Aaron Pettinari
Il giornalista sentito ieri nel processo Masi-Fiducia
Aprile-maggio 2006. Due carabinieri in borghese suonano alla porta dell’abitazione del giornalista Saverio Lodato. Vogliono raccontargli delle difficoltà incontrate all’interno dell’Arma per giungere alla cattura del superlatitante di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro. E’ su questo episodio che l’allora giornalista de L’Unità, ed oggi nostro editorialista, è stato sentito nell’ambito del processo, che si celebra davanti al giudice monocratico Marina Minasola, contro i marescialli dei carabinieri Saverio Masi, capo scorta del magistrato Nino Di Matteo ed anche teste al processo trattativa Stato-mafia (difeso dal legale Claudia La Barbera), e Salvatore Fiducia (difeso dall’ex pm ed oggi avvocato Antonio Ingroia).
I due carabinieri sono accusati di calunnia e diffamazione nei confronti di sette ufficiali dell’arma (Gianmarco Sottili, Francesco Gosciu, Michele Miulli, Fabio Ottaviani, Gianluca Valerio, Antonio Nicoletti e Biagio Bertodi difesi dagli avvocati Claudio Gallina Montana, Ugo Colonna, Basilio Milio ed Enrico Sanseverino).
“Era un sabato – ha detto Lodato così come aveva già fatto nel processo Stato-mafia – Due soggetti suonarono alla porta del pianerottolo attorno a mezzogiorno. Orario che mi incuriosì perché quel giorno la portineria era chiusa. Questi signori, in borghese, si qualificarono come carabinieri e non dissero subito il loro nomi. Mi dissero che volevano parlare con me per i problemi delicati che incontravano nella loro attività di ricerca di latitanti mafiosi. Dissero che avevano incontrato ostacoli all’interno del loro corpo di appartenenza e volevano parlarmi in quanto ero un giornalista che si occupava di certi argomenti per l’Unità”.
Rispondendo alle domande dell’avvocato Claudia La Barbera, legale di Saverio Masi, è entrato maggiormente nello specifico di quel singolare incontro: “Dicevano di aver avuto delle difficoltà con i loro superiori, che li avevano intralciati, facendo riferimento al latitante Matteo Messina Denaro. Sostenevano di essere quasi venuti a capo della sua latitanza e che si erano accesi come dei semafori rossi. Loro ritenevano che io potessi scrivere di queste difficoltà che incontravano. Chiesi quali fossero eventuali pezzi di appoggio ma non c’erano né nomi, né date, né circostanze specifiche. Era un discorso generico. E io dissi loro di rivolgersi alla magistratura perché, considerato gli argomenti che mi prospettavano, per quel che mi riguardava le informazioni non erano utilizzabili professionalmente”.
Nel corso dell’esame Lodato ha anche ricordato che i due militari mostrarono una certa preoccupazione nel parlare in maniera libera: “Fecero un’allusione al fatto che l’ambiente in cui mi trovavo potesse essere intercettato. Nella prima fase si parlò più a gesti che con le parole. Facevano riferimento al fatto che potevano esserci microspie e questo contribuiva ad aumentare i miei interrogativi sulla natura della visita”.
13 Febbraio 2021