di Giorgio Bongiovanni
20 aprile 2017 e 20 aprile 2018. Due date per due sentenze, “Borsellino quater” a Caltanissetta e “Trattativa Stato-mafia” a Palermo, che sono diventate storiche per il significato profondo che entrambe assumono. Dallo scorso luglio sono disponibili a tutti i cittadini le motivazioni di quelle sentenze. Oltre settemila pagine di letture che mostrano la storia di un Paese fondato su delitti eccellenti ed orribili macchie come depistaggi ed accordi tra Stato e mafia. E sullo sfondo si scorge sempre più nitida l’ombra dei cosiddetti mandanti esterni e delle alleanze che Cosa nostra vantava e vanta ad alti livelli.
E da queste sentenze emergono spunti importanti per nuove indagini in quelle procure (Palermo, Caltanissetta, Firenze e Reggio Calabria) che in questi 26 anni hanno cercato di mettere in fila tutti i pezzi del puzzle. Un lavoro faticoso che ha dovuto fare spesso i conti con quei silenzi ed omertà che, paradossalmente, più che quelle di mafiosi ed ex mafiosi hanno caratterizzato le testimonianze degli uomini delle istituzioni.
Quesiti senza risposta
Leggendo le carte sono molteplici gli interrogativi che restano ancora aperti e nuove domande si aprono su fatti clamorosi come quelli che hanno riguardato la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, i fatti di Terme Vigliatore che in qualche maniera coinvolgevano il boss Nitto Santapaola, o il mancato blitz a Mezzojuso per la cattura di Bernardo Provenzano.
Provenzano che probabilmente, sarebbe potuto essere catturato ben prima dell’aprile 2006.
Ricordo un dialogo avuto con il collaboratore di giustizia Totò Cancemi. Parte di quell’intervista, confluita nel libro “Riina mi fece i nomi di…” (Massari ed.) è stata anche acquisita agli atti del dibattimento di Palermo. Ebbene Cancemi aveva dichiarato che lo stesso giorno in cui si era consegnato ai carabinieri della caserma Carini di Palermo, il 22 luglio 1993, avrebbe dovuto incontrarsi con Carlo Greco, il capo del mandamento di Santa Maria di Gesù assieme a Pietro Aglieri, per poi raggiungere Bernardo Provenzano in una località segreta. Di fatto una volta in caserma aveva consegnato ai carabinieri un pizzino ricevuto da Greco, con il quale gli si comunicava un appuntamento per la mattina di quello stesso giorno con Provenzano. “Dopo aver chiesto di avvisare il Capitano ‘Ultimo’ – aveva raccontato Cancemi – dissi ai carabinieri che io avevo, per quella mattina alle sette, un appuntamento con Provenzano; quindi se volevano potevano prenderlo. All’inizio non mi hanno creduto, perché altri pentiti avevano dichiarato che non si sapeva se era ancora vivo”. (…) “Poi mi hanno fatto un buco nei pantaloni, ancora li conservo, per mettermi una microspia nella tasca in modo che io salissi in macchina con Carlo Greco. E li facessi arrivare a Provenzano. Ma tutto si è risolto in una bolla di sapone. E intanto l’orario dell’appuntamento è passato”. Misteri che si aggiungono ad altri, come ad esempio quello della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino.
Anche in questa vicenda nel corso degli anni vi sono state molteplici e differenti testimonianze. L’unica certezza viene data dall’operato dell’allora Capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo “immortalato nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage”, il pomeriggio del 19 luglio 1992, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, “con in mano proprio la borsa del Magistrato” (di Paolo Borsellino, ndr). Sulla questione agenda rossa i giudici di Caltanissetta scrivono che “l’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere le persistenti zone d’ombra sull’argomento, anche per le notevoli ambiguità e la scarsa linearità di alcuni dei testimoni assunti, sovente in contraddizione reciproca fra loro.
Non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del Magistrato (certamente non sottratta da appartenenti a Cosa Nostra), che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per lo sviluppo delle indagini sulle vicende stragiste”.
Alla fine del processo la Corte d’assise presieduta da Antonio Balsamo ha disposto la trasmissione ai pm dei verbali d’udienza dibattimentale “per eventuali determinazioni di sua competenza”.
Omertà di Stato
Anche nelle motivazioni della sentenza di Palermo il tema dei “ricordi tardivi” viene affrontato senza remore.
Troppi i “non so” ed i “non ricordo” che si sono succeduti nel corso del dibattimento. Troppe le giustificazioni e le contraddizioni accompagnate da colpevoli silenzi. Silenzi che, piaccia o non piaccia, sono stati interrotti soltanto dopo che un ex mafioso (Gaspare Spatuzza) ed un figlio di un sindaco Mafioso (Massimo Ciancimino) hanno iniziato a parlare con i magistrati.
I giudici della Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, sottolineano le “eclatanti dimenticanze” degli uomini di Stato. Nell’elenco troviamo alcuni carabinieri del Ros, la più stretta collaboratrice di Giovanni Falcone all’ufficio Affari penali del ministro della Giustizia, Liliana Ferraro. E poi ancora la dottoressa Fernanda Contri (ex segretario generale della presidenza del Consiglio), l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, l’ex presidente della Commissione antimafia Luciano Violante e l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. Tutti hanno parlato solo a partire dal 2008.
Proprio riguardo alla testimonianza della Ferraro, che di Falcone era amica e prese il posto alla direzione dell’ufficio Affari Penali, i giudici parlano di una ricostruzione fornita “poco credibile” con dichiarazioni che “non possono non suscitare forti perplessità”.
Addirittura la Corte è entrata nel merito delle dichiarazioni dell’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (deceduto nel gennaio 2012). Nelle motivazioni della sentenza la sua testimonianza di fronte ai pm viene definita “sorprendente” in quanto “in assenza e prima di qualsiasi domanda o cenno, ha spontaneamente escluso la sussistenza, non soltanto di una qualsiasi possibile trattativa tra Stato e mafia” ma anche “il possibile legame tra il regime del 41-bis e le stragi del 1993”. Secondo i giudici “ove si volesse escludere la consapevole reticenza del teste, può trovare una qualche giustificazione soltanto il lungo tempo trascorso o di patologie dovute all’età avanzata”.
Certo è che, se fosse rimasto in vita, Scalfaro sarebbe stato inserito tra gli imputati del processo, quantomeno per falsa testimonianza ai pm.
E se fossero stati ancora vivi, tra gli imputati (di cui facevano indistintamente parte mafiosi, figli di mafiosi, collaboratori di giustizia, ex politici ed ufficiali dell’Arma) vi sarebbero stati anche l’ex capo della polizia, Vincenzo Parisi, l’ex vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Di Maggio (entrambi morirono nel 1996) e l’ex stalliere di Arcore, Vittorio Mangano, morto nel 2000.
Sentenze che “parlano”
Adesso che le sentenze “parlano” c’è bisogno di un nuovo scatto in avanti nella ricerca della verità. I giudici nisseni nelle motivazioni della sentenza, parlano di “suggeritori” esterni, soggetti che avrebbero cioè imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino inducendolo a mentire. “Soggetti, – scrivono – i quali, a loro volta, avevano appreso informazioni da ulteriori fonti rimaste occulte”. Fonti che guardano in direzione dei Servizi di sicurezza.
Il processo di Palermo chiarisce definitivamente che i mafiosi hanno minacciato a suon di bombe e richieste i Governi di quegli anni mentre gli uomini delle istituzioni hanno concorso nel reato fungendo da tramite tra i mafiosi e il governo.
Così come ha più volte spiegato lo stesso pm Antonino Di Matteo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia, nel caso della trattativa a cavallo delle stragi del ’92 e ’93 “non si pensa che quei carabinieri abbiano agito da soli. Non si sono avute finora prove concrete per agire nei confronti di livelli più alti tuttavia si ritiene che siano stati incoraggiati a fare questa trattativa”. E’ per questo motivo che per offrire un nuovo impulso investigativo, così come in altre occasioni hanno rimarcato anche altri addetti ai lavori, “ci vorrebbe un pentito di Stato”. Una collaborazione che sarebbe illuminante per comprendere ancor di più quel che avvenne in quel biennio. Anche se, forse, si dovrebbe partire da ancor più lontano, seguendo la logica di un sistema criminale che da sempre ha visto i vari poteri relazionarsi.
Su questo avrebbero potuto approfondire proprio alcuni di quei soggetti istituzionali che fin qui sono stati ascoltati. Ad esempio l’ex Guardasigilli Claudio Martelli avrebbe potuto spiegare cosa intendesse dire quando, nel corso della sua edizione al processo trattativa ha dichiarato: “non è la prima volta che si scambiano favori tra la mafia, associazioni tipo la P2, servizi deviati, massoneria deviata” e che “potrebbe esserci stato anche in questo caso”, quando, cioè, il collaboratore dell’ex presidente Bettino Craxi “mi coinvolge nel Conto Protezione” intestato allo stesso Martelli e sul quale nel 1980-1981 il Psi ricevette sette milioni di dollari dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, finanziamento ottenuto proprio grazie a Gelli.
E ancora, tornando agli anni delle stragi, Martelli aveva anche aggiunto che “possiamo sicuramente essere certi che si è aperta una dialettica, bombe-concessioni, bombe-concessioni”, parlando, più che di trattativa, di un “cedimento unilaterale da parte dello Stato”.
Anche Violante aveva parlato in aula delle “bombe del dialogo” in riferimento a quelle delle stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano.
Anche di quegli attentati ha parlato l’ex capo del Cesis Francesco Paolo Fulci. Sentito come teste al processo trattativa Stato-mafia quando, nel giugno 2015, ha raccontato delle indagini svolte sulle telefonate targate “Falange Armata”, una strana sigla utilizzata ad intermittenza per rivendicare stragi e omicidi eccellenti. Interrogato dai pm aveva messo a verbale di essersi convinto che “tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di ‘Stay Behind’ (Gladio, ndr): facevano esercitazioni, come si può creare il panico in mezzo alla gente, creare le condizioni per destabilizzare il Paese, questa è sempre l’idea”. Ed al pm Roberto Tartaglia che in aula, facendo notare che quando erano cominciate le rivendicazioni della Falange Armata, l’operazione “Gladio” non esisteva più (per lo meno ufficialmente) ha domandato a chi si riferisse, l’ex ambasciatore ha risposto: “vuole che gliela dica tutta? Qualche nostalgico”.
Ovviamente le dichiarazioni di Fulci vanno valutate con accuratezza, anche per non cadere in eventuali “trappole depistanti”, ma è certo che, così come sosteneva lo stesso Giovanni Falcone nell’aprile 1986, esistono “realtà estremamente inquietanti e particolarmente complesse, fatte di ibridi connubi fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori devianti dello Stato, che hanno la responsabilità di avere tentato ad un certo punto perfino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di avere ispirato crimini efferati”.
Ugualmente andrebbero approfondite anche le dichiarazioni del sociologo Pino Arlacchi, consulente della Dia all’epoca delle stragi del ’92 e ’93, che ha deposto sia al processo Stato-mafia che a Caltanissetta dinanzi ai magistrati in un interrogatorio del settembre 2009. In quell’occasione, il sociologo forniva una dettagliata analisi degli anni prima e dopo le stragi, corroborata dalle parole di Falcone e Borsellino, da lui ricordate nel verbale d’interrogatorio. Fu in quell’occasione che Arlacchi faceva riferimento al fatto che “trattative fra Stato e mafia ce ne sono sempre state” e “in quegli anni cruciali ce n’erano in piedi più d’una, addirittura tre o quattro”. Quanto alle stragi del ’92, Arlacchi si diceva convinto che “Cosa Nostra nell’eseguire le stragi di Capaci e via d’Amelio avesse agito in sinergia con ambienti deviati delle Istituzioni, soprattutto del Sisde” che “aveva come punto di riferimento il dottor Contrada” successivamente condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma di quegli ambienti istituzionali, assicurava Arlacchi, faceva parte anche “qualche gruppo appartenente all’Arma dei Carabinieri, che aveva nell’allora Colonnello Mori il punto di riferimento”, secondo l’opinione del sociologo contraddistinto da “un’azione che definirei poco trasparente”. Ed anche ha riferito ad un dialogo avuto con Gianni De Gennaro, ex capo della Direzione investigativa antimafia. “Dopo le stragi del 1993 si consolidò presso i vertici della Dia – dichiarava Arlacchi – l’idea che le stragi avevano una valenza politica precisa, e cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti ed instaurare una trattativa. Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite i suoi referenti di cui ho detto – e cioè il gruppo Contrada – fosse uno dei terminali della trattativa”. Ma anche che “il dottor De Gennaro, già all’epoca, mi parlava di contatti ‘ambigui’ tra appartenenti a Cosa nostra e Marcello Dell’Utri, che fungeva da anello di congiunzione tra la mafia ed il mondo dell’economia e della politica”, cioè quel nuovo assetto di potere che, con Silvio Berlusconi e il suo braccio destro, ha governato l’Italia per un ventennio.
Ma questi aspetti non sono stati approfonditi a dovere, né da Arlacchi, né dall’ex capo della Dia? De Gennaro ha sempre smentito le circostanze in cui veniva coinvolto dal sociologo, ma a questo punto è lecito chiedersi chi, tra Arlacchi e De Gennaro, abbia mentito e, soprattutto, perché, se davvero all’interno della Dia si facevano tali valutazioni, il silenzio è rimasto tombale per così tanto tempo.
Anche ventisei anni dopo le stragi si può raggiungere la verità e contributi importanti possono giungere anche da chi, magari, non ha avuto un ruolo da protagonista ma può aver saputo, direttamente o indirettamente, qualcosa su certi fatti. Anche i familiari di Vincenzo Parisi o dell’ex Presidente Oscar Luigi Scalfaro possono fornire nuovi elementi investigativi. In particolare Marianna Scalfaro, la figlia dell’ex Capo dello Stato che sempre lo accompagnava nelle occasioni ufficiali, può offrire uno spunto. Lei che, in quegli anni, è anche stata minacciata dalla Falange Armata.
In un’intervista del 21 maggio 2017, pubblicata sul corriere.it, rispetto agli anni di Tangentopoli e le stragi aveva dichiarato: “Mio padre lo ha ripetuto più volte, in quelle settimane: le cosche tentano di fare politica con il tritolo. E si domandava: ma è solo mafia, questa? Ma non ha anche il marchio atroce del terrorismo? Chi ci può essere dietro a un attacco così spietato e clamoroso, a una sfida finalizzata a creare sgomento e presentare lo Stato quasi inutile? Guarda caso il suo messaggio televisivo tramandato dalle cronache per la frase del “non ci sto” si apriva proprio evocando le bombe…Insomma, sono convinta che la Seconda Repubblica abbia cominciato a nascere con Tangentopoli e con Capaci insieme”. E poi ancora aveva aggiunto: “Quante volte l’ho ascoltato accalorarsi con certi interlocutori – specie stranieri – per metterli in condizione di comprendere la cosiddetta anomalia italiana, spiegando loro che in quel clima si rischiava il sangue per le strade. C’era una intossicante e progressiva destabilizzazione, che poteva sfociare perfino in guerra civile. Del resto, non si sentiva forse parlare di rivoluzione in corso, politica e giudiziaria? Se riconsideriamo tante cose, non mi pare che esagerasse”.
Alla luce delle due sentenze, ed in particolare quella di Palermo, che evidenzia l’attentato al Corpo politico dello Stato messo in atto, è necessario andare oltre, senza paura. Serve un nuovo pentito di Stato, o forse che lo Stato diventi veramente pentito. Basta un atto semplice. E la desecretazione di tutti gli atti su quelle stragi e quei delitti, ad oggi avvolti dal mistero. Portella della Ginestra, Ustica, Italicus, Bologna, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Capaci, via d’Amelio, Firenze, Roma, Milano, ecc… ecc… Un primo passo. Ma forse questa è solo utopia.
15 Settembre 2018