di Gianni Barbacetto e Sarah Buono
La faccia l’ha messa Giusva. Faccia da tv, bimbo del Carosello e ragazzino dello sceneggiato La famiglia Benvenuti. Poi faccia da guerrigliero dello spontaneismo armato, diavolo vendicatore che spara a bruciapelo a comunisti e poliziotti e magistrati. È lui, Giusva Fioravanti, il killer nero della strage di Bologna del 2 agosto 1980. Ma quella faccia da guerrigliero senza padroni ha tenuto nell’ombra tante altre facce, con più rughe e più anni e rapporti inconfessabili ai piani alti dello Stato e della P2. Il Negro, per esempio, per tutti questi anni è rimasto defilato: Gilberto Cavallini è stato condannato per banda armata, ma solo ora è a processo anche per la più sanguinosa delle stragi italiane. È lui, secondo le ipotesi d’accusa, l’anello di congiunzione dei guerriglieri neri di Giusva con i vecchi stragisti della strategia della tensione, ma anche con le barbe finte degli apparati dello Stato.
Gilberto cresce a Milano, nel quartiere Calvairate. Suo padre è fascista. La mamma – ricorda ora che dice di essersi convertito – “mi insegnava l’amore per il Vangelo di nostro Signore”. Da bambino canta nel coro della parrocchia di San Pio V. Ma finisce presto per preferire i cori di San Siro. Diventa un ultrà, è uno dei fondatori dei “Boys San” dell’Inter. La prima denuncia la becca nel 1974, a 22 anni, per aver sparato a un benzinaio che si era rifiutato di fargli il rifornimento. Ormai è un nero, un fascista, un picchiatore. A differenza di molti suoi camerati, non ama le sofisticherie germaniche e le Ss, preferisce l’italico fascismo mussoliniano, versione Salò. Il suo mito: i torturatori della Legione Muti.
La sera del 27 aprile 1976, per vendicare il camerata Sergio Ramelli ucciso dai rossi un anno prima, il suo gruppo aggredisce tre compagni in via Uberti. Resta a terra, accoltellato, Gaetano Amoroso, 21 anni. Morirà due giorni dopo. Cavallini è arrestato e condannato a 13 anni, ma evade durante un trasferimento e scompare. A proteggerlo, da qui in avanti, è il gotha del neofascismo italiano. Massimiliano Fachini, uno dei leader di Ordine nuovo (il gruppo delle stragi di piazza Fontana e di Brescia), lo nasconde in Veneto. L’ambiente è quello di Franco Freda, considerato l’ideatore della strage del 12 dicembre 1969.
Per tutti, Cavallini diventa Gigi Pavan, mandato più volte in missione a Roma, dove tiene i contatti con Sergio Calore e il gruppo di Paolo Signorelli, “Costruiamo l’azione”. A Roma incontra anche un ragazzo emergente, Giusva Fioravanti. Quando questi è in difficoltà, per aver sparato ad Antonio Leandri, ucciso per uno scambio di persona, Cavallini porta Giusva con sé in Veneto, a Villorba di Treviso, dove lo nasconde a casa della sua ragazza, Flavia Sbroiavacca, allora incinta. Abile ad apparire ciò che non è, Cavallini le ha fatto credere per mesi di essere un pendolare, di lavorare in una fabbrica di Padova. Solo quando nascerà il figlio le confesserà di essere un evaso e un latitante.
Per Giusva e il suo gruppo, la trasferta veneta è l’occasione per il salto di qualità. Il 23 giugno 1980, i Nar uccidono a Roma il sostituto procuratore Mario Amato, titolare delle principali inchieste sui neri. A sparargli alla nuca, mentre aspetta l’autobus 391, è Cavallini. Due mesi dopo, esplode la bomba di Bologna. In quelle settimane, c’era un altro giudice che doveva morire: Giancarlo Stiz, il primo che aveva indagato sulla pista nera per piazza Fontana. L’attentato non fu poi compiuto, ma Stiz ebbe la prova di essere stato nel mirino quando, giudice nel collegio che stava processando Fioravanti e Cavallini per una rapina a un gioielliere, il difensore di Giusva gli chiese di astenersi perché era stato obiettivo del suo assistito.
Amato, Stiz, la stazione di Bologna: era una campagna di morte quella progettata nell’estate 1980, che con l’uccisione di Stiz avrebbe unito la prima strage, piazza Fontana, all’ultima e più cruenta. Giusva è un brigatista nero, che spara prima di pensare. Il Negro è invece un uomo di collegamento, che lega i nuovi guerriglieri dello spontaneismo armato ai vecchi stragisti degli anni Sessanta: il medico veneziano Carlo Maria Maggi, capo di Ordine nuovo triveneto, processato e assolto per piazza Fontana e condannato per la strage di Brescia; Carlo Digilio detto zio Otto, l’esperto di armi di Ordine nuovo, in contatto con gli americani di Aviano, informatore della Cia con il nome in codice di Erodoto.
Unico condannato (reo confesso) per la strage del 12 dicembre a Milano, Digilio prima di morire ha raccontato dei suoi incontri con Maggi e “un giovane che aveva bisogno di far valutare una partita di armi”: era Gilberto Cavallini, che ieri, al processo in corso a Bologna, ha finalmente ammesso di averlo incontrato. Ora è difficile che quel processo, che corre parallelo a una nuova indagine sui mandanti condotta dalla Procura generale, non si ponga due domande: Cavallini aveva contatti con apparati dello Stato? E ha ricevuto finanziamenti da Licio Gelli e dalla P2? Un vecchio documento sequestrato a Gelli, intestato “Bologna-525779XS”, racconta di milioni di dollari usciti dal conto svizzero numero 525779XS, proprio tra il luglio 1980 e il febbraio 1981, i mesi della strage e dei depistaggi.
Altre note, scritte a mano da Gelli, riguardano contanti da portare in Italia: 4 milioni di dollari solo nel mese che precede la strage. A chi erano destinati? Un altro documento è stato invece trovato il 12 settembre 1983 in un “covo” di Cavallini a Milano: è una mezza banconota da mille lire. Secondo le carte di Gladio, la mezza banconota è il lasciapassare per i gladiatori – o per i membri di una pianificazione ancor più segreta, l’Anello – per presentarsi nelle caserme e ritirare armi ed esplosivo.
Perfino Giusva, convocato come testimone al processo nel giugno 2018, ha dovuto ammettere: “Su mio fratello Cristiano, su Francesca Mambro e Alessandro Alibrandi, sui miei amici fraterni, sono sicuro che non hanno mai avuto rapporti con i servizi segreti. Per quanto riguarda Cavallini non metto la mano sul fuoco, certe sue risposte mi sono sembrate strane, come l’aver negato a lungo di conoscere Digilio, uno che disse spontaneamente di aver lavorato per 20 anni con i servizi segreti militari e non”. Ieri Cavallini ha replicato alla cronista: “Sa dove se la deve mettere, Giusva, la mano?”. La Corte d’assise che ora deve giudicarlo dovrà dunque decidere non soltanto se aggiungere un quarto responsabile della strage ai tre già condannati (Fioravanti, Mambro e Luigi Ciavardini), ma se collegare il 2 agosto 1980 al 12 dicembre 1969, con fili neri fatti di depistaggi, logge eversive, servizi segreti.
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