Amira Hass, firma storica di Haaretz, conosciuta in tutto il mondo. Questa la sua riflessione su quello che sta accadendo in Israele e Palestina
Umberto De Giovannangeli
Se c’è una giornalista israeliana che ha vissuto dal di dentro, fin dal lontano dicembre 1987, ogni fase delle rivlte palestinesi, questa giornalista è Amira Hass, firma storica di Haaretz, conosciuta in tutto il mondo. Per un lungo periodo dii tempo Amira, che chi scrive ha conosciuto sul campo nei momenti più drammatici del conflitto israelo-palestinese, ha vissuto a Ramallah. Delle fazioni palestinesi e degli scontri di potere al loro interno, Amira Hass conosce ogni particolare, così come della sofferenza della popolazione palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Globalist ha avviato una riflessione sulla seconda intifada, vent’anni dopo. E la lettura di Amira Hass è un contributo eccezionale.
Vent’anni dopo
“La seconda intifada – ricorda Hass – è scoppiata perché Israele ha sfruttato i negoziati con i palestinesi per portare avanti il suo progetto di conquista della terra. L’ipocrisia gridava al cielo – parlare di pace da un lato, mentre dall’altro continuare a conquistare la distesa palestinese per il bene degli ebrei. L’ipocrisia gridava, ma gli israeliani non ascoltavano.
La rabbia e il disgusto per la doppiezza fraudolenta israeliana si sono accumulati in anni di delusione e sobrietà dopo gli accordi di Oslo, scoppiati il 29 settembre 2000 (il giorno dopo la provocazione di Ariel Sharon, con l’approvazione dell’allora primo ministro Ehud Barak). Ma la seconda intifada non era un’intifada nel senso standard del termine: a parte i suoi primi giorni, non era un rivolta popolare e la maggioranza della popolazione dei Territori occupati non vi ha partecipato, a differenza della rivolta scoppiata nel 1987. La caratteristica popolare-collettiva che si è conservata in essa è stata la sumud (la fermezza) mostrata da tutti i palestinesi di fronte alle misure oppressive e punitive israeliane e alla politica di logoramento economico. Le forze di difesa israeliane, la polizia di frontiera e la polizia, che hanno usato mezzi letali per reprimere le proteste fin dal primo giorno, sono riuscite a dissuadere i potenziali manifestanti. Yasser Arafat e il suo entourage si sono preoccupati delle critiche che si potevano sentire in quelle manifestazioni, rivolte all’Autorità palestinese e a Fatah. Hanno dato via libera a Fatah e alle forze di sicurezza di usare le armi nei punti di frizione con l’esercito israeliano e così, indossando ancora una volta l’elmetto della resistenza, hanno preso il controllo delle manifestazioni. Hanno anche calcolato che questa militarizzazione avrebbe rafforzato la posizione negoziale palestinese. Credevano ancora di poter fermare l’avanzata coloniale israeliana nei Territori del 1967. Il meccanismo ben oliato dell’unità dei portavoce dell’Idf e dei portavoce del governo riuscì sul fronte della propaganda a costruire la menzogna che le battaglie sul campo erano combattute tra eserciti uguali e che i palestinesi avevano iniziato. Allora, come oggi, la maggioranza israeliana prestava poca attenzione alle vittime palestinesi, e non considerava la confisca delle loro terre come un’aggressione istituzionale. Allo stesso tempo, il numero di palestinesi disarmati uccisi da Israele continuava a crescere. Ad ogni funerale, l’appello palestinese alla vendetta si rafforzava sempre più. Con e senza il via libera dall’alto, i palestinesi armati hanno sparato contro i civili israeliani (anche loro armati, come molti dei coloni) in Cisgiordania e a Gaza. Hamas si è unito in modo piuttosto tardivo e ha dimostrato che se il successo si misura nel numero di cadaveri israeliani, è stato più efficace di Fatah. Israele ha cancellato la Linea Verde – quindi perché non dovrebbe riprendere ad attaccare gli israeliani all’interno di Israele? Le ali armate di Hamas e Fatah hanno gareggiato l’una con l’altra e hanno perso nella competizione con l’Idf sul numero dei morti. Gli attentati suicidi hanno creato un equilibrio di terrore con gli israeliani, ma non hanno fermato i bulldozer dell’amministrazione civile.
Quattro fallimenti
Ci sono quattro fallimenti in tutto – prosegue Hass -. La prima intifada, con la sua speranzosa richiesta di uno Stato sovrano entro le linee del 4 giugno 1967, fallì. I colloqui di Madrid e di Oslo, iniziati sulla sua scia, non hanno diminuito l’appetito famelico di Israele per la terra palestinese. Anche la tattica di Mahmoud Abbas di diplomazia e di accettazione all’Onu è fallita: le condanne dei Paesi occidentali non equivalgono a una politica, ma servono solo a pararsi il culo. Con l’eccezione di alcuni successi isolati, sono fallite anche le battaglie popolari e legali contro i sequestri di terre. E nemmeno l’uso delle armi, che molti palestinesi considerano ancora l’apice della lotta e della resistenza, anche se solo pochi scelgono di farlo, non ha fermato il processo. L’uso delle armi è espressione di rabbia e di desiderio di vendetta. Non ha alcun valore strategico.
La seconda Intifada, 20 anni dopo: Migliaia di persone sono morte in una lotta che non ha avuto successo
Vent’anni dopo, la vittoria israeliana è quasi completa: la ben pianificata rapina a mano armata in terra palestinese si svolge ogni giorno senza ostacoli. Il modello che Israele ha creato a Gaza viene copiato in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) e tradotto in qualcosa di simile a “Pallidi dell’Insediamento” che, finché non mostrano segni di furia e ribellione, non sono di alcun interesse per gli ebrei in Israele, il sovrano supremo”.
La “verità di Amira” è dura ma è la verità storica. Vent’anni dopo, una pace giusta, stabile, tra pari in Palestina semplicemente non esiste. Esistono generazioni cresciute all’ombra del “muro dell’apartheid” in Cisgiordania o nell’inferno in terra di nome Gaza. Ma i movimenti di resistenza, la storia insegna, hanno un carattere carsico, con alti e bassi. Una cosa, però, è certa: nessuna delle questioni che sono a fondamento dell’infinito conflitto israelo-palestinese sono state affrontate e risolte. Nessuna. Al contrario, si sono aggravate. E un giorno, statene certi, saranno in tanti tra i palestinesi a ribellarsi alla rapina a mano armata condotta da Israele.
3 ottobre 2020