Sei articoli che serviranno a non dimenticare cosa sia successo e utili in campagna elettorale perché rammenteranno agli elettori chi potrebbe fare le leggi e applicarle…
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Bobo, il leghista bifronte che si veste da moderato (per Palazzo Chigi?)di Gianni Barbacetto Se ne va dal grattacielo di Palazzo Lombardia vantandosi di essere un uomo che ha governato e che sa governare. Chissà se Roberto Maroni si riferisce a quello che è successo il 13 luglio 1994, quando era ministro dell’Interno del primo governo Berlusconi: quel giorno firmò il “decreto salvaladri” che liberava gli indagati di Tangentopoli. Tre giorni dopo, con il Paese insorto contro il decreto, dichiarò, pallidissimo, al Tg3: “Mi hanno ingannato, imbrogliato, mi hanno fatto leggere un testo diverso da quello che poi mi hanno dato da firmare. Biondi mi aveva giurato che non sarebbero usciti i tangentisti, i De Lorenzo. Mi sono fidato, ho fatto male. Chiedo alla Lega non di emendare il decreto, ma di respingerlo in blocco”. Se ne va da presidente della Regione presentandosi come uomo delle istituzioni. Chissà se si riferisce a quanto accaduto il 18 settembre 1996, quando si scontrò con i poliziotti mandati a perquisire la sede milanese del Carroccio di via Bellerio e tentò di addentare la caviglia a un agente: il gesto gli è costato una condanna definitiva a 4 mesi e 20 giorni per resistenza a pubblico ufficiale. Bobo Maroni è un leghista bifronte, che si mostra ragionevole ed equilibrato quando indossa i panni ministeriali, ma che si trasforma quando deve parlare alla pancia della Lega. Nel 1996 indossa i panni di portavoce del Clp (Comitato di liberazione della Padania), annuncia la costituzione delle Camicie Verdi e lancia la disobbedienza civile a Roma: “La strategia della Lega è quella di ottenere l’indipendenza della Padania”. Moderato? Nel 2005 se la piglia con l’Europa. Dopo un vertice Ue deludente, dichiara: “L’Europa ha chiuso per fallimento”. E propone di tornare alla lira. Gli alleati del centrodestra gli rispondono: “È una provocazione bizzarra”. Ma Bobo non molla e annuncia il ricorso al popolo: “Il 19 giugno, a Pontida, la Lega inizierà la raccolta delle firme per una consultazione popolare”. Poi minaccia: “Siamo solo all’inizio; aspettate Pontida e ne vedrete delle belle”. Ha fama di leghista dal volto umano. Eppure non le manda a dire neppure sull’immigrazione: “La sinistra italiana ci rompe le palle”, urla a Pontida, tra gli appalusi, nel 2008, difendendo l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina. “Sulla sicurezza vengono raccontate solo balle… La tolleranza zero è il nostro obiettivo. Ci accusano di essere diventati un Paese razzista e xenofobo: sono palle di chi non vuole accettare il fatto che con noi al governo la musica è cambiata”. Nell’edizione 2009 di Pontida lancia ai presidenti di seggio dell’imminente referendum elettorale – ed era ministro dell’Interno! – un avvertimento che è quasi un’intimidazione: “Non facciano i furbi: devono spiegare ai cittadini anche la possibilità di non ritirare la scheda”. Poi difende le ronde: “Ebbene sì, vogliamo le ronde: ci hanno accusato di voler far tornare le camicie nere, ma noi guardiamo alla sostanza, non alle chiacchiere”. Ondivaghi anche i suoi rapporti con Umberto Bossi, che già nel 1995 lo descrive così: “È uno che tira il sasso e nasconde la mano”. Pochi mesi prima, Bobo era stato fischiato e insultato al congresso straordinario della Lega, al Palatrussardi di Milano, perché ministro e vicepresidente del governo Berlusconi che Bossi aveva deciso di far cadere. “Chi tradisce sarà spazzato via dalla faccia della terra”, tuonò il Senatur, “sappiamo che c’è stato il mercato delle vacche e un po’ di gente ha preso la stecca”. Bobo rischia il linciaggio e si salva soltanto perché viene scortato fuori da Roberto Calderoli, mentre l’Umberto continua: “Una Lega bis, caro Roberto, sarebbe uno specchietto per le allodole. Il coraggio, se non lo si ha, non lo si può comprare al supermercato”. La mattina dopo Maroni sale su un volo per le Maldive dove rimane due settimane, insieme alla silenziosa e paziente moglie, Emilia Macchi. Nel 2012 si prende la rivincita: il partito è perso tra i diamanti in Tanzania del tesoriere Francesco Belsito e le lauree in Albania di Renzo Bossi il Trota e a Bergamo i suoi “Barbari Sognanti”, con le scope in mano, fanno fuori Bossi e impongono Bobo alla segreteria del partito, poi consegnato, 18 mesi dopo, a Matteo Salvini. Per non essere oscurato dalle felpe e dalle ruspe di Salvini, nel 2015 risfodera gli slogan anti-immigrati: “Ridurrò i trasferimenti regionali ai sindaci che accolgono nuovi migranti”. Dimenticando di aver messo la sua firma, quando era ministro dell’Interno, sotto un documento che impegnava le Regioni a distribuirseli, i migranti. Ora ha indossato i panni di Riserva della Repubblica. Punta sulla vittoria di Berlusconi e sulla sua necessità di trovare, dopo le elezioni, un leghista bifronte dal volto umano. (Il Fatto quotidiano, 10 gennaio 2018) Il risiko (a destra) delle Regioni A rimetterci, per ora, è stato Dudù: “Ha fatto ‘cai, cai’, qualcuno lo ha schiacciato mentre facevamo la foto finale… mi pare Matteo Salvini”. Così Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, racconta il finale della riunione di Arcore in cui è stato avviato il grande risiko delle candidature del centrodestra. Sarà una partita lunga. Intanto l’unica scelta già fatta è che Attilio Fontana prenderà il posto di Roberto Maroni come candidato in Lombardia. Silvio Berlusconi ha dovuto fare un po’ finta di sostenere la candidatura di Mariastella Gelmini, ma il patto con Maroni era già deciso: Bobo, in un colpo solo, disinnesca una mina a Milano (l’eventuale condanna nel processo che ha in corso avrebbe fatto scattare la sua sospensione da presidente della Regione, causa legge Severino) e si tiene pronto per incarichi importanti a Roma (ministro di peso o addirittura presidente del Consiglio, d’intesa con Berlusconi). Risultati: a Salvini girano le ruspe e Dudù vorrebbe non solo schiacciarlo per sbaglio, ma farselo allo spiedo. Ora dovranno essere decisi i candidati presidenti delle altre due regioni importanti in cui si voterà, Lazio e Friuli Venezia Giulia. Per la prima, la scelta dovrebbe cadere su Maurizio Gasparri. Nella seconda, i giochi sono ancora aperti: Forza Italia vorrebbe il suo colonnello locale, Riccardo Riccardi, che dovrebbe battersi con il pd Sergio Bolzonello, il vice di Debora Serracchiani (che non si vuole ricandidare). Ma la Lega spinge per un candidato più forte, Massimiliano Fedriga, capogruppo del Carroccio alla Camera, leghista gentile e volto televisivo, che sondaggi riservati danno avanti di 4 o 5 punti rispetto a Riccardi, alla soglia del 40 per cento, con il centrosinistra in Friuli poco sopra il 30 e i Cinquestelle inchiodati alle regionali al 24 (andranno meglio alle politiche, dove in regione potranno raggiungere o superare il 30 per cento). La partita centrale resta quella in Lombardia, dove Fontana viene sottovalutato dal Pd, che crede che senza Maroni si riapra la gara per il suo candidato Giorgio Gori. “Ma Fontana non ha mai perso un’elezione”, dice chi lo conosce bene. Avvocato, volto moderato del Carroccio, fama di buon amministratore (sindaco a Induno Olona e poi a Varese), sa parlare anche ai non leghisti, benché sia una vecchia volpe della politica, con sei anni passati al Pirellone come presidente del Consiglio regionale. Suoi vezzi, la Porsche Carrera con cui girava per Varese e le mazze da golf che appena può mette alla prova sul green, il verde che preferisce a quello delle cravatte esibite da tanti suoi colleghi di partito. (Il Fatto quotidiano, 11 gennaio 2018) Il Fatto quotidiano, 10 e 11 gennaio 2018 |
Processo spese pazze, cinque anni e ancora nessuna sentenzadi Gianni Barbacetto Ricordate l’inchiesta sulle “spese pazze” dei consiglieri regionali? Fece tremare la politica e indignare i cittadini. Avviata a Milano alla fine del 2012 dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e poi dalle Procure di tante altre città d’Italia, aveva svelato dappertutto lo stesso scenario: con i soldi pubblici, i consiglieri dei diversi partiti, dalla Lega a Forza Italia fino al Pd (che già portano a casa uno stipendio di oltre 10 mila euro al mese) si facevano in più rimborsare migliaia di euro di spese, spesucce e spesone. Pranzi e cene, sushi e aragoste, conti dal pasticcere e dal macellaio, piante e orchidee, sigarette e lattine di Red Bull, lecca-lecca e gomme da masticare, mojito e campari, patatine e barrette ipocaloriche, libri e giornali, cartucce per fucile da caccia, videogiochi e computer, iPhone e iPad, caricabatterie e auricolari. Il capogruppo della Lega aveva chiesto il rimborso del pranzo di nozze della figlia Verdiana. Un consigliere del Pdl con i soldi regionali aveva pagato sei computer, molte cene al ristorante e qualche distrazione (da 420 euro) al club La Dolce Vita, in Romania, oltre a due libri per bambini su Trilli, la piccola fatina volante di Peter Pan. Un leghista aveva messo in nota spese i fuochi d’artificio di Capodanno, un computer, una fotocamera e ben tre iPad, ma anche gli scontrini battuti a ore piccole in locali notturni come il Colibrì, il Cherry Dance, il Pub the Party e, dulcis in fundo, un Kinder Tubo Sorpresa e un cono gelato da 1 euro e 50. Nicole Minetti, allora consigliera regionale nel listino di Roberto Formigoni su richiesta di Silvio Berlusconi, si era fatta rimborsare, tra l’altro, molti conti di ristoranti giapponesi (Nikko, Zen, Perla d’oro, Armani Nobu), ma anche scontrini del Panino giusto, di Giacomo (ristorante chic di pesce), di Giannino (490 euro in una botta sola), del Principe di Savoia (832 euro per un aperitivo); e si era fatta rimborsare anche 16 euro per un libro comprato alla Feltrinelli: Mignottocrazia di Paolo Guzzanti, in cui era in effetti ampiamente citata. Cinque anni dopo, non è ancora terminato il processo di primo grado. A giudizio sono finiti, a Milano, 56 consiglieri ed ex consiglieri regionali lombardi, accusati di avere sperperato tra il 2008 e il 2012 oltre 3 milioni di euro con i fondi messi a disposizione dallo Stato per l’attività politica e istituzionale dei loro gruppi consigliari. Solo cinque degli imputati sono ancora in carica: Angelo Ciocca e Massimiliano Romeo (Lega), Elisabetta Fatuzzo (Pensionati), Alessandro Colucci (Nuovo centrodestra), Luca Gaffuri (Pd). Gli altri 51 non lo sono più. Poiché la sentenza non arriverà di certo prima delle elezioni del 4 marzo, come faranno i cittadini a sapere se dare il loro voto ai consiglieri sotto processo, nel caso decidano di ricandidarsi? Gli elettori hanno il diritto di sapere se i loro eletti hanno sprecato i soldi pubblici. E i consiglieri che li hanno invece spesi bene, per necessità istituzionali, hanno il diritto di vedere riconosciuta la loro innocenza. Né gli uni né gli altri avranno soddisfazione. Questo processo appare interminabile. E alla fine potrebbe succedere di tutto. Tre ex consiglieri processati con il rito abbreviato sono stati condannati in primo grado per peculato, ma poi in appello i giudici hanno deciso che il reato commesso era la meno grave “indebita percezione di erogazioni”, che apre la porta alla prescrizione. Sottigliezze giuridiche. Ma resta la sostanza della questione: una vicenda che forse più d’ogni altra aveva indignato i cittadini e intaccato la loro fiducia nei partiti non riuscirà dopo cinque anni ad avere un esito giudiziario chiaro. È una sconfitta per la politica, ma è un brutto risultato anche per la magistratura. Il Fatto quotidiano, 11 gennaio 2018 |
Processo Trattativa, la requisitoria del pm Nino Di Matteo: “Canali di comunicazione tra Berlusconi, Dell’Utri e Riina”Secondo la procura di Palermo il boss dei boss, morto lo scorso novembre, non era consapevole di essere intercettato. Il magistrato recita alcune delle frasi intercettate: “Ma noi altri abbiamo bisogno di Giovanni Brusca per cercare Dell’Utri? Questo Dell’Utri è una persona seria…”. E ancora: “…Berlusconi in qualche modo mi cercava… si era messo a cercarmi… mi ha mandato a questo… Gli abbiamo fatto cadere le antenne” Secondo la procura di Palermo comunque Riina “non era consapevole di essere intercettato nello spazio esterno del carcere” in cui era detenuto. “Se fosse stato consapevole o avesse avuto un sospetto serio, non avrebbe parlato così a lungo e approfonditamente di quasi tutti gli omicidi di cui si è reso protagonista e non si sarebbe vantato, con profili di autoesaltazione che stridono con la purezza del racconto delle stragi e di omicidi eccellenti. Inoltre, non avrebbe parlato tante volte dei suoi congiunti, della moglie e dei figli” ha proseguito Di Matteo nell’udienza in corso all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Una replica a distanza a chi sostiene da tempo che il capomafia di Corleone “sapeva di essere intercettato in carcere”. Le intercettazioni a cui fa riferimento il pm della Dna sono quelle del 2013 tra Totò Riina e il codetenuto Alberto Lorusso, che sembrava il depositario degli sfoghi e dei propositi di morte del boss.L’odio per i magistrati Chinnici, Falcone e Borsellino In quelle lunghe ore di conversazioni, tutte registrate dalle cimici del carcere, Riina aveva parlato degli anni Ottanta e inizio Novanta, e del suo odio contro i magistrati, da Rocco Chinnici a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino allo stesso Nino Di Matteo e gli altri pm antimafia. E quasi si lamentava, Riina, che gli affiliati a Cosa nostra ancora liberi avessero seguito la strategia dell’inabbissamento: “Mi viene una rabbia a me… ma perché questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato?”, diceva a Lorusso. “Se avesse saputo di essere intercettato – prosegue il pm Di Matteo – Riina non avrebbe parlato così approfonditamente di suo nipote Giovanni Grizzafi e delle aspettative che nutriva rispetto alla prossima scarcerazione di Grizzafi che gli avrebbe permesso di tessere le fila di tante situazioni. Se avesse avuto un serio sospetto di essere intercettato nello spazio esterno non avrebbe mai parlato di beni patrimoniali riconducibili alla sua famiglia. In alcuni momenti delle conversazioni con Lorusso parla di beni che ha nella disponibilità di cui nessuno aveva sospettato”. “Inoltre – dice ancora il pm Di Matteo – Riina non avrebbe sollecitato l’eliminazione di uno dei pm del processo”, facendo riferimento a lui stesso, nel mirino del capomafia Riina. Parlando del magistrato, Riina aveva detto nelle intercettazioni: “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono… Ancora ci insisti? Perché, me lo sono tolto il vizio? Inizierei domani mattina… Minchia ho una rabbia… Sono un uomo e so quello che devo fare, pure che ho cento anni”. Il nome del pm venne fuori anche in riferimento alle polemiche seguite alla citazione come testimone dell’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano (‘Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblicà), a cui Riina immagina di fargli fare la fine del procuratore Scaglione, assassinato nel 1971: “A questo ci finisce lo stesso”. Nelle intercettazioni Riina parlava anche della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre agenti di scorta. Per Riina fu “una mangiata di pasta”.“Riina disse che fu lo stato a cercarlo” Nel 1992, secondo la procura, non sarebbe stato il boss mafioso a volere avviare una trattativa con pezzi dello Stato. Ma sarebbero stati esponenti delle Istituzioni a volere dare vita a un accordo per fare cessare le stragi mafiose. Di Matteo, durante la requisitoria, ha letto la relazione fatta nel 2013 da due assistenti penitenziari del carcere di Opera a Milano sulle parole pronunciate dal boss Riina. Riina disse “Non mi hanno arrestato i Carabinieri ma Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano – dice il magistrato – E lo stesso Riina ha poi sottolineato, come emerge dalla relazione dei due assistenti penitenziari: ‘Non ero io a cercare loro per trattare con loro ma era loro che cercavano me per trattare, io non cercavo nessuno‘”. Secondo il pm Di Matteo un “riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Cancemi e Brusca” ma anche del “dichiarante Massimo Ciancimino“, quest’ultimo imputato nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Comunque Riina “è stato il principale ideatore e artefice ed esecutore di quel vero e proprio ricatto allo Stato condotto a suon di bombe ed omicidi eccellenti. Successivamente c’è stata una evoluzione della trattativa – dice ancora il magistrato – con la individuazione, sotto l’aspetto del terminale mafioso, di Provenzano, a partire da una certa data in poi, quale soggetto mafioso più affidabile per trattare”. |
Consip, la Procura di Roma chiede una proroga di 6 mesi per le indagini su Luca Lotti e gli altri indagatiPer quanto riguarda la “natura degli accordi illeciti tra Romeo e Russo, il ruolo di Bocchino e di Tiziano Renzi, sono invece corso riscontri sui tabulati telefonici e attività di raccolta di informazioni da parte di persone informate sui fatti”. Sul fronte dell’indagine che attiene alle “gare Consip e Grandi Stazioni ed alle ipotesi di turbativa delle gare indette da tali stazioni appaltanti, è in corso una complessa attività di analisi della documentazione acquisita, accompagnata da attività di raccolta informazioni da parte di persone informate sui fatti”. Il ruolo del ministro – L’iscrizione nel registro degli indagati di Lotti- come rivelato da Marco Lillo sul Fatto Quotidiano – risale al 21 dicembre del 2016, il giorno dopo l’audizione, davanti agli inquirenti di Napoli, dell’ex ad di Consip Luigi Marroni, che aveva ammesso di aver saputo dal ministro dell’indagine in corso sulla centrale acquisti della Pubblica amministrazione. Il fascicolo passò subito a Roma per competenza e il 27 dicembre Lotti si presentò a Piazzale Clodio per essere sentito dagli inquirenti. Poi il 14 luglio del 2017 era stato interrogato dal pm Mario Palazzi, responsabile del fascicolo, alla presenza del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e dell’aggiunto Paolo Ielo. Erano stati i suoi avvocati, Franco Coppi e Ester Molinaro, a spiegare che nel corso di un “sereno interrogatorio durato circa un’ora”, il ministro ha risposto “puntualmente a tutte le domande che gli sono state rivolte” e ha ribadito “con fermezza la sua estraneità ai fatti contestati”. Le accuse – Lotti è accusato di favoreggiamento e violazione del segreto d’ufficio nell’indagine sulla fuga di notizie relative al caso sulla centrale acquisti della pubblica amministrazione. ‘Lorigine dei guai ddel ministro, è legata alle parole di Marroni che aveva raccontato agli inquirenti come fu avvertito delle indagini in corso. Il 15 dicembre del 2016, infatti, il manager aveva fatto rimuovere grazie a un’apposita bonifica le microspie celate dai carabinieri del Noe nel suo ufficio. Quando quattro giorni dopo i pm di Napoli insieme ai carabinieri e ai finanzieri gli chiedono perché lo abbia fatto, Marroni risponde così: “Perché ho appreso in quattro differenti occasioni da Filippo Vannoni, dal generale Emanuele Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Luca Lotti di essere intercettato”. Il top manager, che ha confermato tutto successivamente, è stato poi di fatto allontanato dal governo cui spetta la nomina dei vertici di Consip. E se per il principale accusatore dell’indagine di Consip era scattato il siluramento, al contrario il Senato aveva “blindato” la posizione dell’accusato Lotti, bocciando la mozione di sfiducia nei suoi confronti. Il caso Vannoni: “Fu Lotti a dirmi dell’indagine” – A pesare sull’iscrizione nel registro degli indagati del ministro, però, c’è anche la testimonianza di Filippo Vannoni. O forse c’era. Il presidente di Publiacqua Firenze e amico di vecchia data dello stesso Renzi è finito recentemente indagato per favoreggiamento. Sentito come persona informata sui fatti dai pm di Napoli il 21 dicembre mette a verbale: “Ricordo di aver detto a Marroni che aveva il telefono sotto controllo, ma in questo momento non sono in grado di dire chi e in che termini mi abbia dato questa informazione; sicuramente, prima di parlare con il Marroni e dirgli che aveva il telefono sotto controllo, il Lotti mi ha sicuramente detto che c’era una indagine su Consip”. A quel punto i magistrati gli ricordano che come testimone ha l’obbligo di dire la verità e lui aggiunge: “Facendo mente locale vi dico che effettivamente fu Lotti a dirmi che c’era una indagine su Consip. Ricordo che il presidente Renzi mi diceva solo di ‘stare attento’ a Consip”. Il ministro: “Gli avrei dato una testata”. E il manager ritratta – “A Vannoni avrei voluto dare una testata”, dirà Lotti il 27 dicembre quando si presenta dai pm la prima volta per negare ogni addebito dopo aver appreso si essere indagato. Dopo l’interrogatorio con i pm di Napoli, infatti, il presidente di Publiacqua Firenze fa tappa a Palazzo Chigi per parlare con lo stesso Lotti. Almeno secondo lo stesso ex sottosegretario. “Vannoni, imbarazzato e con modi concitati, mi ha informato di essere stato sentito da Woodcock a Napoli e di avergli riferito di aver ricevuto da me informazioni riguardo l’esistenza di indagini su Consip; alle mie rimostranze circa la falsità di quanto affermato, lui ha ammesso di aver mentito e quando ho chiesto il perché si è scusato in modo imbarazzato, ottenendo una mia reazione stizzita, tanto da avergli detto ‘non ti do una testata per il rispetto del luogo nel quale siamo, congedandolo”. Successivamente, però, il manager toscano è passato da testimone a indagato per favoreggiamento: davanti ai pm di Roma ha sfumato la versione dei precedenti interrogatori, ritrattando in parte alcune dichiarazioni su Lotti.
I Renzies: “La verità non l’hai detta a Luca” – Il nome del ministro, seppur solo quello di battesimo, nell’indagine sulla centrale della pubblica amministrazione viene evocato anche un’altra volta. Nel dettaglio si tratta del nome di battesimo. “Io non voglio essere preso in giro e tu devi dire la verità in quanto in passato la verità non l’hai detta a Luca e non farmi aggiungere altro. Devi dire se hai incontrato Romeo una o più volte e devi riferire tutto quello che vi siete detti”, dice il 2 marzo Renzi al padre Tiziano, in uno dei passaggi della telefonata intercettata pubblicata sempre dal Fatto Quotidiano. Un riferimento – quello a “Luca” – su cui l’ex premier non ha mai fatto chiarezza nonostante i molteplici interventi pubblici sia sull’inchiesta Consip che sulla telefonata intercettata col padre.
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LORENZIN / ECCO IL SUO FIORE PETALOSOautore: PAOLO SPIGA
Beatrice Lorenzin florovivaista. La vulcanica mentre della ministra della Salute partorisce il nuovo simbolo: ha pensato bene di non affidarsi al team che diede alla luce aborti come i manifesti delle sue campagne a perdere. Stavolta fa tutto da sola e davanti a un uditorio sbigottito scopre il mega cerchio su sfondo arancio (?) dove campeggia – come ormai ‘si porta’ – il suo fatidico cognome, sovrastato da 5 simboli tra cui Idv di cui riscopriamo l’esistenza, nonchè il misterioso fiore. Certo non una margherita. Perchè quella non si tocca, come ha sbraitato per giorni Cicciobello Rutelli. E davanti a un estasiato Casini, la ministra ha spiegato: “un fiore petaloso giallo come il sole”. Petaloso? I botanici sono in fermento (lattico) e si interrogano sulla reale natura petalosa. Una pizza cinque gusti? Cinque uova all’occhio di bue in tegamino? Le cacche di cinque cani in fuga? Boh. Lei ci riprova. “Forse è una peonia”. Poi precisa, con la scienza che ormai la percorre da capo a piedi. “Siamo il partito che aspira ad essere il vaccino contro gli incompetenti e contro i populismi”. Un occhiolino al Vate Roberto Burioni, il Mago di tutte le Bufale e tutti i Vaccini, per il futuro governo di Salute (sic) pubblica? Meglio prepararsi con un capiente 113. 11 gennaio 2018
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Fatta la legge, trovato l’inganno. Firmato Raggiautore: Luciano Scateni
E’ un astuto giochetto di prestigio, non il solo dei 5Stelle: la sprovveduta sindaca della capitale, su parere di sgamati avvocati, chiede di il processo con rito immediato per rispondere di falso in atto pubblico. Immediato, considerati i tempi della giustizia italiana, somiglia molto a un eufemismo strategico. La data dell’udienza è posteriore al voto di Marzo e sottrae il Movimento, Di Maio e soci, al contraccolpo di una condanna che sembra certa. Chiara la furbata degli “onesti” pentastellati? Le astuzie preelettorali non finiscono qui. Il politicamente disattrezzato Di Maio, in odore di candidatura a premier, spara una ca…ta antieuropeista, per catturare il malumore degli italiani disinformati: “Via dall’euro” annuncia a voce alta. In privato, amici economisti gli spiegano il perché dell’idiozia e lui ci ripensa, ma non dismette la vena contraddittoria che lo perseguita. Dice che non è più il momento di uscire dall’euro, si pente subito dopo e ne butta fuori un’altra: “Il referendum sull’euro è una estrema ratio, che spero di non dover usare” Lo spera anche chi teme di ritrovarsi un tale sprovveduto a decidere qualcosa per l’Italia. Il marcio, nel variegato e per certi versi incontrollato mondo della Chiesa, privo per secoli di autocontrollo, emerge qua e là. Tra i bravi frati, emuli di San Francesco, salta fuori il caso di tre di loro, appunto francescani di enti dei Frati Minori, imputati di un clamoroso ammanco nelle casse dell’ordine per venti milioni di euro e proprio bruscolini non sono. La giustizia farà il suo corso, a dispetto della richiesta di archiviazione avanzata dalla “Casa Gentilizi dell’Ordine” che, chissà, pensava di cavarsela con un mea culpa nel confessionale e la penitenza di tre ave Maria e altrettanti Padre nostro. I saggi raccomandano di evitare la dipendenza dalla Tv. Non ha dato loro credito un distinto, incensurato ottantenne, del quale la cronaca omette nome. Il signore in questione deve essere vittima di dipendenza da telefilm della serie “grandi rapine”. Un giorno si sveglia e con spirito di emulazione, a volto coperto, irrompe in una banca svizzera. “Mani in lato, questa è una rapina” grida con piglio da vero bandito e conclude l’impresa. L’anonimato dura poco e l’uomo finisce in manette. In casa nascondeva il bottino della rapina e sembra che non abbia fornito spiegazioni del suo raptus in veste di rapinatore. 10 gennaio 2018
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