La cultura della sicurezza e della prevenzione: procede a scatti periodici, con qualche balzo improvviso e per il resto brillando per la sua totale assenza
Si è parlato, in questi giorni, sulla stampa nazionale, di sicurezza del lavoro, partendo da alcune notizie circa le morti sul lavoro, che non farebbero neppure notizia e non sarebbero considerate nelle statistiche. E’ ripartito, allora, il solito allarme periodico, sempre destinato a concludersi rapidamente, passando ad altro. Ricordo che quando si verificò la tragedia degli operai “bruciati”, in Piemonte, nella fabbrica della Von Thyssen, molti – anche sulla stampa e in TV – se ne occuparono con particolare attenzione, dicendo spesso che “dopo una vicenda di tal gravità, nulla sarebbe stato più come prima”. Invece, e come sempre, non cambia nulla, in concreto: qualche giorno di allarme e poi ricomincia la solita catena di infortuni, anche mortali, ma senza riuscire neppure a fare notizia.
Ho visto che in questi giorni si è tornati a parlare anche degli interventi di tipo penale, magari con la previsione di un reato di “omicidio sul lavoro”, con pene assai elevate. Apprezzo le buone intenzioni; ma se il progetto andasse in porto (cosa non facile) avremmo l’omicidio “normale”, l’omicidio “delle donne che si rifiutano”, l’omicidio “stradale” e così via. Dubito molto che risultati concreti ci sarebbero, perché alla fine non è la moltiplicazione delle pene che spaventa e neppure la previsione, ogni volta, di un nuovo reato, dal momento che il problema vero è che la cultura della sicurezza e della prevenzione, in questo Paese, procede a scatti periodici, con qualche balzo improvviso e per il resto brillando per la sua totale assenza.
Dopo molti anni di lavoro, anche in Parlamento, nel 2007, fu emanata la legge 3 agosto, n. 123 che conteneva un “Testo Unico” sulla sicurezza che pur non essendo perfetto, avrebbe dovuto rappresentare un vero sistema di interventi, non solo e non tanto punitivi, quanto e soprattutto prevenzionali. Quello che ci sarebbe stato da fare, vista l’entità del cambiamento, era – per tutti – di rimboccarsi le maniche e mettersi a lavorare per prevenire gli infortuni e le stragi sul lavoro, con un cambio deciso di mentalità e di cultura. Peraltro, meno di un anno dopo, entrò in vigore un provvedimento (9 aprile 2018) che invece di avere un carattere di specificazione applicativa, finiva per rappresentare, per alcuni aspetti, una restrizione proprio delle maggiori novità introdotte dal Testo Unico. Dopo di che non c’è stata né una grande applicazione, né una grande discussione, perché è sopraggiunta la crisi e il problema, nonostante la sua rilevanza, è finito in secondo piano. Il risultato è che gli infortuni, dopo una temporanea diminuzione, dovuta soprattutto alla mancanza di lavoro, hanno ricominciato a salire; e adesso si sono aggiunte, come ha scoperto la stessa stampa, le morti più o meno “invisibili” collegate alla crescente riduzione dei livelli di occupazione stabile ed alla crescita del lavoro nero.
Giusto, dunque, l’allarme ma purché si punti prima di tutto sulla prevenzione e sui controlli e non ci si affidi solo ad una presunta efficacia della minaccia punitiva che – non solo da noi – appare spesso scarsamente efficace e frequentemente elusa in ogni forma, tra la distrazione e l’indifferenza generale, dalle quali ci si risveglia ogni tanto, salvo riprendere, dopo poco, il solito tranquillo, rassegnato, indifferente tran tran. Personalmente, ho sempre avuto fiducia, più che nella repressione penale (pur necessaria in un Paese come questo, dove c’è scarsa propensione per la legalità), nella prevenzione e nel rispetto delle misure previste dalla legge, dalla contrattazione, dalle stesse aziende e talora dagli organi di vigilanza. Se cade l’attenzione, se la prevenzione si riduce ad un simulacro, se gli organismi di controllo si riducono, anziché aumentare (non solo in termini di numeri, ma in termini di efficienza e preparazione), nuove previsioni rischiano di servire solo a produrre una fallace rassicurazione, tacitando le coscienze, che invece dovrebbero sentire il peso insopportabile di una collettiva responsabilità. Bisognerebbe essere tutti lì, idealmente, nei cantieri, nei luoghi di lavoro più o meno “ufficiali”, nella società, a ricordare e a ricordarsi che il valore del lavoro è consacrato nell’articolo 1 della Costituzione, la dignità del lavoro negli articoli 2 e 36, la sicurezza nell’articolo 41. Sono questi princìpi che hanno bisogno di attuazione e di oggettivo e fermo rispetto da parte di tutti. Altrimenti, le coscienze avranno la loro tranquillità e si occuperanno di altro, ma intanto di lavoro si continuerà a morire, al di là di quanto voluto e imposto dalla Carta Costituzionale.
Carlo Smuraglia, Presidente nazionale dell’ANPI , da ANPInews n. 234 – 14/21 febbraio 2017