di Antonio Gramsci *
Il sindacato non è questa o quella definizione del sindacato: il sindacato diventa una determinata definizione e cioè assume una determinata figura storica in quanto le forze e la volontà operaie che lo costituiscono gli imprimono quell’indirizzo e pongono alla sua azione quel fine che sono affermati nella definizione. Obiettivamente il sindacato è la forma che la merce-lavoro assume e sola può assumere in regime capitalista quando si organizza per dominare il mercato: questa forma è un ufficio costituito di funzionari, tecnici (quando sono tecnici) dell’organizzazione, specialisti (quando sono specialisti) nell’arte di concentrare e di guidare le forze operaie in modo da stabilire con la potenza del capitale un equilibrio vantaggioso alla classe operaia. Lo sviluppo dell’organizzazione sindacale è caratterizzato da questi due fatti:
1) il sindacato abbraccia una sempre maggior quantità di effettivi operai, cioè incorpora nella disciplina della sua forma una sempre maggior quantità di effettivi operai;
2) il sindacato concentra e generalizza la sua forma fino a riporre in un ufficio centrale il potere della disciplina e del movimento: esso cioè si stacca dalle masse che ha irregimentato, si pone fuori dal gioco dei capricci, delle velleità delle volubilità che sono proprie delle grandi masse tumultuose.
Così il sindacato diventa capace a contrarre patti, ad assumersi impegni: così esso costringe l’imprenditore ad accettare una legalità che è condizionata dalla fiducia che l’imprenditore ha nella capacità del sindacato di ottenere da parte delle masse operaie il rispetto degli obblighi contratti.
L’avvento di una legalità industriale è stata una grande conquista della classe operaia, ma essa non è l’ultima e definitiva conquista: la legalità industriale ha migliorato le condizioni della vita materiale della classe operaia, ma essa non è più che un compromesso, che è stato necessario compiere, che sarà necessario sopportare fin quando i rapporti di forza saranno sfavorevoli alla classe operaia.
Se i funzionari dell’organizzazione sindacale considerano la legalità industriale come un compromesso necessario, ma non perpetuamente, se essi rivolgono tutti i mezzi di cui il sindacato può disporre per migliorare i rapporti di forza in senso favorevole alla classe operaia, se essi svolgono tutto il lavoro di preparazione spirituale e materiale necessario perché la classe operaia possa in un momento determinato iniziare un’offensiva vittoriosa contro il capitale e sottometterlo alla sua legge, allora il sindacato è uno strumento rivoluzionario, allora la disciplina sindacale, per quanto è rivolta a far rispettare dagli operai la legalità industriale, è la disciplina rivoluzionaria.
I rapporti che devono intercorrere tra sindacato e Consiglio di fabbrica debbono essere considerati da questo punto di vista: dal giudizio che si dà sulla natura e il valore della legalità industriale. Il Consiglio è la negazione della legalità industriale, tende ad annientarla in ogni istante, tende incessantemente a condurre la classe operaia alla conquista del potere industriale, a far diventare la classe operaia la fonte del potere industriale.
Il sindacato è un elemento della legalità, e deve proporsi di farla rispettare dai suoi organizzati. Il sindacato è responsabile verso gli industriali, ma è responsabile verso i suoi organizzati: esso garantisce la continuità del lavoro e del salario, e cioè del pane e del tetto, all’operaio e alla famiglia dell’operaio.
Il Consiglio tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a scatenare in ogni momento la guerra delle classi; il sindacato , per la sua forma burocratica, tende a non lasciare che la guerra di classe venga mai scatenata. I rapporti tra le due istituzioni devono tendere a creare una situazione in cui non avvenga che un impulso capriccioso del Consiglio determini un passo indietro della classe operaia, determini una sconfitta della classe operaia, una situazione cioè in cui il Consiglio accetti e faccia propria la disciplina del sindacato, e a creare una situazione in cui il carattere rivoluzionario del Consiglio abbia un influsso sul sindacato, sia un reagente che dissolva la burocrazia e il funzionarismo sindacale.
Il Consiglio vorrebbe uscire, in ogni momento, dalla legalità industriale: il Consiglio è la massa, sfruttata, tiranneggiata, costretta al lavoro servile, e perciò tende a universalizzare ogni ribellione, a dare valore e portata risolutiva a ogni suo atto di potere. Il sindacato, come ufficio responsabile in solido della legalità, tende ad universalizzare e perpetuare la legalità.
I rapporti tra sindacato e Consiglio devono creare le condizioni in cui l’uscita dalla legalità, l’offensiva della classe operaia, avvenga quando la classe operaia ha quel minimo di preparazione che si ritiene indispensabile per vincere durevolmente.
I rapporti tra sindacato e Consiglio non possono essere stabiliti da altro legame che non sia questo: la maggioranza o una parte cospicua degli elettori del Consiglio sono organizzati nel sindacato. Ogni tentativo di legare con rapporti di dipendenza gerarchica i due istituti non può condurre che all’annientamento di entrambi. Se la concezione che fa del Consiglio un mero strumento di lotta sindacale si materializza in una disciplina burocratica e in una facoltà di controllo diretto del sindacato sul Consiglio, il Consiglio si isterilisce come espansione rivoluzionaria, come forma dello sviluppo reale della rivoluzione proletaria che tende spontaneamente a creare nuovi modi di produzione e di lavoro, nuovi modi di disciplina, che tende a creare la società comunista.
Poiché il Consiglio nasce indipendentemente dalla posizione che la classe operaia è venuta acquistando nel campo della produzione industriale, poiché il Consiglio è una necessità storica della classe operaia, il tentativo di subordinarlo gerarchicamente al sindacato determinerebbe prima o poi un cozzo tra le due istituzioni. La forza del Consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di iniziativa nella creazione della storia: tutta la massa partecipa alla vita del Consiglio e sente di essere qualcosa per questa attività. Alla vita del sindacato partecipa un numero strettissimo di organizzati; la forza reale del sindacato è in questo fatto, ma in questo fatto è anche una debolezza che può essere messa alla prova senza gravissimi pericoli. Se d’altronde il sindacato poggiasse direttamente sui Consigli, non per dominarli, ma per diventarne la forma superiore, si rifletterebbe nel sindacato la tendenza propria dei Consigli a uscire ogni istante dalla legalità industriale, a scatenare in qualsiasi momento l’azione risolutiva della guerra di classe.
Il sindacato perderebbe la sua capacità a contrarre impegni, perderebbe il suo carattere di forza disciplinatrice e regolatrice delle forze impulsive della classe operaia. Se gli organizzati stabiliscono nel sindacato una disciplina rivoluzionaria, stabiliscono una disciplina che appaia alla massa come una necessità per il trionfo della rivoluzione operaia e non come una servitù verso il capitale, questa disciplina verrà indubbiamente accettata e fatta propria dal Consiglio, diverrà la forma naturale dell’azione svolta dal Consiglio.
Se l’ufficio del sindacato diventa un organismo di preparazione rivoluzionaria, e tale appare alle masse per l’azione che riesce a svolgere, per gli uomini che lo compongono, per la propaganda che sviluppa, allora il suo carattere concentrato e assoluto sarà visto dalle masse come una maggiore forza rivoluzionaria, come una condizione in più (e delle più importanti) per il successo della lotta impegnata a fondo.
Nella realtà italiana, il funzionario sindacale concepisce la legalità industriale come una perpetuità. Egli troppo spesso la difende da un punto di vista che è lo stesso punto di vista del proprietario. Egli vede solo caos e arbitrio in tutto quanto succede tra la massa operaia: egli non universalizza l’atto di ribellione dell’operaio alla disciplina capitalistica come ribellione, ma come materialità dell’atto che può essere in sé e per sé triviale. Così è avvenuto che la storiella dell'”impermeabile del facchino” abbia avuto la stessa diffusione e sia stata interpretata dalla stupidità giornalistica allo stesso modo della storiella sulla “socializzazione delle donne in Russia”. In queste condizioni la disciplina sindacale non può essere che un servizio reso al capitale; in queste condizioni ogni tentativo di subordinare il Consiglio al sindacato non può essere giudicato che reazionario.
I comunisti, in quanto vogliono che l’atto rivoluzionario sia, per quanto è possibile, cosciente e responsabile, vogliono una scelta, per quanto può essere una scelta, del momento di scatenare l’offensiva operaia rimanga alla parte più cosciente e responsabile della classe operaia, a quella parte che è organizzata nel Partito socialista e che più attivamente partecipa alla vita dell’organizzazione. Perciò i comunisti non possono volere che il sindacato perda della sua energia disciplinatrice e della sua concentrazione sistematica.
I comunisti, costituendosi in gruppi organizzati permanentemente nei sindacati e nelle fabbriche, devono trasportare nei sindacati e nelle fabbriche le loro concezioni, le tesi, la tattica della III Internazionale, devono influenzare la disciplina sindacale e determinare i fini, devono influenzare le deliberazioni dei Consigli di fabbrica e far diventare coscienza e creazione rivoluzionaria gli impulsi alla ribellione che scaturiscono dalla situazione che il capitalismo crea alla classe operaia.
I comunisti del Partito hanno il maggiore interesse, perché su di essi pesa la maggiore responsabilità storica, a suscitare, con la loro azione incessante, tra i diversi istituti della classe operaia, rapporti di compenetrazione e di naturale indipendenza che vivifichino la disciplina e l’organizzazione con lo spirito rivoluzionario.
* “L’Ordine Nuovo”, 12 giugno 1920