R.C.- E’ il 1974, quando unj criminale mafioso, Vittorio Mangano, sposta il suo domicilio ad Arcore, nella villa di Silvio Berlusconi.
Il perché rimane un mistero sino a quando, nel 1996, un boss di primissimo piano viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la giustizia. Si tratta di Franco Di Carlo, ha occupato una posizione unica all’interno di Cosa Nostra, negli anni in cui l’organizzazione mafiosa inizia ad essere attraversata da insanabili divisioni destinate ad esplodere nella guerra di mafia tra i corleonesi emergenti e i vecchi padrini palermitani.
Di Carlo gode della fiducia di entrambi gli schieramenti, è amico d’infanzia di Stefano Bontate, il capomafia più ricco e potente di Palermo, ma ha un legame d’acciaio con i corleonesi, alleati con il suo capomandamento, Bernardo Brusca.
“Intelligente, elegante, accattivante”, lo definiscono le carte processuali, Franco Di Carlo viene eletto capofamiglia nel 1976 per volere degli stessi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano ed è rispettato da tutti.
Per la sua posizione unica, Di Carlo ha potuto fornire rivelazioni decisive su molti delitti eccellenti, come gli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mario Francese e Peppino Impastato, nonché del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica.
E il signore di Altofonte svela il mistero Mangano sin dai suoi primi interrogatori. Parla di Dell’Utri «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…»
E qui precisa: «Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi».
Prosegue Di Carlo: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta… Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri».
«Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che “Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti”… Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone… Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: “Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello…”. E poi aggiunge: “Le mando qualcuno”.»
Dell’Utri non era un uomo d’onore, un affiliato a Cosa Nostra e per garantire protezione a Berlusconi «ci voleva qualcuno di Cosa nostra. E aggiunge che, appena Bontate ha pronunciato quelle parole, «Cinà e Dell’Utri si sono guardati».
Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, prosegue Di Carlo, Bontate dice a Teresi “Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”». Di Carlo ricorda che «Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”».
Franco Di Carlo è l’unico testimone oculare di quell’incontro, di quel patto tra il vertice mafioso dell’epoca e Silvio Berlusconi, ed è anche l’unico sopravvissuto.
«Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno» rimarca Di Carlo, sottolineando l’utilità della protezione mafiosa: «Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra… Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti».
Ma Cosa Nostra non è un ente di Mutua assistenza, le sue prestazioni si pagano e si comincia da subito.
È sempre Di Carlo a descrivere questo passaggio, di poco successivo all’incontro con Berlusconi: «Tanino Cinà mi dice: “Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire… Mi pare malo”. (…)
E io gli dissi: “Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi… E poi ci hanno voluto”».
L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il superboss Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso, in tutti i gradi di giudizio. Le sentenze di merito elencano migliaia di pagine di riscontri oggettivi e testimoniali (…).
E da allora, dal 1974, almeno sino al 1992, Berlusconi paga Cosa Nostra.
Con le guerre e gli omicidi di mafia cambiano i capi delle famiglie criminali che si dividono il tesoretto di Arcore. Ma gli effetti del patto restano quelli consacrati nel 1974: soldi in nero in cambio di protezione mafiosa per i familiari e per le attività economiche di Berlusconi.
Tra il 1979 e il 1980 i corleonesi fanno esplodere la seconda guerra di mafia. Stefano Bontate viene assassinato il 23 aprile 1981. Negli stessi mesi i killer corleonesi uccidono il suo vice, Mimmo Teresi, fatto sparire con il metodo della «lupara bianca». Terminata la «mattanza», il mandamento di Bontate viene smembrato.
E la famiglia di Porta nuova guidata da Pippo Calò, che ha tradito i boss «perdenti» passando con i corleonesi, viene elevata a mandamento. Negli anni successivi i soldi versati da Berlusconi attraverso Dell’Utri passano da diverse mani mafiose, ma seguono sempre il tracciato originario: finiscono ancora agli stessi clan, anche se, dopo la guerra corleonese, hanno cambiato capi.
Tra i riscontri oggettivi c’è anche un documento: in un libro mastro della cosca, che è alla base di una raffica di condanne per estorsioni mafiose, sono annotati – in due rubriche distinte, ma collegate con numeri in codice – la sigla dell’azienda, la cifra pagata e l’anno del versamento.
Alla sigla «Can 5» corrisponde questa scritta: «regalo 990, 5000». I pentiti di quella specifica famiglia mafiosa spiegano che si tratta di «cinque milioni versati da Canale 5 nel 1990 a titolo di regalo, cioè senza estorsione». (…)
Vittorio Mangano viene riarrestato nell’aprile 1995.
La Procura di Palermo ha infatti scoperto il suo ruolo di «co-reggente» del mandamento di Porta Nuova e lo accusa tra l’altro di essere il mandante di due omicidi. Durante la sua detenzione, Dell’Utri e altri parlamentari di Forza Italia si mobilitano chiedendo più volte che venga scarcerato per motivi di salute. Il 23 aprile 2000 la corte d’assise di Palermo chiude il primo grado di giudizio condannando Mangano all’ergastolo come boss di Porta Nuova e come mandante e organizzatore di un omicidio di mafia, commesso a Palermo il 25 ottobre 1994.
Il boss muore nel luglio 2000, a casa sua, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari per malattia.
Dell’Utri, nei vari gradi del suo processo, non ha mai attaccato Mangano, anzi è arrivato a definirlo «un eroe», perché «è stato messo in galera e continuamente sollecitato a fare dichiarazioni contro me e Berlusconi. Se lo avesse fatto, lo avrebbero scarcerato con lauti premi. Ma lui ha sempre risposto che non aveva nulla da dire».
Dell’Utri ripete più volte queste parole, che destano scandalo anche nel centrodestra. Nel novembre 2013, però, è Berlusconi in persona a dargli ragione: «Credo che Marcello abbia detto bene quando ha definito Mangano un eroe»,
E a ricordare il duro giudizio su Mangano espresso da Paolo Borsellino poco prima di morire.
Intervistato da due giornalisti francesi nel 1992, pochi giorni prima di essere ucciso con tutta la sua scorta da un’autobomba di Cosa nostra, Borsellino spiega che Mangano, quando fu assunto ad Arcore, era già «una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia».
I giudici del processo Dell’Utri acquisiscono la videoregistrazione integrale dell’intervista, in cui il magistrato rivela di essere stato tra i primi a scoprire il ruolo di Mangano in Cosa nostra.
«L’ho conosciuto in epoca addirittura antecedente al maxiprocesso – dichiara testualmente Paolo Borsellino – perché tra il 1974 e il 1975 restò coinvolto in un’altra indagine, che riguardava talune estorsioni fatte in danno di cliniche private palermitane, che presentavano una caratteristica particolare: ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con all’interno una testa di cane mozzata... Mangano restò coinvolto perché si accertò la sua presenza nella salumeria nel cui giardino erano sepolti i cani con la testa mozzata… Poi ho ritrovato Mangano al maxiprocesso, perché fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente alla famiglia di Porta nuova capeggiata da Pippo Calò, la stessa di Buscetta. E già dal precedente processo Spatola, istruito da Falcone, risultava che Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga delle famiglie palermitane. Arrestato nel 1980, fu condannato per questo traffico di droga a tredici anni e quattro mesi, pena poi ridotta in Appello.»
L’intervista, che i due giornalisti riescono a pubblicare solo alla vigilia delle elezioni del 1994, crea un putiferio soprattutto per una frase, che il magistrato lascia volutamente incompleta: Borsellino accenna a una nuova indagine sui rapporti tra Cosa nostra e le grandi imprese del Nord, citando espressamente Berlusconi.
Il magistrato però precisa che non è lui a indagare e rifiuta di fornire particolari, spiegando che se ne potrà parlare solo quando l’inchiesta verrà chiusa, non prima dell’autunno 1992.
Paolo Borsellino morirà in Via D’Amelio, meno di tre mesi prima.
3 maggio 2018