarietà propria della persona con l’unitarietà complessiva delle tematizzazioni e delle questioni poste dalla vita e dall’esistenza degli uomini. Sicché, contemporaneamente, l’umana sensibilità e generosità si traducevano sia nella prassi che nella riflessione teorica: ovvero in vera lotta che per essere tale deve essere sia lotta pratica che teorica, divenendo battaglia (sostenuta da ricerche, riflessioni teoriche e dibattiti culturali di massa), condotta da lui con noi, nella scuola e verso l’ente locale, al quale presentai proposta di delibera seguendo l’iter istituzionale ma sostenuto anche da cortei di genitori e bambini, come lo “sciopero del panino” dei ragazzi durante l’intervallo, affinché l’ente locale riconoscesse “il bambino come soggetto di diritto”, non più oggetto di delibere e comportamenti che ignorando “il bambino soggetto di diritto”, guardavano al bilancio. Con Salvatore si è così pervenuti ad identificarlo “nuovo soggetto sociale generale” (“soggetto sociale generale”,più generale anche del movimento femminile), partendo dalla realtà pratica ad una definizione anche sul piano teorico, usando la Costituzione e mettendo in mora di Codice civile che considera i soggetti solo dal punto di vista della proprietà, secondo cui i bambini non sono “persone di diritto” perché non possiedono nessuna proprietà. Il bambino è il soggetto generale più debole di tutti, privo di qualsiasi potere: per cui coinvolgemmo tutti, compresi i rappresentanti dell’ONU, facendo valere anche nel campo delle separazioni genitoriali il diritto pubblico e costituzionale trascurato da avvocati e giudici, che si riferivano esclusivamente al diritto civile-familiare, senza interpretarlo alla luce dei principi costituzionali.
Questione sociale vs modernizzazione
Temo una stortura riduzionista della figura e dell’opera di Salvatore d’Albergo, della sua personalità eccelsa destinata a lasciare un’impronta indelebile soprattutto per quel tipo d’impegno – testimoniato fino all’ultimo giorno e in lotta costante e da anni con la malattia del corpo – dai suoi interventi nei dibattiti politico-culturali, compresi i continui e ininterrotti scambi con chi tra noi ha avuto la fortunata ventura di rapporti consuetudinari, chi più remoti o come noi dal 1978 e chi da dopo ma comunque pluridecennali. Piegava la malattia al suo voler continuare ad agire e ad intervenire con i suoi irrefutabili e inarrivabili contributi critici che – vogliamo dirlo?- erano e sono assolutamente unici nel panorama politico e culturale e, anzi, vogliamo aggiungere, anche nel panorama morale di un Paese, dove anche coloro che dovevano essere gli anticorpi di ogni ritorno alla pre-moderna concezione della proprietà d’impresa, come potere esclusivo, vale a dire un “potere senza legge” e “assoluto” (che vigeva da ultimo anche nella fase fascista corporativa), cedono oggi, immoralmente e politicamente, al conservatorismo reazionariodel potere d’impresa interpretato e rappresentato, interpretato e riassunto nel virulento estremismo ideologico proprio della tradizione italica imperniato sull’esaltazione del “regime del capo di governo”.
Contributi tali da stagliarsi e svettare sopra tutti gli altri che, invece, hanno reso la cultura italiana infatuata di enfasi retorica e affatto scientifica sulla c.d. globalizzazione e ancor più sulla c.d. “modernizzazione” .
Solo ora alcuni, forse, si rendono conto di quanto sia stato grave l’imput da loro dato a tale c.d. “modernizzazione” e conseguentemente alla deriva della democrazia: alzi la mano chi di questi può dire – come invece può dire Salvatore d’Albergo – di non aver negli ultimi trent’anni mai congiurato contro la Costituzione, svilendo il loro ruolo a quello di “manovali” della c.d. “ingegneria istituzionale” (già di per sé contraria alla Costituzione, che non è opera di giuristi ne tanto meno di “operatori” e “ingegneri” dell’ideologia giuridicista) per spezzare la dialettica tra i principi della democrazia formale e della democrazia sostanziale su cui è stata edificata la “Repubblica democratica fondata sul lavoro” e sulla sovranità popolare, in contrapposizione al primato dell’impresa. Senza nemmeno la consapevolezza che anche la questione dello stato altro non è che la forma storico/istituzionale nazionale, sempre più internazionalizzata ovvero “sovranazionalizzata”, della questione sociale.
I Piani d’impresa e la strategia del movimento operaio
Chi si ricorda dei Piani d’impresa? Bene ha fatto e ringrazio Vanacore per averlo ricordato, di cui ad es. in quel di Reggio Emilia, si pervenne ad un approfondito confronto tra Salvatore d’Albergo e Piero Ingrao, pubblicato anche in un volume a loro nome.
Chi si ricorda del Dpr sui Piani industrialidi settore? Quando ci incontrammo con D’Albergo, mentre dalla segreteria del PCI lombardo, senza il sostegno degli altri segretari ma solo con quello di sindacalisti come Pizzinato, Lucchesi, Fenzio ecc., ero in conflitto (come risulta anche dal Sole 24 ore che ci sollecitava ad esprimerci con interviste e articoli) con chi dal nazionale e dal Parlamento sostenevano acriticamente il Dpr sui piani industriali di settore, come Napoleone Colajanni, Margheri e Massimo Cacciari (principale responsabile di quel che oggi tutti vedono essere il disastro di Priolo in Sicilia), temi su cui Salvatore era immerso.
Di lui, per spiegarlo ad altri, Tiziano Rinaldini disse: “é il braccio e la mente di Ingrao, senza il quale lo stesso Ingrao non saprebbe dare credibilità operativa a quel che sostiene”. Ad es. in Masse e Potere Salvatore credeva molto mentre Ingrao sempre meno, fino a quello che poi per d’Albergo fu la goccia che fece traboccare il vaso. Salvatore era in contrasto con Trentin sui Piani d’impresa e specie sui c.d. “diritti di informazione” (che per il modo come vennero interpretati diversamente dagli anni 70, furono un inizio di un indebolimento prima, e di cedimento poi, del sindacato e infine dello sbragamento dello stesso Trentin, da cui riemerse evidentemente la sua radice azionista), allora Ingrao gli disse “vieni che andiamo a cena con Trentin e superiamo il contrasto”: d’Albergo lo salutò (o forse lo mando a quel Paese) e si diresse nella direzione opposta a quella del luogo di incontro e di “tarallucci e vino”. Indicativo nel contempo della forza e rigore sia intellettuale che morale, di uomo che non si può ne allettare ne tanto meno comprare.
Nel pieno della battaglia sui piani industriali di settore, quindi delle riforme strutturali che negli anni 70 siamo riusciti ad ottenere con le grandi lotte operaie e di massa, quelli che Salvatore chiamava “spezzoni” e Berlinguer “primi elementi di socialismo”, mentre contemporaneamente,con le aree metropolitane e i Comprensori si sovvertiva il ruolo e la funzione della autonomie locali, delle provincie e delle Regioni come soggetti della programmazione economica democratica e nazionale dal “basso”, ci si incontrò e da quel 1978 Salvatore divenne quotidianamente parte attiva delle lotte del movimento operaio e sindacale lombardo e milanese. Quotidianamente, ripeto.
Dopo anni di cui non ne parlavamo, Salvatore proprio 5 o 6 giorni prima della morte, cominciò a ricordarlo e a ricordare come e quando ci eravamo incontrati nel 1978. Correggendo un poco il mio ricordo, mi ha rammentato il nostro incontro per merito di un uomo di Cervetti (poi divenuto pure segretario di Occhetto) che si rivolse a D’Albergo dicendogli di stare alla larga da me perché “pericoloso e terribile”; cosa – anche questa credo significativa – che invece e all’opposto lo spinse a cercarmi. Circostanza, che testimonia anch’essa la sua “diversità”.
Fino alla fine, sempre!
Negli ultimi dieci giorni, superava la barriera del dolore e della difficoltà di parlare, telefonandomi direttamente – e credo facesse altrettanto con altri – quasi come un segno, per ricordare e parlare e suggerire. Tra le altre cose, tre giorni prima della morte, mi disse: ” bisogna e basterebbe che tu gli mandi le copertine dei libri su quello che si fece prima e durante il Centro Lavoratore”.
Ma, gli risposi, già tutti hanno tutto. Lui di rimando, insisteva: “si ma non se ne ricordano”: e poi molti sono arrivati dopo i lavori e le lotte che abbiamo fatto sulla programmazione economica su enti locali e istituzioni come soggetti nazionali della programmazione, e dopo i primi Quaderni del Centro Il Lavoratore. E poi, aggiunse, “bisognerebbe che su due colonne, fianco a fianco, si metta il documento-manuale di difesa della Costituzione – scritto lui e che, diciamolo, è il miglior testo che sia stato scritto sulla Costituzione, sia per rigore scientifico e dell’analisi che per la forma divulgativa – e sull’altra colonna, parallelamente il testo del primo volume del Centro, quanto più possibile o almeno la Relazione che contiene i riferimenti al documento fondativo del Movimento di Rilancio della Costituzione.
d’Albergo e Pirola
L’ira, non certo funesta come quella di Achille, ma vera, rabbiosa in quanto sincera, con cui abbiamo scritto col dolore nel cuore è quella stessa che provammo per la morte di papà e familiari, e di quando è morto Pirola. Mi capita spesso di associare D’Albergo e Pirola, perché loro stessi si erano associati da quando li feci incontrare nel 1978. In quel centro mondiale di incontri culturali che era allora l’Istituto filosofico Aloisianum, in quel di Gallarate (si che il figlio Ernesto d’Albergo nel ricordare il padre ha citato “il suo singolare interesse e studio delle religioni”), e negli anni 2000 durante la direzione di F. Società di Pirola. Nel 1978 insieme stendemmo un programma dopo il confronto con Bobbio e aver dimostrato a questo che – anche secondo la lezione di Santi Romano – anche una teoria politica e una teoria sociale sono teorie giuridiche, tanto che da esse, e non da teorie “giuridiche-giuridiciste”, è nata la Costituzione. Al che Bobbio non ebbe più spazio per negare l’esistenza della teoria marxista dello stato – sicché dopo aver svolto considerazioni critiche sul centrosinistra gestito dal Cardinal Ruini tramite Prodi,Pirola mi scriveva :
“Ma dove sono ormai i marxisti meglio i marxiani, con cui ho lavorato una vita? Figure esemplari di uomini tanto onesti quanto poveri per sobrietà di vita…Sono diventati tutti.. cardinali.. Sedie e non idee proprie e critiche. Il programma di destra ve lo facciamo noi, i prodi di… Prodi. Che compagnia né di Gesù, né di Marx... Ma noi non molliamo, vero? Continua a tenere duro. Ciao e buon lavoro e buon Anno. Giuseppe Pirola”.
Gli risposi: “uno però di quei marxisti onesti e sobri che cerchi lo hai trovato e lavori con lui come hai lavorato una vita…..”. Mi rispose, “E vero, si, ma d’Albergo e l’unica eccezione…e come sai l’“eccezionale”, come d’Albergo, conferma la regola…purtroppo”.
Del resto (questo non l’ho mai detto, ma posso ora che sono morti entrambi i protagonisti che lo sapevano bene) quando prese la direzione di Fenomenologia Società, precedentemente involutasi in “filosofia astratta” (“eppure è una rivista di “Filosofia” e “società” , diceva), Pirola mi chiese se noi del “Lavoratore” potevamo dare una mano alla rivista, non per escludere alcun che, né altri, ma per ampliare lo spettro delle tematizzazioni, nel pluralismo delle posizioni includendo anche quelle di cultura marxista sin li marginalizzata, nella pluridisciplinare produzione dell’attività della rivista. Iniziammo organizzando un seminario come Centro Il Lavoratore e Fenomenologia e Società presso la sede della rivista in Piazza San Fedele. E’ cosi che riprese a lavorare con d’Albergo dopo gli anni in cui Pirola era stato in varie parti del mondo, con l’apporto anche di Vittorio Gioiello e poi anche mio.
Ma questo fa parte di quanto è giusto valorizzare di d’Albergo, ma che non deve essere ridotto a questo che non basta per dire chi era davvero.
Il bivio. Rifiuto del professionismo accademico e della frantumazione dei saperi
Salvatore e Gino Giugni erano stretti amici, anche di famiglia, se non ricordo male:
Giugni gli telefonò dicendo: “Sto uscendo di casa per andare a iscrivermi al partito socialista, vieni anche tu? Guarda, sto uscendo anch’io, per andare ad iscrivermi al Partito Comunista” . E da allora tra loro, praticamente, si ruppe ogni rapporto.
Il bivio. D’albergo, ripudia la strada della professione e dell’intellettuale come classe o ceto a se stante, sceglie la strada della militanza e di mettere la scienza e il suo sapere al servizio del movimento operaio, della classe e dei comunisti del partito di Gramsci e di Togliatti, che con la sua elaborazione strategica è stato quello che ha convinto d’Albergo che quel che raccontavano i comunisti non erano solo cose belle ma che si potevano realizzare tramite quella strategia, il punto centrale che vale per noi tutti oggi: non basta dire ma occorre indicare e mostrare la strategia e i mezzi credibili a realizzare i fini conclamati.
E il “non capire” questo da parte della sinistra politica e sindacale, è stato il cruccio di d’Albergo da quando il movimento operaio, politico e sindacale e la “sinistra” hanno abbandonato la strategia delle riforme sociali; di democratizzazione e socializzazione dell’economia e dello stato; del controllo politico e sociale dei Piani d’impresa, in una parola: della programmazione democratica dell’economia, per attuare la democrazia-sociale prefigurata dalla Costituzione, nella convergenza politico-culturale di cattolici sociali e comunisti, di Dossetti con Togliatti e nella divergenza di essi e dall’intera Assemblea costituente da Calamandrei e dei suoi del Partito d’Azione (Ciampi, Bobbio, La Malfa, ecc). Calamandrei generò l’ilarità dell’assemblea dicendo di non capire cosa significasse interesse sociale e controllo sociale dell’impresa e rimase il solo a sostenere il presidenzialismo. Eppure, nonostante questa assodata verità storica, il Fatto e il Manifesto e gli “intellettuali” e “giuristi” di professione che li scrivono, indicano proprio lui, l’unico, vero e grande sconfitto della Costituente, come “padre” della Costituzione: non ci si può poi tanto meravigliare se – come ci è stato “messaggiato” – “il Manifesto con tale Fabozzi plaude ad un Zanonma non ricorda né pubblica ricordi su S. d’Albergo” .
Salvatore scelse di non appartenere all’establishment e tanto meno agli apparatnichik di partito e sindacato, del giornalismo e del giuridicismo: la libertà non si compra mai ma si paga sempre.
Pienamente consapevole di questo, d’Albergo rinuncia coscientemente a seguire il percorso tradizionale del professore, del docente, dello studioso di diritto amministrativo e diritto pubblico economico, del costituzionalista, malgrado fosse destinato a primeggiare tra coloro che sono diventati quelli che il fascismo chiamava “giuristi di chiara fama”, quelli che stanno sui giornali, senza vergogna di pagare per questo con la rinuncia al rigore di scienza e coscienza.
Può dirsi, questo, simbolicamente, il bivio di chi era destinato ad una brillante carriera di intellettuale, giurista e costituzionalista, il quale inizia viceversa un percorso di avvicinamento alla classe operaia, fino a fondersi con essa nella forma di intellettuale organico (alla classe operaia appunto), nel classico senso marxiano e comunista, e nella forma di lotta vera. Che per essere tale deve essere sia lotta pratica che lotta teorica contro la borghesia e quindi contro anche la sua cultura giuridica del diritto, dello stato e della Costituzione: lotta e pratica sociale e lotta teorica. Se si scinde – non certo per cattiveria ma per generosità e per onorare quella che è la sua grandezza anche di eccelso teorico – gli si fa torto, un grande torto, a Salvatore D’Albergo.
Inquadrare la personalità e il ruolo politico-culturale svolto nella storia del Paese
Per adeguatamente inquadrare la sua personalità e il ruolo che esso ha svolto nella storia politica e sociale del nostro Paese, occorre tenere fermi almeno due aspetti di fondo, tra cui il ruolo da lui assegnato alla analisi storica e quindi al “processo”, alla concezione processuale della storia (“in fondo la parola chiave del marxismo è “processo” e processualità”, diceva, quindi storia e processualità della storia) e al suo essere uomo sociale a tutto tondo.
Lui per primo interpretando e traducendo in fatto e in azione, la grande rivoluzione delle scienze sociali più grande di quella delle scienze tecniche, di cui certo si avvaleva, ma nella pienezza dell’unità della scienze e delle due culture, sociale e tecnica e quindi anche quella che in senso tradizionale si definisce “giuridica”. La cultura giuridica per lui non era semplicemente giuridica, ma un aspetto della teoria della prassi, e dello sviluppo del processo storico-sociale e della capacità delle masse di inventare forme di lotta e di organizzazione, che dessero, come è stato, significato e forma al diritto.
Lo stato e le forme istituzionali altro non sono che le forme storiche o storicizzate della questione sociale, sia nazionale che internazionalizzata.
Nell’immenso dolore ci appare ancora e ben più immensa la sfortuna di chi non ha potuto conoscerlo o di chi l’ha conosciuto e stimato ma solo per una qualche parte della sua personalità e attività e produzione pluridisciplinare.
O di chi lo conosceva solo per uno o per alcuni aspetti della sua personalità eccelsa destinata a lasciare una impronte indelebile.
Quindi non solo – è bene dirlo forte – per i contributi teorici unici, nel panorama della cultura italiana: non solo della cultura costituzionale, istituzionale e del diritto i cui veri “protagonisti” e “giuristi” sono i soggetti reali (non i giuristi), cioè sociali-politici come la democrazia è sociale-politica-economica o non è affatto democrazia), nel panorama della cultura democratica e della cultura sociale che lo metteva in grado di “insegnare” ai giuristi e agli intellettuali e di discutere alla pari con loro come con le dirigenze sindacali e politiche dei lavoratori, con maggiore competenza di loro stessi, con più consapevolezza culturale e sociale del loro ruolo e della loro funzione, specie e sopratutto perché, più di loro stessi, dotato di quella coscienza politica che – come rende chiunque – rendeva lui più cosciente di loro, del ruolo e della funzione della classe operaia, dei lavoratori, coi quali lui si poneva alla pari.
Animatore delle assemblee operaie plaudenti e acclamanti durante i suoi interventi
Non si è conosciuto e non si sa chi era veramente d’Albergo se, ad esempio, non lo si è visto mettere in pratica, durante incontri, assemblee, conferenze di ogni tipo, qualunque fosse il tema, la forza della sua plurisciplinarietà e onestà del suo pensiero e del sue essere persona sociale a tutto tondo (questo ci preme che si ricordi).
Se non si considera o non si é mai visto in una grande fabbrica, una grande mensa assiepata di lavoratori, o all’interno del Teatro Lirico di Milano, stipato di lavoratori convocati dal sindacato, tutti in piedi ad applaudirlo come ad acclamarlo. O – come Andrea Catone ha constatato avvenire in altre parti d’Italia – assemblee sin lì smorte o semi morte, ravvivarsi, accendersi, anzi, incendiarsi improvvisamente da quando Salvatore iniziava a quando finiva di parlare. E poi dopo con la fila di lavoratori che lo cercavano e lo circondavano come per ringraziarlo di aver affermato, con la sua mai retorica, anzi concettuale analisi e la sua vis polemica, quello che loro stessi volevano dire, anzi gridare; e che già avevano espresso la loro partecipazione e vicinanza – in modo del tutto opposto a quanto riservato agli interventi dei dirigenti, che Salvatore non temeva di denunciare con costrutto sostanzioso e ragionato anche quando era veemente –, non solo applaudendo, ma alzandosi in piedi e, col braccio teso e il pungo chiuso, durante al termine dell’intervento di d’Albergo: accompagnavano ogni sua parola, ogni sua frase, come se in quel momento non fosse lui ma loro stessi a parlare.
Già con la sua sola presenza e ancor più quando superava gli ostacoli delle dirigenze che cercavano di impedirgli di parlare, marginalizzava e talvolta ridicolizzava – in senso culturale e politico – non per scelta sua ma tramite il comportamento oggettiva della platee le dirigenze tipizzate del tipo di quelle di Vendola o di Bertinotti. Cito quest’ultimo perché, oltre ad essere, per cosi dire, un simbolo dell’analfabetismo politico e dell’attuale insignificanza culturale di certo sindacalismo, mi viene alla mente quel che di lui disse Pirola: “mentre riprendevo l’abbandonato tema della democrazia in fabbrica, si sporgeva e mi guardava come fossi un marziano, chiedendo agli altri della presidenza ‘ma chi è questo qui e da dove viene?”
Lo stesso che quando era segretario della CGIL nazionale , venne nel salone della CGIL Lombardia a sostenere la trasformazione della USL in aziende, dando ragione all’altro segretario nazionale della CGIL, Cazzola – che Salvatore aveva identificato “di destra” ben prima di quando passò a Forza Italia, come tanti altri di sinistra, in quanto con Salvatore andavamo sempre alla “radice” dei connotati culturali e teorici cogliendone la “nascosta” matrice di destra – che con nome e cognome, su Rassegna Sindacale, ci aveva attaccato dicendo che eravamo “bulgari”. Questo perché come responsabile della CGIL Lombardia e con d’Albergo – che era di casa con noi, con i lavoratori e il sindacato di Milano e della Lombardia – difendevamo la riforma sanitaria e le USL: organismi che i testi dell’ideologia giuridica non prevedevano, si che gli insigni giuristi non sapevano come collocarle, perché per loro una cosa o è un Ente o è un’Azienda, in quanto come anche per Bobbio, sarebbe “giuridico” solo ciò che si trova scritto nei testi dell’ideologia giuridica borghese che ha fondato lo stato liberale e con esso anche lo statalismo.
Quel modo di rapportarsi alla socialità nella conoscenza della storia per capire e lottare
Certo Salvatore si è risparmiato lo scempio e la gravità di quanto sta avvenendo, su cui sarebbe certamente intervenuto anche perché, come scrisse l’economista J. Halevy, che insegna in Australia e in altri Paesi: un giorno che arrivò in Italia dall’estero dove insegna, “non conosco altri cosi tanto e coerentemente impegnati come voi a difendere la democrazia”; e in altra mail scrisse: “stimo moltissimo e come nessun altro Salvatore d’Albergo”. Aggiungendo che nel suo breve ritorno l’atmosfera politica dell’Italia gli ricordava “la Francia reazionaria e conservatrice degli anni 1930”.
Di rimando gli dissi “atmosfera quale quella de ‘Il cavallo di Troia’ di Paul Nizan”: ma in questo momento, se d’Albergo fosse qui ora, sarebbe d’accordo nel dire “che come oggi doveva essere stato negli anni 20 in Italia, anzi peggio perché allora c’era il PCI e con esso una prospettiva” .
Sicché, dopo la pubblicazione, tre giorni prima della morte, dell’articolo “L’impresa, il lavoro e il cuneo dell’art. 18” (Il Manifesto 1 ottobre), aveva deciso di mettersi nelle mani di specialisti per preparare il malandato corpo a sostenere l’impegno per proseguire la lotta e illuminarci con qualche altro dei sui scritti, che possono cosi definirsi anche “luminosi”, ricordandoci, come già ci disse per la “revisione costituzionale” e poi per l’art.18, “che la strada è ancora lunga, mentre la si da scontatamente per già finita”.
Egli osservava infatti come,“Al di là delle incertezze e dei funambolismi delle centrali sindacali esitanti a far valere la linea politica culturale delle masse dei lavoratori, esistono gruppi combattivi che non si arrendono e non si limitano ad una difesa di facciata e corporativa dell’art. 18, ma sono consapevoli del salto di qualità verificatosi nel passaggio dagli anni 60-70 mediante il rafforzamento garantista della posizione dei lavoratori in fabbrica tramite il ruolo assegnato alla magistratura come potere statale, autonomo e interdipendente…e che non smetteranno pertanto di battersi per ribadire e mantenere la svolta politica e culturale rappresentata in Italia dall’obbligo di reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa e abbandonati alla mercé del padronato e della dirigenza burocratica d’impresa….”
Sono le ultime parole udite e concordate telefonicamente con Salvatore, alle 7 di sera (dopo avergli comunicato la disponibilità a fare questo da parte di alcuni soggetti e sindacalisti che avevano letto e condividevano il nostro intervento sul Manifesto), per mettere a punto un documento da sottoscrivere per continuare ad insistere nel mantenere gli strumenti vincolanti contro il dispotismo del padronato d’impresa….”. perché, ribadiamo “quella delle ‘revisione’ costituzionale e dell’abrogazione del 18 è una strada ancora lunga e si deve darla per scontata e già finita…”.
Angelo Ruggeri