Lia Celi
Tutti gli scivoloni del ministro, compreso l’ultimo Ritorno al futuro in costume quattrocentesco, più che a una cultura abborracciata sono dovuti a un eccesso di presunzione, favorito dalla sicurezza che tanto da quella poltrona non lo smuove nessuno. E il pensiero corre spontaneo alla poesia Fine dicitore di Antonio de Curtis.
C’è qualcosa di magico, di emozionante, nell’ascoltare in diretta uno svarione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Per carità, è divertente anche leggerlo riportato dai giornali e, quasi in contemporanea, dileggiato e parodiato dal coro dei social, ma fra le due esperienze c’è la stessa differenza che passa tra il frutto maturo spiccato dall’albero ancora caldo di sole, e quello freddo e praticamente inodore che compriamo al supermercato. Domenica ho potuto cogliere l’ultima gaffe del successore di Franceschini nello stesso momento in cui usciva dalle sue labbra, grazie alla diretta della sempre benemerita Radio Radicale da Taobuk. Per ravvivare una pigra giornata di fine giugno non c’è lotta fra un audiolibro o un podcast e un incontro con Gennaro Sangiuliano su “Identità italiana, identità culturale“, tutti elementi che insieme a un ego di almeno due taglie più grande del suo proprietario promettono all’uditorio qualche momento di acidulo buonumore e un paio di castronerie più o meno spettacolari.
Il crescendo di Sangiuliano: dalla ‘nazione’ di Leopardi al granchio sull’origine di “radical chic”
L’esordio era stato incoraggiante, con una citazione spericolata della poesia All’Italia di Leopardi, che, secondo il ministro, col verso «Italia mia, vedo le mura e gli archi» faceva coincidere la «nazione» (guai a chiamarla Paese) con il suo patrimonio storico e culturale, mentre in realtà il poeta stava tirando le orecchie a una patria con tanti bei ruderi ma inerte e imbelle nel presente. Poco più avanti ecco un primo significativo granchietto: Sangiuliano ha attribuito giustamente a Tom Wolfe l’invenzione del termine “radical chic”, ma l’ha collocata nel romanzo Il falò delle vanità, del 1987, anziché nell’articolo apparso sul New York Magazine nel giugno 1970 sul famoso ricevimento pro-Pantere nere a casa di Leonard Bernstein. Un quiproquo veniale, reso fastidioso soprattutto dal tono perentorio e polemico tipico dell’uomo, che quando si tratta di mordere al polpaccio la sinistra non perde tempo a controllare le fonti. Del resto per Sangiuliano il tempo non è una quantità misurabile, ma una distensio animae personale e politica, come ha confermato rinfacciando al Pd europeista di Elly Schlein il no del Pci al trattato istitutivo della Cee nel 1957.
Il guizzo su Colombo e Galileo, un Ritorno al futuro in costume quattrocentesco
L’allocuzione del ministro è proseguita con riferimenti orgogliosi ma un po’ cringe alla propria formazione giuridica presso l’università Federico II di Napoli, sotto l’egida dell’illustre professor Mazzacane. Anche il tono perennemente risentito da ex dissidente che a causa del suo orientamento di destra ha dovuto campare per anni con umili e oscuri mestieri come direttore e vicedirettore di tiggì Rai, dopo quasi due anni al ministero della Cultura era quasi più imbarazzante che irritante. Insomma, in quel lungo assolo di trombone sotto il sole di Taormina mancava ancora l’acuto, il guizzo, la nota indimenticabile. Ed è arrivata, nella forma di un’ennesima e più clamorosa manomissione della linea del tempo: un Ritorno al futuro in costume quattrocentesco, in cui Colombo nel 1492 si imbarca per raggiungere le Indie «confermando le teorie di Galileo Galilei», nato 70 anni dopo, e comunque più interessato alle rotte dei pianeti che a quelle marittime. Dopo un attimo di incertezza (l’ho sentito veramente? L’ha detto veramente? E se per motivi tecnici i microfoni hanno zittito qualche subordinata che faceva la differenza tra una castroneria e un’osservazione corretta?) ho cominciato a fare il conto alla rovescia, come quando vedi il fulmine e aspetti il tuono. E poco dopo la Rete ha iniziato a tuonare.
Davanti alle gaffe sangiulianee il pensiero corre al Fine dicitore di Totò
Ci vuole altro per scalzare dal primo posto delle gaffe sangiulianee quella snocciolata un anno fa in occasione dell’ultimo premio Strega, la candida ammissione di non aver letto nessuno dei libri in corsa per il più ambito riconoscimento letterario italiano. Diciamo che la sinergia impossibile fra Colombo e Galileo supera la topica su Times Square orgoglio di Londra, e si colloca ex aequo con Dante fondatore del pensiero di destra. Tutti infortuni dovuti, più che a una cultura abborracciata, a un eccesso di presunzione, favorito dalla sicurezza che tanto da quella poltrona non lo smuove nessuno, e quindi «io sono io, e voi saccentoni che mi fate le pulci non siete un cazzo». Il pensiero corre spontaneo al Fine dicitore, una poesia del grande conterraneo del ministro, Totò. Il fine dicitore era un certo Ninì Santoro, un aspirante showman che una sera si presentò sul palco del Trianon tutto agghindato e con una gran faccia tosta, ma fece una figuraccia e dovette correre a nascondersi, inseguito dal pubblico infuriato. «Io penso che era l’epoca sbagliata», conclude filosoficamente Totò, «trent’anne fa tutt’era ‘n’ata cosa. / Oggi che il nostro gusto s’è cambiato / Santoro fosse ‘na celebrità». Magari, perché no? sarebbe ministro della Cultura.
24/06/2024
Foto di copertina Blaz Erzetic