di Gianni Barbacetto
Trasformare le crisi in opportunità: è la regola seguita da ogni buon manager. Anche da quelli alla guida delle aziende italiane forse di maggior successo: le organizzazioni criminali. La crisi che si è presentata a febbraio era da brividi: l’emergenza coronavirus. L’opportunità da cogliere al volo: uscire dal carcere. Il rischio che gli istituti penitenziari – dove 62 mila persone vivono in spazi per 51 mila posti – si trasformassero in focolai di contagio, c’era.
C’era anche la preoccupazione dei responsabili del ministero della Giustizia e del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che una eventuale moltiplicazione dei contagi e dei morti li potesse far finire sotto accusa per epidemia colposa, come i vertici delle case per anziani a Milano.
In questo clima il Dap vara, il 21 marzo, una circolare in cui chiede a tutti gli istituti di pena l’elenco delle persone detenute che sono più a rischio contagio, perché indeboliti da patologie pregresse. Stop. Nella circolare non c’è alcuna spinta a scarcerare.
A questo pensano i boss e i loro avvocati. Rischio epidemia in carcere? Va trasformato in richiesta di tornare a casa, per seri motivi di salute. In poche settimane si scatena un diluvio di istanze di scarcerazione. Sono 3 mila i detenuti che chiedono e ottengono di uscire di cella per andare a casa, agli arresti domiciliari, la maggioranza in forza del decreto “Cura Italia”, da cui sono però esclusi espressamente i mafiosi e i condannati per reati gravi. Circa 700 di loro sono controllati a distanza con il braccialetto elettronico.
Ma il problema è che sono state scarcerate anche altre 400 persone (a esser precisi 376, secondo una lista che allinea i nomi e i cognomi) che sono invece detenute per reati gravi, di mafia, terrorismo, traffico di stupefacenti eccetera. Solo quattro escono dal 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, ma tutti gli altri sono comunque considerati legati alle organizzazioni criminali. Il loro ritorno a casa, secondo il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, è un segnale di ripresa di potere sul territorio dove operano i loro gruppi. Un numero ancora maggiore di detenuti (456 per la precisione) si è aggiunto negli ultimi giorni con altre richieste di scarcerazione.
Ad accettare le istanze e a concedere la detenzione domiciliare sono i magistrati di sorveglianza, per i detenuti con condanna definitiva (180 dei 376). Per gli altri, sono i giudici delle indagini preliminari o quelli dei processi ancora in itinere. Quando il procuratore nazionale antimafia si rende conto che è in corso un esodo, lancia l’allarme al ministro della Giustizia. Alfonso Bonafede prepara un decreto governativo (scattato il 30 aprile) che rende obbligatorio, per il giudice che decide, di acquisire almeno anche il parere della Procura nazionale (per i detenuti al 41 bis) e delle direzioni distrettuali antimafia (per gli altri).
Intanto Bonafede si mette al lavoro per fermare “l’epidemia di scarcerazioni” – la definizione è di Cafiero De Raho – senza però interferire con le decisioni dei giudici, che esercitano un potere comunque autonomo dal potere esecutivo. A riconsiderare le decisioni saranno i Tribunali di sorveglianza in formazione collegiale, per le decisioni prese d’urgenza dal magistrato di sorveglianza, le Procure e le Procure generali che potranno appellare gli altri casi.
Ora il nuovo decreto è in arrivo. Non potrà rimettere in cella chi è già uscito per decisione di un giudice. Ma potrà stabilire paletti. Imporre di considerare le alternative alla detenzione domiciliare: strutture opportunamente protette interne o esterne agli istituti di pena, strutture ospedaliere specializzate. Potrà imporre una revisione periodica delle decisioni dei giudici, in considerazione di come si evolve la situazione. Dopo la fase 1 del liberi tutti, potrebbe iniziare la fase 2 di una più cauta ponderazione.
9 maggio 2020