L’ARTE DELLA GUERRA
di Manlio Dinucci
Per non perdere la faccia di premio Nobel per la pace, il presidente Barack Obama ha deplorato la violenza contro i civili in Egitto, esprimendo condoglianze alle famiglie delle vittime. Uccise per la maggior parte con le armi fornite dagli Usa alle forze armate egiziane. Quelle che hanno sostenuto per oltre trent’anni il regime di Mubarak, garante degli interessi Usa, e assicurato la «pacifica transizione» quando il dittatore è stato rovesciato dalla sollevazione popolare. Quelle addestrate dal Pentagono, nell’esercitazione Bright Star 2009, a «operazioni militari nel terreno urbano», ossia a combattere all’interno di una grande metropoli.
Come provvedimento di facciata, Obama ha cancellato la Bright Star 2013, che avrebbe dovuto svolgersi in Egitto in settembre con la partecipazione di migliaia di militari di Stati uniti e altri paesi (Italia compresa). Non ha cancellato però il finanziamento di 1,5 miliardi di dollari annui alle forze armate egiziane.
L’Egitto infatti è di importanza strategica per gli Usa. Esso «svolge un ruolo chiave nell’esercitare una influenza stabilizzante in Medio Oriente», in particolare nell’«affrontare la crescente instabilità a Gaza», ribadisce il Comando centrale Usa. A differenza che in altri paesi – scrive il «New York Times» – gli aerei e le navi da guerra statunitensi possono transitare senza preavviso nello spazio aereo egiziano e attraverso il Canale di Suez per condurre «operazioni antiterrorismo» in Medio Oriente e Africa. Questi sono «solo alcuni dei modi in cui i militari egiziani assistono gli Stati uniti nel perseguire i loro interessi nella regione». A un certo punto però, oltre che sui militari, «Obama ha puntato su Morsi, leader della Fratellanza musulmana», ritenendolo come presidente «un partner utile».
Quanto siano utili per gli Usa e la Nato i capi della Fratellanza musulmana, lo dimostra Yusif Al Qaradawi, la principale «guida spirituale». Cittadino qatariano di origine egiziana, tiene un seguitissimo programma televisivo su Al Jazeera. Da questa tribuna, durante l’attacco Nato alla Libia nel 2011, incitava ad assassinare Gheddafi e a sostenere la Fratellanza musulmana che, aiutata da forze speciali qatariane, partecipava all’attacco interno. Lo scorso giugno, in un raduno a Doha, ha chiamato «ogni musulmano addestrato al combattimento a rendersi disponibile» per partecipare alla guerra in Siria. Guerra importante nella strategia Usa/Nato, in cui il Qatar è molto attivo, soprattutto fornendo armi ai «ribelli» attraverso la Turchia. Lo stesso Qatar ha sostenuto Morsi, dandogli in un anno 8 miliardi di dollari, ai quali la Turchia si era impegnata ad aggiungerne 2. Sentendosi molto forti, Morsi e i capi della Fratellanza musulmana si sono però allargati troppo, concentrando il potere nelle proprie mani in nome della «rivoluzione islamica» e suscitando di conseguenza una forte opposizione popolare.
Washington, facendo leva sulle forze armate, ha cercato di arrivare a una deposizione «indolore» di Morsi. Ma era troppo tardi. I vertici militari, sfruttando anche le pressioni esercitate da Israele e Arabia Saudita, hanno deposto il presidente e usato il pugno di ferro contro le masse mobilitate per una prova di forza dalla Fratellanza musulmana. Lo hanno fatto con il consenso di gran parte della popolazione e anche della sinistra egiziana. Diffusa è l’opinione, cui dà voce lo scrittore di sinistra Alaa Al Aswany (vedi il manifesto del 15 agosto scorso), che «la rivoluzione è stata sostenuta dall’esercito». Quello che ha fatto assolvere Mubarak, e quindi se stesso, per i crimini commessi in trent’anni di dittatura.